mercoledì 11 maggio 2022

Tuğba Doğan

Una canzone misteriosa risuona nella notte di Istanbul. Non c’è nessun musicista, eppure la ascoltano tutti, perché “ognuno ha un ritornello segreto. Per tutta la vita lo ripete di nascosto”. La sente soprattutto Salih, che è appena stato licenziato e ha deciso di partire per il Brasile, che potrebbe essere ovunque, essendosi convinto che “tutto era avvelenato, ormai. Nulla scorreva più. Da moltissimo tempo. Nemmeno un’apocalisse riusciva a scoppiare in tutto e per tutto. O magari l’apocalisse era in realtà una cosa così: non si trattava di una catastrofe gigantesca che aveva un inizio e una fine e non risparmiava nessuno, bensì di un qualcosa che si protraeva nella vita quotidiana attraverso strane, minuscole rotture dell’ordine, e che ogni giorno intaccava un punto nuovo, portandolo alla distruzione. Non era niente che avesse un inizio improvviso e raggiungesse il compimento in modo deflagrante, o che generasse un cambiamento, nulla che ricordasse un crollo; piuttosto, somigliava all’istante appena prima del crollo, niente che promettesse una rinascita; un tempo intermedio rimasto costretto chissà dove, una stasi assoluta nell’evoluzione del genere umano, una crisi, un malanno, una glaciazione che coinvolgeva l’intera umanità”. Questa è la condizione in cui si ritrova Salih: è a un bivio, vuole partire perché il conflitto latente sul lavoro (è un cronista) è esploso in modo irrimediabile, e non gli resta alternativa, se non andarsene. La cena d’addio è sottolineata da un’esplosione di sapori che, per contrasto, si riflettono negli umori degli ospiti. Oltre alla partenza di Salih, si devono confrontare con un’imprevista e stramba confessione e l’improvvisa dipartita di due di loro, compresa la proprietaria del ristorante, perché “quando la vita desidera veramente una svolta, intervengono le combinazioni”. Il bistrò delle delizie ne ospita in quantità, e Salih, immobile cerca di riordinare i suoi trascorsi, a partire dalla liaison fatale con Nihan come se dovesse organizzare i bagagli, sapendo che “ogni viaggio, in fondo, si compie non nello spazio ma nel tempo”. E così nell’elaborato menù che Il bistrò delle delizie serve per l’occasione, Salih ricorda Nihan a Berlino, Praga, Lisbona, Roma, Barcellona, Avignone, Vienna, città che sono soltanto ricordi e tappe e a ribadire che “la comunicazione impossibile dell’amore aggiunge ulteriori stratificazioni al tempo, le seziona con un dolore assoluto e impareggiabile e dona un senso allo spazio”. In tutto questo, Tuğba Doğan lascia fluire le parole, lavorando di cesello sull’atmosfera, sulle sfumature, attorno a un’impostazione che è insieme modernissima e crepuscolare: il suggerimento, esplicito, è ammirare Il bistrò delle delizie come I sonnambuli di Edward Hopper, quale riferimento dei riflessi dell’alienazione in una grande metropoli. Istanbul, come tutta la Turchia, è una ragnatela ombrosa avvolta nel silenzio, che è sinonimo di sopravvivenza. Il dilemma di Salih è comprendere che la partenza non può essere la soluzione e può essere scambiata per una fuga anche se ormai è inevitabile perché “a volte la gente di convince di essere accomunata da uno stesso sentimento per poter alleggerire la propria solitudine, mentre in realtà chissà quali menzogne sta vivendo”. La storia si annoda tra ombre e luci, Tuğba Doğan condensa “accenti, toni, allusioni, richiami, approvazioni, obiezioni” e la logica della scrittura corrisponde al destino della lettura perché “leggendo, una persona smette di essere se stessa e si trasforma in altre, diventa molti individui nello stesso istante”. Il bistrò delle delizie diventa così una sorta di buco nero dove il tempo collassa e Salih si ritrova a lottare con la memoria. Se “la scrittura è capace di far dimenticare tutto, perché imprigiona ogni cosa nelle parole selezionate in quel preciso momento, mentre la memoria non funziona affatto così, ogni volta riorganizza, raffigura, inventa”, per Salih diventa una danza di fantasmi e una tortura. Non può sfuggirgli, e così è la musica che “prima ti fa credere che esista un mondo totalmente diverso, bellissimo, ma poi quel mondo non ti restituisce nulla”. Affascinante.

lunedì 9 maggio 2022

Bill Bruford

C’è una questione che ricorre spesso nel libro di Bill Buford ed è: perché nessuno chiede mai a un batterista della sua vita, della famiglia, dei legami? Il libro risponde a quell’interrogativo partendo da un’altra serie di domande che nascondono altrettanti luoghi comuni. Come hai cominciato? Da dove prendi il sound? Ti piacciono le interviste? Vedi ancora gli altri? E soprattutto: sì, ma di giorno cosa fai? Questo succede perché Bill Bruford non è Robert Fripp (quella è un’altra delle domande fondamentali: com’è lavorare con lui?) e pur essendo un eccellente musicista, ha sempre avuto un rapporto controverso con il successo e la popolarità. Come dice lui stesso in un passaggio piuttosto eloquente: “Si dice che il primo obiettivo di un musicista sia di sopravvivere al fallimento, il secondo di sopravvivere al successo. Io ho dovuto sopportare il primo solo per poco tempo e dal secondo non ho ricevuto danni permanenti, quindi mi considero relativamente fortunato e resto un accanito sostenitore della via di mezzo”. Dagli inizi, quando la sorella gli regala un paio di spazzole e per Bill Bruford “il ritmo sembrava ovunque ma nessuno sembrava accorgersene” all’esordio nel 1968 (e da allora è uno dei maggiori batteristi sulla scena internazionale), fino all’approdo ad alcuni tra i maggiori gruppi della seconda metà del ventesimo secolo dagli Yes ai Genesis ai King Crimson e alla ritrovata identità di jazzista, la ricostruzione della sua biografia è sincera, ricca di aneddoti, di spunti polemici ed è persino dolente nel raccontare il suo intimo rapporto con la musica. Nella parte conclusiva, quando Bill Bruford riflette sul suo annunciato ritiro diventa una specie di confessione a cuore aperto: “Con questa cosa potente che chiamiamo musica ognuno gioca a proprio rischio e pericolo. La musica, non intesa come puro divertimento, bensì come energia, è una forza che produce effetti su chiunque. I ricercatori cominciano a ipotizzare che il suo uso, o il suo abuso, giochi un ruolo ben più importante di quanto la gente abbia voluto credere finora, nel determinare il carattere e la direzione della civilizzazione. Il potere della musica è sfaccettato, talvolta incredibilmente violento, ed è impossibile comprenderlo pienamente”. Ma nel libro c’è di più perché in quarant’anni di attività Bill Bruford non è stato soltanto un (grande) batterista, ma per sostenere la musica si è ritrovato a reinventarsi in dozzine di ruoli diversi e a confrontarsi con avvocati, giornalisti, promoter, manager e un tempo che non è mai stato il suo. La sua storia diventa una specie di manuale di sopravvivenza per chiunque decida di dedicare a uno strumento qualcosa in più delle ore lasciate a un hobby. Ci sono così tante domande che rimangono senza risposte da pensare che Bill Bruford voglia suggerire di approfondire quel dubbio che tutti fingono di non vedere perché l’unica, vera domanda è sempre quella: sì, ma ne vale la pena? In molti di momenti di terrore (al Madison Square Garden, in quei minuti interminabili in cui la sua nuovissima batteria elettronica non ne vuole sapere di funzionare, per esempio) Bill Bruford sembra arrendersi all’evidenza, ma poi nella sua lunga e prolifica esperienza fissa un limite importante: “La musica, tanto per chi l’ascolta quanto per chi la fa, consente di vivere l’esperienza reale di un possibile stato ideale”. E, sì, ne vale la pena.