mercoledì 27 giugno 2018

Arundhati Roy

Arundhati Roy ha scelto una strada che ormai pochi scrittori riescono anche soltanto a intravedere. Le contraddizioni della ricerca di una grandeur, se non proprio di una supremazia del subcontinente indiano l’hanno portata a esporsi in prima persona, andando a scontrarsi a scontrarsi con poteri infinitamente più grandi e temibili. Davide contro Golia. La fine delle illusioni raduna due saggi, Per il bene comuneUn mondo senza immaginazione, che testimoniano proprio il suo impegno nell’evidenziare le drastiche trasformazioni imposte all’India in nome del mercato e del progresso, sfidando la versione istituzionale della verità. Per il bene comune è un documentatissimo reportage è dedicato all’impatto delle grandi dighe, che dietro gli inevitabili luoghi comuni dello sviluppo nazionale, della modernità e della civilizzazione, nasconde “la gelida palude di speranza, rabbia, informazione e disinformazione, trucchi della politica, ambizioni degli ingegneri, socialismo disincantato, attivismo radicale, sotterfugi burocratici, l’emozionalismo disinformato e, ovvio, dell’invadente e sempre ambigua politica degli aiuti internazionali”. Se la costruzione degli sbarramenti, dei canali e delle relative infrastrutture nonché la distribuzione dell’acqua determinano lo sradicamento di milioni di persone e genera distorsioni ecologiche i cui effetti sono ancora tutti da comprendere, sugli aiuti (o meglio, sui finanziamenti) internazionali per Arundhati Roy non ha alcun dubbio: “È un circo di grandi acrobati, in cui gli artisti si conoscono bene e di tanto in tanto si scambiano le parti: un burocrate viene assunto dalla banca, un banchiere compare come consulente del progetto. Alla fine dello spettacolo, la maggior parte di quelli che vengono definiti aiuti per lo sviluppo è reincanalata verso i paesi dai quali proviene, travestita da costi per le consulenze o stipendi degli impiegati delle imprese”. Dedicato agli esperimenti nucleari indiani, Un mondo senza immaginazione accentua il paradosso di una nazione che, se da una parte rivendica la sua indipendenza dalla cosiddetta civiltà occidentale, dall’altra ne importa tutte le assurdità, a partire proprio dalla bomba atomica, tanto che Arundhati Roy commenta così: “Gli esperimenti nucleari dell’India, il modo in cui sono stati condotti, l’euforia con cui sono stati salutati (da noi) è imperdonabile. Per me, è presagio di cose tremende. La fine dell’immaginazione. O meglio, la fine della libertà, perché in fin dei conti la libertà non è altro che questo: scelta”. Sia le dighe che le bombe nucleari per Arundhati Roy sono “emblemi del ventesimo secolo, che marcano il punto in cui l’intelligenza umana è andata oltre il suo stesso istinto di sopravvivenza. Sono entrambe perniciose indicazioni di una civiltà che si rivolta contro se stessa. Rappresentano l’interruzione del legame, anzi, non solo del legame, ma della comprensione fra gli esseri umani e il pianeta”. Il tono polemico e/o sentimentale può sembrare quello di un pamphlet, ma ci sono elementi allarmanti che Arundhati Roy ha continuato a segnalare con coerenza, finendo per essere arrestata proprio durante una manifestazione di protesta. Grande coraggio, che nessuno gli aveva chiesto di mostrare, ma che un’urgenza ultima, quella di una scrittrice che vede, conosce, sa, interpreta, gli ha fatto tirare fuori. Con una chiarezza e una sincerità cristalline: “Noi abbiamo meno denaro, meno cibo e bombe più piccole. Però, abbiamo, o avevamo, ogni altro genere di ricchezze. Incantevoli, incommensurabili. Quello che crediamo di averne fatto è il contrario di ciò che abbiamo fatto davvero. Le abbiamo date tutte in pegno. Le abbiamo immesse sul mercato. Per cosa? Per fare affari proprio con la gente che proclamiamo di disprezzare”. Leggere La fine delle illusioni è un piccolo atto di resistenza umana e, una volta tanto, la riscoperta che la letteratura vuol dire anche esprimersi rispetto alle contingenze dei pericoli, e non nascondersi dietro tanti voli pindarici o brividi di seconda mano.

martedì 12 giugno 2018

John Berger

John Berger è un autore che ha vissuto la scrittura in termini quasi rinascimentali. Sia che si tratti di critica, saggistica o reportage, sia che si tratti di narrativa, la sua visione sembra essere sempre in cerca di un quadro ideale, fosse soltanto una fotografia, un modello per identificarci, per capire, per arrivare da qualche parte. Perché, come scrive in uno dei passaggi più significativi di Sacche di resistenza “un luogo è più di un’area. Un luogo delimita qualcosa. Un luogo è l’estensione di una presenza o la conseguenza di un'azione. Un luogo è l'opposto di uno spazio vuoto. Un luogo è dove un avvenimento ha avuto o ha luogo”. Sacche di resistenza è una raccolta di saggi che, partendo in gran parte dalla pittura, affrontano con la consueta lucidità la vita dei tempi moderni. Allora non importa se l’argomento è Michelangelo piuttosto che Degas, Morandi o Brancusi, Rembrandt o Gianni Celati: John Berger usa la scrittura per interpretare paesaggi e dipinti con la convinzione che “noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assolutamente misteriosa, che nessuno vedrà mai”. Il metodo, molto scrupoloso, serve ad approfondire le condizioni della luce in Europa, almeno quanto per scandagliare il nostro quotidiano dove “tutto quello che ci è dato da condividere è lo spettacolo, il gioco che nessuno gioca in proprio e che tutti possono star a guardare”. Qui John Berger sembra ricorda, anche involontariamente, La società dello spettacolo dove Guy Debord sottolineava che: “Più la necessità viene a essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno”.  Le Sacche di resistenza ribadiscono nella loro immediatezza attraverso piccoli bozzetti letterari, a volte veri e propri saggi, in qualche caso persino scambi epistolari  che “la nostra vita quotidiana è uno scambio costante con le apparenze da cui siamo circondati: spesso familiari, talvolta nuove e impreviste, ma sempre lì, a confermarci che esistiamo”. Nell’adottare un “modo di guardare” il passaggio attraverso la scrittura è inevitabile, e non solo perché, come diceva Francesco Biamonti, un altro narratore molto attento alla pittura, “scrivere è un disastro luminoso”. È proprio un esercizio di traduzione delle emozioni che John Berger definisce così: “L’atto di scrivere non è altro che l’atto di avvicinarsi all’esperienza di cui si scrive, proprio come l’atto di leggere il testo scritto, si spera, è un analogo gesto di avvicinamento”. È come ricalcare un ritratto, una linea dopo l’altra, e in fondo vederci comunque il nostro volto perché, così come sono raccolte nelle Sacche di resistenza, “la maggior parte delle profezie, quando sono esplicite, è destinata ad essere negativa, perché nella storia ci sono sempre nuovi incubi (anche se poi qualcuno svanisce) ma nessuna nuova felicità. La felicità è quella di sempre. Sono solo i modi per conquistarla che cambiano”.

lunedì 4 giugno 2018

Predrag Matvejević

Spiegando la “filologia del mare” che è l’anima di Mediterraneo, Claudio Magris scrive: “La cultura e la storia vengono calate direttamente nelle cose, nelle pietre, nelle rughe sul volto degli uomini, nel sapore del vino e dell’olio, nel colore delle onde. Matvejević cerca di afferrare il Mediterraneo, di abbandonarsi al fascino di questa parola ma anche di circoscriverne rigorosamente il significato, di tracciare limiti e confini. Egli insegue le varie piste mediterranee, quelle dei traffici dell’ambra e delle peregrinazioni degli ebrei sefarditi, dell’estensione della vite e del corso dei fiumi; i confini si fanno allora oscillanti e fluttuanti, ancorché coerenti e concentrici, disegnano ideali curve come isobare o creste d’onda”. Queste sono le tappe e la composizione del Mediterraneo è quella di un ecosistema intricato, anche per la presenza umana, perché “il sole del Mediterraneo talvolta toglie la ragione”, ed è qualcosa che ormai sperimentiamo tutti i giorni. Ne è certo Predrag Matvejević, convinto che “l’estasi o il sacrificio non riguardano solo la bellezza o la disperazione: si tratta forse anche di uno slancio o di una vertigine ai quali il Mediterraneo non ha osato dare dei nomi, che le stesse carte passano sotto silenzio”. Se “scegliamo innanzitutto un punto di partenza”, la prima panoramica che trasmette Predrag Matvejević è quella di un’area cosmopolita, termine che è stato deturpato, accantonato e infine dimenticato. Eppure, proprio “il Mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali: somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono”. Così i confini, le culture, le fedi e i commerci e le migrazioni “sono immagini con le quali tendiamo a non identificarci volentieri: ciascuno di noi è talvolta un porto affondato, sull’Adriatico o sul Mediterraneo”. La metafora è ambivalente e comunque validissima visto che “nessuno conosce tutti i popoli che vivono lungo le coste, neppure essi si conoscono abbastanza. Qualche volta non sappiamo neppure bene cosa significhi in questo caso la parola popolo: una città o un paese, una nazione o uno stato, una cosa separata dall’altra o entrambe insieme”. Tra i mille esempi possibili nei labirinti di Mediterraneo, quello che può chiarire questa fondamentale definizione, riguarda i beduini: “Mi sono imbattuto nei beduini, dal Marocco fino alla Libia, dall’Egitto fino al Sinai e alla Siria. Non sono riuscito a conoscerli: dove e perché vanno, se partono o ritornano? Appartengono a qualche nazionalità, la cercano, ne hanno bisogno? Non si riesce a capire se la loro patria è il punto da dove partono o dove arrivano o persino il tragitto che compiono. Il loro stato è il deserto che per confini ha gli orizzonti”. Quelli di Predrag Matvejević sono ampi e risoluti e rendono omaggio alla fitta tela del Mediterraneo spaziando dall’olivo a Aldous Huxley, dalla cartografia (“Su certi punti della carta geografica la storia si consegue a vicenda e accumula più che su altri: gli avvenimenti sono più numerosi e forti, i movimenti più frequenti e decisivi”) alle lingue scomparse, dai mondi latini e bizantini, a quelli arabi e africani perché il Mediterraneo è ponte e frontiera, ferita e cicatrice, abbraccio e addio insieme. Tutto rientra in uno sguardo famelico , ben riassunto da Predrag Matvejević quando dice che “il mare non lo scopriamo da soli e non lo guardiamo solo con i nostri occhi. Lo vediamo anche come lo hanno guardato gli altri, nelle immagini e nei racconti che ci hanno lasciato: veniamo a conoscerlo e lo riconosciamo al tempo stesso. Abbiamo conoscenza anche dei mari nei quali non ci specchieremo né ci immergeremo mai”. Una bibbia laica del mare.