mercoledì 31 maggio 2023

Predrag Matvejević

Secondo Raffaele La Capria ormai “la realtà è sopraffatta dalla sua rappresentazione” e per evitare le trappole dei luoghi comuni quella di Predrag Matvejević è “una Venezia fatta di scrittura che diventa materia e sensazione, materia e sensazione che riceviamo da Venezia, sensazioni di umido, di acqua, di marcio, di tempo, di bellezza, di passato, di malinconia, di miraggio, di marmo, di sabbia, di fango, di oro, di sfumato, di splendente, di torbido, di Venezia insomma, dell’indicibile Venezia”. Non poteva esserci introduzione migliore: quando Matvejević si immerge nella città, si accorge ben presto che “tra l’oscurità che cala e la nebbia che si infittisce, le forme diventano contorni. La banalità scompare”. La sua è un’esplorazione istintiva, segnata da un’osservazione spontanea, se non proprio affidandosi al caso, come se fosse una riduzione  pratica del destino. È una Venezia (e la sua Laguna) vista dal basso, fuggendo la panoramica del turista, inoltrandosi in vicoli e in sprazzi di mare, come refoli di scirocco ormai incontrollabili. La caccia al tesoro di Matvejević segue proprio le curvature nell’aria perché “a tradurre le forme del vento sono i rami curvi degli ulivi e dei pini, le erbe e le canne piega là dove sono esposte al turbine, macchie e cespugli, frumenti e biade allettati: in essi il vento ha lasciato le sue impronte, i suoi giochi, le sue figure”. La catalogazione della flora, sui muri e sul fondo dei canali, e della fauna segue una ricerca fatta di sguardi attenti alle sfumature dei tramonti così come alle geometrie dei ponti, dei cortili, dei pozzi e delle botteghe. Vengono portati in rilievo i cocci e le sculture “esterne” ed “erratiche”, i segni per le navigazioni, le scritte sui muri e persino l’onnipresente ruggine che appare “sfarzosa. La patina somiglia a una doratura”. È un paradosso, uno dei tanti della “città più inverosimile che sia”, che risale alla genesi della città. Nel suo Viaggio in Italia, Goethe sosteneva che, “non è stato per caso che quegli uomini (i veneziani) si sono rifugiati su quegli isolotti; non è stata una volontà straniera a incitare altri a unirsi a loro. La necessità li ha abituati a cercare la sicurezza nella situazione più sfavorevole, per loro diventata la più propizia: essa ha illuminato il loro spirito mentre, al Nord, il mondo intero era ancora nell’oscurità”. L’originalità di Venezia brilla nelle voci dei gondolieri, nelle navi affondate dai monaci per proteggersi dalle burrasche, negli anfitrioni che si distinguono tra un’ombra e l’altra. È così che Venezia “è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Predrag Matvejević colleziona anche vecchie e rudimentali fotografie, incisioni in rame, antiche mappe costruite assecondando voci e osservazioni riportate, annotazioni di una storia ricchissima e mutevole che si allunga su tutto l’Adriatico e per naturale estensione al Mediterraneo dove Venezia si colloca tra le altre città, Roma, Atene, Cartagine, Alessandria, Beirut, Napoli, Siracusa, Dubrovnik, Genova, Marsiglia, Siviglia, Istanbul, Gerusalemme, un mare cosmopolita. Un piccolo gioiello.

lunedì 29 maggio 2023

J. Á. González Sainz

Due racconti per Due.città, Trieste e Venezia, sprofondate nella storia, delimitate dalle frontiere, dalle coste e dalle lingue, popolate di ombre e di ricordi, di movimenti infiniti che attraversano il tempo, lo condensano in forme e lo conservano in architetture dove l’incontro e l’addio formano un’onda inarrestabile e dove ogni deviazione genera un varco, uno spazio, una nuova opportunità che è una potenziale intersezione, un attraversamento verso l’incognito e l’inesplorato. In Una leggera differenza di espressione, Trieste è lo scenario di un commiato che arriva come un sipario imprevisto (ma non imprevedibile) che copre con un velo indecifrabile tutta una mappa di emozioni. Claudio Magris dice che Trieste è “una città di scrittori grandi, mediocri o falliti, perché i contrasti che elidono e paralizzano la sua storia inducono a credere che solo scrivendo, esprimendo questo stallo possa dare consistenza alla propria persona”. Proprio così: Una leggera differenza di espressione riesce a cogliere alla perfezione l’atmosfera di “un destino che è il destino del caso, un buon risultato che è conseguenza dell’errore, una città che è tutte le città in un luogo che è tutti i luoghi e un tempo che è tutti questi ultimi tempi, il luogo di tutte le contraddizioni e di tutti gli incontri, con la montagna che prende la città alle spalle e il mare che le entra in faccia, e da tutte le parti, alle spalle e in faccia e sopra e altrettanto sotto, fuori ma anche perfino dentro, il vento come un avviso reiterato, la storia che non finisce di passare”. Qui Trieste e Venezia coincidono o, meglio, collidono, e condividono una dimensione arcana, ma neppure poi tanto. Se a Trieste il movente è la dissoluzione, a Venezia è la scelta, o la possibilità, la chance dietro l’angolo. Eppure Trieste appare aperta, indefinita e illimitata, uno sguardo su un’orizzonte di confini, mentre Venezia è chiusa, circoscritta, delimitata da sponde e incroci, dove ogni bivio presuppone una svolta. Il protagonista che affronta tutti i giorni L’altra strada nel tragitto da casa al lavoro, e viceversa, ammette la condizione kafkiana: “Non so come io riesca a rimanere ogni giorno imperturbabile, o forse soltanto intimorito, confuso, davanti all’eventualità che quell’altra calle mi porge di correggere un itinerario o di arricchirlo, di risolvere un’incognita o di appianare un dubbio”. La sua ambivalenza è un po’ la nostra perché “ci sono tante strade che una volta prese ti portano lontano, dopo alcuni metri oppure al termine di una lunga serie di svolte, sul bordo di un canale o semplicemente in una casa o in un cortile di un caseggiato, in un vicolo cielo! Ci sono tante strade senza uscita, tante calli morte che non vanno da nessuna parte!”. Nell’ambiguità del suo labirinto c’è qualcosa di ipnotico dato che, come scriveva Predrag Matvejević, “Venezia è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Il tormento che L’altra strada impone è uno stillicidio per il protagonista che “ogni giorno e ogni volta di ogni giorno” si ritrova  “davanti agli stessi crocevia” e, di nuovo, le Due.città si sovrappongono perché “non c’è in fondo altro modo di dissipare veramente il mistero se non con una perdita in ogni caso”. Dovrebbe essere chiaro fin dall’inizio, quando J. Á. González Sainz si premura di illustrare il destino di questi “racconti naufraghi”: “Ecco la dialettica narrativa: il gioco infinito della tensione, della ritorsione, del retro e dei ritorni. Non c’è niente senza ritorno, senza rovescio. E il rovesciare è il nostro compito, il ritornare”. Due.città è proprio come una moneta preziosa, testa o croce, avanti e indietro, doppio in uno, da conservare fino alla fine del viaggio, che, non si sa mai, come succede spesso a Trieste e/o a Venezia, potrebbe essere un’altra partenza.

mercoledì 24 maggio 2023

John le Carré

Dopo l’11 settembre, “i difensori della costituzione” sono alle prese con minacce invisibili, cellule “dormienti”, intrusioni di servizi segreti alleati sul territorio della repubblica federale tedesca. Tutti vogliono risposte e se non c’è un pericolo, è meglio inventarselo. Amburgo, una città dalle mille possibilità, diventa così l’humus ideale per John le Carré che assembla tutta una serie di cliché nei personaggi adatti, una volta radunati tutti insieme, a fornire un quadro esaustivo e, va da sé, un colpo di scena finale. Annabel Richter, avvocato, idealista, di buona famiglia, viaggia in bicicletta, si crede o si sente coraggiosa e si spende con generosità, ma anche con qualche ingenuità di troppo. Tommy Brue è un banchiere che deve nascondere un fallimento latente nei suoi uffici e un matrimonio che è già fallito (ed è il secondo) e deve provvedere ad alcuni conti riservati chiamati “lipizzani”, l’ultimo dei quali è appannaggio dell’unico erede del colonnello dell’Armata Rossa Grigori Borisović Karpov, ovvero Yssa o Ivan Karpov, avuto dalla fugace relazione con una donna cecena e arrivato per vie clandestine ad Amburgo. Si scoprirà che l’entità dell’eredità è di dodici milioni di dollari, non proprio una somma frugale ed è qui che, come una forza superiore, in gran parte incontrollabile, interviene una rete di servizi segreti (tedeschi, inglesi e americani) che complottano per trasformare una partita economica nella cattura di un potenziale finanziatore del terrorismo globale. Cominciano a manipolare uno dopo l’altro tutti i protagonisti, che, passo dopo passo diventano parti di una macchinazione che ha uno scopo ben preciso, per quanto invisibile. Yssa, tanto per cominciare, non ha documenti, è in fuga ed è entrato illegalmente in Germania. Annabel, che l’ha aiutato, con tutte le buon intenzioni di questo mondo, è altrettanto a rischio per aver violato le le leggi sull’immigrazione. Tommy Brue, neanche a dirlo, ha un buco nero (e neanche tanto metaforicamente) alle spalle, tra i conti “lipizzani”, le pratiche non sempre (quasi mai) legali della sua banca e altre deviazioni di percorso. Tommy è innamorato di Annabel, anche se si rende conto che è una questione fuori discussione, per non dire imbarazzante. Faisal Abdullah è inserito nella realtà tedesca, ed è garantito al novantacinque percento ma c’è sempre quell’ultima piccola percentuale che può creare un grande danno. Sono tutti ricattabili e spendibili e per il veterano dei servizi tedeschi Günther Bachmann (e la sua assistente Erna Frey) l’occasione è troppo ghiotta per non lasciarsi tentare: così coinvolge Annabel per manipolare Yssa e arrivare ad Abdullah, che rimane il bersaglio finale. Nel frattempo i servizi inglesi impongono a Tommy Brue di prestarsi al gioco e questi li asseconda tra un colpo di testa e l’altro anche perché il rapporto con il sottobosco dello spionaggio è di lunga data, e risale persino alla figura ingombrante del padre. La storia di Yssa il buono è una matrioska scoppiettante che non lascia tregua e John le Carré interpreta con la consueta abilità l’evolversi dei personaggi e delle situazioni in cui sono coinvolti e, in parallelo, sa leggere anche le deformazioni degli apparati di sicurezza che hanno generato un clima di paranoia dopo l’11 settembre, compreso il finale tranchant, ma molto realistico.

lunedì 22 maggio 2023

Robert Westall

Nel 1940 il disturbo da stress post-traumatico non era ancora stato diagnosticato. I reduci però ne soffrivano né più né meno di oggi. Anche Garmouth, una piccola cittadina inglese sulla costa, è oppressa da un lancinante disagio: ogni notte i bombardieri nazisti attaccano senza quartiere alimentando la paura dell’invasione. Con un aplomb molto britannico, la comunità di Garmouth cerca di sopravvivere, organizzando i soccorsi e le difese e provando a mantenere una parvenza di normalità nella vita quotidiana, frequentazioni scolastiche incluse. Chas, alias Charlie McGill, un ragazzo sensibile e acuto, osserva la lotta di ogni giorno da un punto di vista privilegiato, tenendo conto dei segnali che arrivano da piccoli dettagli. Se dopo il cessato allarme il carretto del latte era ancora carico era un “brutto segno”, perché “ogni bottiglia avanzata significava qualche famiglia bombardata durante la notte”. Per esorcizzare la minaccia di Una macchina da guerra, Chas e i suoi coetanei si sfidano a collezionare frammenti di ordigni: La sua, per quanto abbondante (“Undici alette di bombe incendiarie, ventisei proiettili usati, diciotto pezzi shrapnel, compreso uno lungo una trentina di centimetri, e cinquanta bossoli”), non può competere con quella del rivale Boddser Brown (“Un’ogiva di una decina di centimetri, un casco d’aviatore tedesco bello lucido, un mucchio di banconote tedesche con la faccia di Hitler stampata sopra e la foto di una ragazza tedesca con i codini che si chiama Mein Liebling”). Essendo un sognatore che deve sopportare tutto e tutti, Chas ha sviluppato la propensione a sparire nei boschi e quando trova i resti di un Heinkel 111 H, con tanto di mitragliatrice sulla torretta dorsale ancora intatta, non riesce a credere ai propri occhi. Una volta condivisa la scoperta con gli amici, decidono di costruire una fortezza, un avamposto trincerato nei dintorni della casa bombardata di uno di loro, un rifugio per la mitragliatrice (un trofeo esclusivo) e anche per prendere le distanze dai genitori. La vita nei cunicoli prevede l’aggiornamento continuo della struttura, con materiali rastrellati dalle case e dai giardini. Mentre i bombardamenti e le battaglie nei cieli continuano senza sosta, i ragazzi vogliono fare la loro parte e avere un ruolo da protagonisti, nel bene e nel male. Quando catturano un pilota nemico (ferito e stremato) si susseguono i colpi di scena, che Robert Westall sa raccontare con raffinata leggerezza, mettendo in rilievo tutte le follie e gli equivoci della guerra, che non è l’unico conflitto. C’è l’attrito con il mondo degli adulti, che sono provati e limitati, e non riescono a collocare i movimenti dei propri figli. C’è una faida contro i bulli, che imperversano nonostante i tempi drammatici, e non riescono a trovare un proprio posto e c’è una continua fuga dalla realtà, così come sono costretti a viverla, dato che “il mondo intero pareva diviso in due”. Con grande tatto, Robert Westall riesce a incastrare tutto in una trama lineare ed efficace capace di raccontare la deforme brutalità degli effetti della guerra con un punto di vista metaforico pulito e non privo di ironia. Basta e avanza.

giovedì 18 maggio 2023

Sarah Blau

Una serie di omicidi sullo sfondo di Tel Aviv. Stop. Tutte donne, vite preziose. Stop. Unico indizio: erano legate da un’antica amicizia, risalente ai tempi dell’università. Stop. È l’unica traccia e la più importante: la forma del thriller pare avere il duplice scopo di assecondare una trama più complessa che ha nel suo obiettivo la maternità, o meglio la decisione di non voler diventare madre a tutti i costi. Le altre vogliono essere diverse, a partire dal ruolo riproduttivo assegnato alle donne (in pratica, imposto), e il carattere perentorio della loro scelta lo si intuisce già dal titolo, che condensa le storie di un gruppo di studentesse di teologia che si erano ripromesse di difendere fino all’estremo la propria libertà, e il proprio corpo. Coltivavano in parallelo un’aderenza alle “donne bibliche che non hanno mai avuto figli”, come in cerca di fondamenta culturali per un patto in apparenza come tanti che si stringono in gioventù, ma che poi sono destinati a sfumare, il più delle volte. Sarebbe stato anche il destino che Le altre avrebbero incontrato, prima o poi, se solo ne avessero avuto la possibilità perché un serial killer le sta massacrando una alla volta, profanandole con rituali stregoneschi. Sheila Heller, una delle più convinte e ferventi tra Le altre, contiene agli occhi degli investigatori (non particolarmente brillanti, bisogna dirlo) tutti gli elementi per essere considerata il prossimo bersaglio, ma anche una serie di note stridenti che potrebbero associarla all’identikit del carnefice. È in una zona grigia dove può succedere di tutto e non fa nulla per impedirlo, anzi, sembra assecondare i suoi interlocutori quasi per inerzia e si ritrova proiettata indietro nel tempo, riscoprendo una volta di più che “il passato tornerà sempre a tormentarci, anche se quello che mi ha appena tirato un colpo in faccia è il futuro”. Tra un estremo temporale e l’altro, comunque sia, “giunge un momento nella vita di una donna in cui l’approssimazione è il miglior alleato” e per Sheila Heller è l’occasione di muoversi a sua volta concedendosi l’opportunità di scegliere, se non altro. Attorno a lei si moltiplicano ombre il più delle volte inoffensive (“Quel che c’è di bello nell’amicizia è che gli amici non devono per forza dirsi tutto, specialmente non la verità, che in genere è brutta e offensiva”), spesso titubanti e maldestre (in particolare le componenti maschili che sembrano quasi tangenti alle “altre”), ogni volta portatrici di perturbazioni e minuscole rivelazioni che conducono Sheila e tutti noi a ripeterci che siamo solo “la somma di ricordi ed esperienze, e nel momento stesso in cui siamo portati a riprendere in considerazione informazioni importanti che giacciono incontestate nelle profondità della coscienza, il nostro corpo, tutto il nostro essere, deve riallinearsi di conseguenza”. Su questi tratti in chiaroscuro, Sarah Blau costruisce tutta la trama,  che è una falsa pista adatta a prendere per mano il lettore verso uno snodo più cruciale, cioè il ruolo definitivo della donna nella consapevolezza di una decisione capitale, quella di diventare madre, oppure no. Senza dubbio, Le altre ruota attorno a quel cardine, ma in un angolo, ancora più intimo, c’è la sensazione che si sia qualcosa di sfuggente nelle nostre scelte che non riusciamo a controllare se non per fortuna, o per caso. Stop.