giovedì 29 marzo 2018

Max Frisch

Hanno uno strano e pressante senso di attualità, questi Fogli dal tascapane. Sarà perché le cicatrici europee (e non) della seconda guerra mondiale sembrano riaprirsi secondo imprevedibili cicli temporali, sarà perché Max Frisch scrive, come è noto, andando direttamente al nocciolo della questione, sarà perché l’idea di storia non si può distinguere da quella di conflitto, ma qui dentro c’è qualcosa di più di un diario da un fronte che non c’è. Siamo nel settembre 1939: Max Frisch, soldato semplice della Confederazione elvetica è mobilitato nell’eventualità di un blitzkrieg nazista. L’annessione dell’Austria e l’occupazione della Cecoslovacchia, avvenute in primavera, non lasciavano molti dubbi sulle bellicose intenzioni tedesche. La Svizzera, che dal 1515, l’anno della sconfitta nella sanguinosa battaglia dei Giganti, nei campi a sud di Milano, è rimasta sempre neutrale, si trova nella necessità di non farsi trovare impreparata e l’allarme è inevitabile. Solo che le porte dell’inferno si apriranno molto più a nord, in Polonia, e sul versante alpino le armi resteranno mute. Il nemico proprio non arriverà e ai volenterosi soldati svizzeri non resta che provare e riprovare un’idea di guerra in un ambiente naturale, quello del Ticino, pacifico per antonomasia. Per loro, preparati al sacrificio dalla retorica e dalla disciplina, la guerra resterà un’ipotesi, un esercizio di stile e un fantasma. Lo scenario è contraddittorio, se non proprio surreale (“Siamo chierici vaganti su ordinazione. I luoghi della memoria, non è possibile evitarli. Non siamo nati ieri; abbiamo dei ricordi e il nostro paese è troppo piccolo, il ripetersi degli scenari è sempre in agguato”) e per Max Frisch diventa l’occasione migliore per riflettere, aspettando il proprio turno sul calendario dell’apocalisse. Condita dall’incertezza, l’attesa genera appunti amari e taglienti, quelli che Max Frisch recupera sui suoi Fogli dal tascapane. “Tutti noi abbiamo un obiettivo per il quale l’esistenza è sempre troppo breve. Tutti si lasciano sfuggire l’irraggiungibile. Non tutti però ne parlano”, dice ad un certo punto e forse è proprio questo il primo indiscutibile pregio della sua testimonianza. Raccontare l’impossibile: l’assenza, i silenzi, i dubbi, le ombre, i pericoli, la noia, l’angoscia e anche l’idea, devastante, che “non c’è alcun senso in questo mondo, non c’è consolazione; c’è solo quel che c’è”. Lucido e umanissimo reportage emotivo dello spirito dei tempi, Fogli dal tascapane è anche un ritratto della nostra esistenza di lettori, quando dice: “Stiamo lì, osservatori obbligati, condannati a giudicare, condannati a vedere”. Valeva allora, e ancora di più oggi ed è l’occhio di Max Frisch a sapere cogliere nell’orizzonte rimasto vuoto e immobile un senso altrimenti imponderabile: “In tutti questi anni passati, quanti hanno continuato a desiderare ardentemente che la propria vita quotidiana cambiasse? Forse il cambiamento arriva sempre da dove meno lo si aspetta. Poiché è sempre l’orrore che ci fa andare avanti. Dipende, poi se lo si respinge o lo si accoglie dentro di sé. A che serve, allora, star tanto a imprecare? In fondo, può essere solo il cuore a decidere, alla fine, se si tratta di un periodo sterile o fecondo”.

martedì 27 marzo 2018

Jules Evans

Le “esperienze spirituali spontanee”, piuttosto che gli “stati di alterazione”, sono stati guardati con sospetto (se non proprio banditi) sia dalle comunità religiose, sia da istituzioni ben più prosaiche, dominate (a fatica) da Freud e Jung, considerate improprie in quello che Charles Taylor definiva l’immaginario “orizzontale” in L’età secolare. In effetti la loro dimensione è piuttosto verticale e istantanea, quando “qualcosa cattura la nostra attenzione, ci scopriamo rapiti, il nostro respiro si fa più profondo e la vita delicatamente si trasforma da fardello a meraviglia”. La definizione di Jules Evans è la linea di partenza alla ricerca dell’estasi e alla considerazione del suo ruolo (scomodo) nell’ambito della cultura occidentale. Il suo approccio è più da antropologo che da filosofo: le prove sul campo, le indagini in prima persona mostrano più il tentativo di comprendere un fenomeno che di dimostrare una tesi. Il metodo empirico di Jules Evans è una scelta più che altro istintiva e dovuta a un antefatto doloroso e drammatico. La drammatica esperienze personale nei trip di acido (e la patologia post-traumatica da stress che ne è seguita) è la motivazione ambivalente per cui Jules Evans spalanca le porte del “festival dell’estasi” dove racconta le sorprese e le possibilità della contemplazione (spontanea), della meditazione (faticosa) e del contorsionismo erotico (imprevedibile). Con uno sforzo encomiabile, Jules Evans prova anche a comprendere, per quanto possibile, la violenza (assurda) come veicolo per raggiungere una qualche dimensione superiore, ma va da sé che L’arte di perdere il controllo si esercita soprattutto nella “costruzione di mondi”. Da Shakespeare a Marilynne Robinsonin“essere immersi nella lettura significa sprofondare in una realtà virtuale che noi stessi collaboriamo a generare” e così non di meno succede con il cinema di David Lynch o di Stanley Kubrick o nel “palco principale del festival”, il rock’n’roll, un luogo dove si può vivere “out of control” senza particolari effetti collaterali. L’allarme suona dall’altra parte della barricava. Gli assidui richiami ad Aldous Huxley servono proprio a ricordare che la genesi individuale e la “gioia collettiva” dell’estasi generano un attrito rispetto all’ordine costituito. Il carattere sovversivo e vitale resta implicito, ma permea tutti i passaggi delle “istruzioni per l’uso” perché è evidente che l’estasi è un’ospite difficile per le istituzioni di ogni forma e genere. Jules Evans si premura di sottolinearne i pericoli e le contraddizioni, ma le sue digressioni filosofiche, accordate a uno storytelling fluido, a tratti ironico, comunque pertinente e sincero, portano a concludere che il controllo delle emozioni e degli impulsi (se non proprio la loro rimozione) ha generato una reazione a catena per cui “dopo mezzo secolo di pace e prosperità, il multiculturalismo liberale ha apparentemente fallito nell’impresa di offrire alla popolazione un senso di appartenenza e un concetto di bene comune. Ha fallito nell’impresa di fornire una percezione di sicurezza e protezione in un mondo in costante e rapido mutamento. Ma, sopra ogni cosa, è scaduto in uno stantio managerialismo burocratico, non riuscendo a proporre alle persone una visione trascendente del futuro”. Il punto è questo: la guida per gli autostoppisti dell’estasi di Jules Evans sotto sotto è un manifesto politico (ammesso che la politica esista ancora) che è utile, se non altro, a districarsi tra visioni della rete e realtà dell’LSD, flussi di coscienza e di sudore, ipotesi di un futuro remoto e di molti passati irrisolti, gli Eventi di cibernetica e La tormentata eredità della rivoluzione e comunque ostinatamente in cerca di un equilibrio impossibile, perché “siamo tutti in fuga dall’obsolescenza”. È quasi un’ammissione di colpa che Jules Evans, molto più brillante di tanti filosofi prêt-à-porter, si può concedere, immaginiamo, con un sorriso sornione e un disco di Elvis in sottofondo.

domenica 25 marzo 2018

Nadine Gordimer

A prima vista queste note dal nostro secolo sono una variopinta raccolta di saggi, discorsi, frammenti di incontri, scambi epistolari. Le citazioni in ordine sparso (Seamus Heaney, Salman Rushdie, Boris Pasternak, Claudio Magris), i ritratti di Joseph Roth e Günter Grass, il carteggio con Kenzaburō Ōe, la seconda parte dedicata all’apartheid, a Nelson Mandela e più in generale al Sud Africa coabitano apparentemente in virtù dell’eclettismo di Nadine Gordimer. In realtà, più da vicino, Vivere nella speranza e nella storia è un compatto e complesso richiamo perché secondo l’autrice “la narrativa ha responsabilità precise” e la sua moralità “consiste nel prendersi la libertà di esplorare ed esaminare con impavida onestà la morale contemporanea, compresi sistemi morali quali le religioni”. Certe urgenze potranno apparire retoriche o didascaliche o, diciamo la verità, persino noiose, ma a costo di essere ripetitiva Nadine Gordimer pesta con decisione sullo stesso chiodo e rimette in discussione il ruolo dello scrittore che “non ha ragione d’essere se per lui la realtà rimane al di fuori del linguaggio. Una corrispondenza esatta e vitale tra ciò che è e il modo in cui egli lo percepisce è l’obiettivo che lo scrittore di narrativa deve perseguire, trovando il vero significato delle parole per esprimere lo stato delle cose, sbarazzandosi dei concetti triti e ritriti contrabbandati nel linguaggio della politica”. Diventa allora chiaro che le diverse voci convocate in queste pagine di Nadine Gordimer si completano nel sostenere il suo perentorio, accorato appello: “Noi abbiamo la libertà di scrivere, e siamo pienamente consapevoli che si tratta di una condizione che dobbiamo essere sempre pronti a difendere contro tutte le razionalizzazioni politiche e tutti gli appelli ad alterare la nostra ricerca della verità trasformandola in qualcosa di più gradito a chi fa compromessi di potere”. È più facile darla per scontata o non parlarne affatto, ma non gioverebbe alla “speranza”, così come non ha aiutato la “storia”. D’altra parte, come le risponde Kenzaburō Ōe in una missiva “uno scrittore passa la vita a scrive una storia in cui è racchiusa tutta la sua esistenza”. Per Nadine Gordimer significa confrontarsi con la vita del Sudafrica e, di conseguenza, con l’apartheid. Le prime riflessioni qui riportante risalgono al 1959 e l’accompagnano fino al Nobel, cosciente che per eliminare dal vocabolario quell’orribile parola e i terrificanti meccanismi a cui conduceva era necessario “uno degli eventi straordinari nella storia della società mondiale: il completo rovesciamento di tutto ciò che per secoli ha regolato la vita di tutto il nostro popolo, guidato dalle incarnazioni del razzismo che si sono via via susseguite a livello governativo (conquista, colonialismo, repubblicanesimo bianco), ripetutamente culminate nella violenza”. Nadine Gordimer non nasconde che la dissoluzione dell’apartheid e le prime elezioni democratiche aperte a tutti nel 1994 (toccante il racconto della giornata elettorale in La prima volta) sono stati soltanto accenni verso un possibile futuro, su cui grava la mancanza di una “giustizia materiale”. La definizione (lucidissima) è proprio di Nadine Gordimer ed è frutto di una visione del ruolo dello scrittore che “può servire l’umanità nella misura in cui usa la parola persino contro coloro di cui condivide le posizioni politiche; solo se crede che la condizione dell’essere, così come è rilevato, nasconde nella sua complessità, filamenti della corda della verità che si possono legare insieme, qui e lì, nell’arte; solo se crede che la condizione dell’essere lascia dietro di sé frammenti di verità, ossia della parola definitiva, inalterata dalle menzogne, dalla sofisticheria semantica, dai tentativi di insudiciarla per motivi dettati dal razzismo, dal sessismo, dal pregiudizio, dal dominio, dall’apoteosi della distruzione, dalle maledizioni e dagli inni di lode”. È la conclusione del suo discorso per il premio Nobel 1991, meritatissimo.

venerdì 23 marzo 2018

Ariel Dorfman

Una vita divisa in due, quella di Ariel Dorfman: tra sud (l’Argentina, il Cile) e il nord (gli Stati Uniti), tra lo spagnolo e l’inglese, tra politica e letteratura. Di contorno, un paio di incontri ravvicinati con la morte, all’epoca del golpe militare di Pinochet, nel settembre 1973. La scelta autobiografica di Verso sud guardando a nord è un tentativo di ricomporre le parti, perché, come scrive lo stesso Ariel Dorfman “quando ti senti sul collo il fiato dell’oblio, quando lui ti porta a fare un giro fino alla periferia del nulla e poi con uno strattone, ti lascia cadere di nuovo sulle spiagge della realtà, illeso e tremante, hai bisogno di trovare una ragione per crederci, un significato”. Il primo passaggio Verso sud guardando a nord è a Buenos Aires, dove è nato, poi New York, poi il Cile, la California nel 1968, e ancora l’Argentina, poi l’Europa e infine gli Stati Uniti. Seguendo cerchi che si intersecano, e una voglia di rivoluzione che aveva “molto più coraggio che speranze”. Verso sud guardando a nord racconta una vita ingorgata dalle utopie, spezzata dall’esilio e tenuta insieme dalla letteratura che Ariel Dorman definisce “il più grande inganno inventato dall’umanità”. È una boutade, naturalmente, perché è proprio quello lo strumento che gli permette di essere un testimone sincero sapendo che “tutto può essere nominato e che perciò, in teoria, o almeno nei desideri, il mondo ci appartiene. E che se non ci è consentito possederlo, nessuno ci può impedire di immaginare che ci sia tutto nel mondo, tutto ciò che il mondo può essere, che è da sempre”. Compresi gli errori della rivoluzione cilena di Salvator Allende, i legami pericolosi con gli Stati Uniti, gli orrori del golpe e, prima ancora, le sue stesse, personali contraddizioni davanti agli hippie di Berkeley e a quella parte di America che infine è diventata la sua casa. È un diario, in fondo, e in quanto tale è comprensibile che Ariel Dorfman consegni alla scrittura, florida e ipersensibile, la sua storia, ma le domande rimangono inalterate: “Ma è questa la verità? Forse mi sono raccontato questa storia così tante volte che ho finito con il crederci, nell’illusione di essere sfuggito alla morte per la forza della mia fantasia: il personaggio che avevo creato dal nulla mia aveva salvato da quel nulla, impedendomi di diventare qualcosa che non era più. È perfetto: è un bel gioco di simmetrie e fa una grande storia. Ma è anche vero?”. Se c’è una risposta è nella ragnatela di dubbi, sogni e amicizie che Ariel Dorfman insegue per impedire al dolore di distruggerlo: sa che L’avventura di un doppio esilio avrà comunque senso perché “non si può crescere senza recidere il legame che ci stringe al passato, imparare senza aprirsi a ciò che è estraneo, straniero e fecondo. Tutti coloro che hanno fondato nuove civiltà sono eroi che un tempo qualcuno ha cacciato via dalla loro casa. La salvezza può essere raggiunta solo attraverso il vagare”. La letteratura resta una piccola luce ed è il limite naturale di Verso sud guardando a nord: tra i suoni numerosi dualismi spicca quella tra la fedeltà all’autobiografia e la passione per il romanzo (ed è questo il vero accento “verso sud”) a cui Ariel Dorfman non rinuncia mai.

giovedì 22 marzo 2018

Albert Cossery

I vicoli del Cairo in cui è ambientato Mendicanti e orgogliosi sono un microcosmo dove il tempo sembra essersi fermato. La gente che vi vive, il più delle volte di elemosina non ha alcuna pretesa al mondo, se non quella di salvaguardare quello che gli rimane della propria umanità. Con una dignità costruita giorno per giorno, con metodo e per quanto può apparire paradossale, persino con una certa disciplina (se non proprio una professionalità): “In mezzo a tante assurdità reali, il fatto di mendicare pareva un lavoro ragionevole. Occupava sempre lo stesso posto, con la stessa dignità di un impiegato dietro la scrivania”. È questo ciò che esattamente racconta Albert Cossery: le sfumature noir di Mendicanti e orgogliosi mettono a disposizione soltanto gli antefatti necessari a inoltrarsi nei brulicanti meandri del Cairo. L’entrata nel labirinto è spalancata proprio con l’assassinio di una prostituta e la relativa indagine condotta da Nour el Dine, un poliziotto che va scavando in un universo dove tutti i cosiddetti valori moderni sono esclusi, banditi, probabilmente sconosciuti da sempre. Non si tratta soltanto di mendicanti: ogni outsider trova un suo posto, quasi che vivere in quel modo, in mezzo alla strada, di stenti e di elemosine fosse una scelta esistenziale. Anzi, è proprio così: tutti i Mendicanti e orgogliosi si chiamano fuori dagli ordini costituiti e vanno fieri della loro diversità, più che della loro miseria. È ancora più chiaro nei pensieri di Gohar, il protagonista del romanzo, clochard con un nutrito bagaglio filosofico: “Si sentiva pienamente felice. Era sempre la stessa cosa: quello stupore che provava dinanzi all’assurda facilità della vita. Tutto era irrisorio e facile. Doveva solo guardarsi intorno per convincersene. La miseria brulicante che lo circondava non aveva nulla di tragico; sembrava celare in sé una misteriosa opulenza, i tesori di una ricchezza inaudita e insospettata. Una prodigiosa noncuranza sembrava presiedere al destino di quella folla: tutte le abiezioni vi assumevano un carattere d’innocenza e purezza”. Parole che suonano coraggiosamente fuori dal coro e in tempi sempre più avvinghiati alle necessità quotidiane, superfluo compreso, sembrano persino profetiche. Albert Cossery, nato al Cairo nel 1916, frequentatore della stessa Parigi di Lawrence Durell, Albert Camus e Henry Miller (una bella compagnia, senza dubbio) si premura di essere anche più preciso nella nota in fondo a Mendicanti e orgogliosi: “Per tutta la vita ho frequentato delle persone che qui chiamano marginali e che per me sono i veri aristocratici. Il mondo è una falsa realtà instaurata dai ricchi da migliaia di secoli. Quando acquistate un’auto, diventate schiavi, vi costituite prigionieri. Per me, che non ho nulla, la vita è semplice. Mi sveglio, non sono angosciato dalla mia automobile. Guardo. L’intelligenza, una volta che si è capito in che inganno si vive, è di capire che la vita è bella”. Anche in questo Mendicanti e orgogliosi non è soltanto un grande romanzo, ma una capitolo straordinario “nell’insensata avventura degli uomini”, di cui rappresenta un’apologia dell’indolenza, dell’ozio e della diversità.

mercoledì 21 marzo 2018

J. M. Coetzee

La discesa negli inferi di David Lurie, professore alla Cape Town University, comincia il giorno che la sua amante a pagamento lo abbandona, senza lasciare traccia. Fin lì si era accontentato: “Nessuna emozione, tranne forse la più profonda, la meno prevedibile: un basso ostinato di soddisfazione, come il ronzio del traffico che culla il cittadino quando s’addormenta, o come il silenzio della notte per la gente di campagna”. Sarà utile segnarsi la differenza, che avrà un luogo non secondario nello svolgersi di Vergogna. Persa la possibilità di sfogare i propri istinti carnali in modo sistematico, David Lurie si lascia travolgere dagli eventi, assecondando la piega perversa che va assumendo la sua vita e s’invaghisce di una studentessa incurante delle più che prevedibili conseguenze. Nello scandalo, inevitabile, non fa nulla per non essere bandito dall’università. Rispondendo al collega che, chiamandolo per conto del rettore e della commissione disciplinare gli offre un’ultima chance nella forma di una richiesta di clemenza con una dichiarazione di pentimento, David Lurie dichiara: “Vi ho detto come la penso. Non lo fai. Sono comparso davanti a una commissione ufficiale. Di fronte a questo tribunale terreno mi sono riconosciuto colpevole, con un’ammissione di colpa terrena. Tanto vi basti. Il pentimento esula dalle vostre competenze. Il pentimento appartiene a un altro mondo, a un altro universo concettuale”. Già nel tono, è palese che sta coltivando una sconfitta esistenziale di proporzioni clamorose: incapace di gestire le proprie pulsioni, gli restano due matrimoni alle spalle e una figlia che sopravvive in una landa desolata del Sudafrica. È da lei che si trasferisce in fuga dal primo capitolo del suo fallimento, ma solo per trovarsi incapace di reagire alle necessità primordiali della vita nelle campagne africane, prima fra tutte, l’autodifesa. Prigioniero di un romanticismo che assimila e comprende un certo grado di decadenza, David Lurie non è di aiuto alla figlia, che ha subito un stupro, e vaga alla ricerca di una risposta, di un’assoluzione che nessuno può dargli perché il Sudafrica è un posto troppo duro per ricostruirsi un’innocenza. Carico di simbolismi e di dialoghi sferzanti, Vergogna lo racconta attraverso l’odissea personale di un uomo che non riesce a trovare una logica ai propri errori, impossibilitato ad accettare tanto il confronto forzatamente politically correct del nuovo Sudafrica quanto il primitivismo delle campagne. Nemmeno il suo autore, a dire il vero, gli concede molto. J. M. Coetzee è un narratore freddo e acuto che lascia i personaggi soli a scoprire i loro destini e, come in una spirale al contrario, le esistenze tornano a incrociarsi, ma ogni volta sempre un po’ più lontane e confuse nel caotico paesaggio sudafricano. Di cui Vergogna è un ritratto aspro, realistico, credibile: non offre certezze, appoggia soltanto su una varietà infinita di domande e sul peregrinare di un uomo senza qualità che, per quanto prigioniero della sua poesia e dei suoi sogni, deve scoprire e comprendere l’amarezza di mondi che non gli appartengono, compreso, dramma nel dramma, quello della figlia. Un romanzo scomodo.

martedì 20 marzo 2018

Paul Williams

A lungo il nemico pubblico numero dell’Irlanda, The General alias Martin Cahill affiancava alle sue attività criminali un continuo, ossessivo duello con le istituzioni. Il senso di quella sfida in una nazione allora poverissima e attraversata da correnti fratricide rimane oscuro. Paul Williams la chiama “la sua personale rivolta” e rende il senso di un’esistenza anarcoide: Martin Cahill resta un “fuoriclasse della malavita”, un outsider che ha potuto scorrazzare fintanto che il precario equilibrio dell’Irlanda di quegli anni lo ha permesso. Paul Williams svolge una trama puntigliosa e precisa nei riferimenti ed è molto attento a ricostruire il contesto generale e particolare (nei dettagli della vita quotidiana, nei rapporti tra i gangster, nella costruzione dei colpi, sempre rigorosa nella sua assurdità) ed è perfetto così perché The General si muoveva in un ambiente che credeva fosse la sua terra, e che invece era contesa da entità e logiche ben più complesse di quelle di una banda di rapinatori. Le dinamiche dell’Irlanda e del Regno Unito, legate dal conflitto nell’Ulster incombevano, ma finché Martin Cahill e la sua accolita di briganti si è limitata all’ordinaria amministrazione, ovvero i furti, le rapine, le estorsioni e tutte le altre attività delinquenziali di piccolo cabotaggio, The General poteva spadroneggiare sui suoi quartieri e su una bella fetta di Dublino con una certa noncuranza. Il passo falso, che nell’immaginario delle superstizioni malavitose ha preso la forma di una maledizione, è stato passare al furto di opere d’arte. Attirato dall’immenso valore (si trattava di milioni di sterline invece delle centinaia di migliaia a cui erano abituati) e dalla relativa facilità del colpo, The General mise a segno uno dei più grandi furti di quadri dell’epoca, senza tenere conto delle implicazioni internazionali, e di aver alzato il livello dello scontro. Nella ricostruzione di Paul Williams è ribadito spesso che, in tutta evidenza, The General non aveva né i contatti giusti per rivendere la refurtiva e, si intuisce, non disponeva nemmeno della cultura per gestire un’operazione così complessa. Del resto, lo stesso Martin Cahill ammetteva: “Ho fatto la scuola dell’obbligo in riformatorio, le superiori nella sezione minorile del penitenziario di St Patrick e l’università nella prigione di Mountjoy: lì mi hanno insegnato tutto quello che so”. Abbastanza per sopravvivere e controllare i marciapiedi nelle periferie di Dublino, ma non per gestire un Vermeer o un Goya, né, ancora meno, la ribalta che la natura stessa di quel furto implicava. Da quel momento The General venne messo sotto stretta sorveglianza e se la disputa con la polizia e la magistratura irlandese assunse aspetti a tratti goliardici, dal 1990 la creazione di una forza speciale antiterrorismo, e l’implicita libertà di rispondere colpo su colpo, generarono una lunga scia di sangue. Quelli che non morirono, finirono in galera, e The General si ritrovò solo, con i quadri nascosti da qualche parte sulle colline di Dublino, e con la consapevolezza che il profilo del delinquente ordinario e assiduo nel rifiutare le istituzione non era sufficiente a garantirgli di invecchiare tranquillo. Ma più che vittima dell’IRA, Martin Cahill lo sarà di un tempo ormai passato: quando il premier inglese e quello irlandese avviarono dai gradini di Downing Street la laboriosa stagione dei negoziati, il 15 dicembre 1993, The General si ritrovò all’improvviso a essere obsoleto. L’esecuzione, il 18 agosto 1994, non fece altro che sancire quella realtà. Armato solo della sua spavalderia, ormai insufficiente nel nuovo mondo che avanzava, morì a pochi passi da casa sua, in mezzo alla strada, dove aveva sempre vissuto. Il lavoro di Paul Williams è avvincente perché riesce a tenere conto di tutte le contraddizioni impersonate da The General: Robin Hood generoso e filantropo e spietato torturatore, buffone spregiudicato e paranoico incurabile, padre di famiglia morigerato e irreprensibile eppure bigamo, abile stratega nei vicoli e sprovveduto provinciale fuori dal suo piccolo, tragico mondo. Crudo, essenziale, meglio di un romanzo.

martedì 13 marzo 2018

Omar Shahid Hamid

Lancio a effetto comincia come una spy story, poi si attorciglia attorno a un imprevedibile triangolo che emerge da un passato ormai remoto e resta un punto fermo in tutto il romanzo fino al colpo di scena finale. Il quadro è complicato (parecchio), ma scorre, perché Omar Shahid Hamid (Karachi, 1977, per anni ufficiale della polizia del Pakistan) scrive con cognizione di causa, è parsimonioso nel linguaggio almeno quanto generoso nei dettagli. Tutto inizia con il trasferimento dello sceicco Ahmed Uzair Sufi in un’improvvisata prigione nel deserto di Nara, un’area remota del Pakistan dove “per trovare la traccia di civiltà più vicina bisognava varcare il confine con l’India”. Viste le condizioni geopolitiche, la battuta suona ambigua, ma l’incipit contiene già tutti i temi che si svilupperanno in Lancio a effetto. A partire proprio dalla personalità di Ahmed Uzair Sufi alias Ausi che si rivela molto più pericolosa delle apparenze. Omar Abassi, il poliziotto che lo prende in custodia in mezzo al deserto, è “figlio di un umile maestro di una scuola di paese, grazie alle borse di studio aveva potuto frequentare alcuni degli istituti più prestigiosi della nazione, ma era sempre rimasto un outsider”. Il passato dello sceicco non è molto diverso, ma poi ha affrontato prigioni e torture nel Kashmir ed è diventato famoso (o, meglio, famigerato) per la decapitazione in diretta di una giornalista (inglese, incinta) e per l’attentato (fallito) al presidente. Ritrovarsi a custodire il nemico pubblico numero uno del Pakistan e di mezzo mondo per Omar Abassi è un’occasione più unica che rara per confrontarsi con i suoi superiori, forse per dare una scossa alla sua carriera, di sicuro per mettere a tacere frustrazioni e rimpianti. Lo sceicco è manipolatore, astuto e infido, ma Omar Abassi è metodico, stoico, infaticabile. Comincia a scavare, e il Lancio a effetto si rivela proprio a quel punto perché selezionando la corrispondenza dello sceicco con il suo amico Eddy, il poliziotto ricuce con pazienza le relazioni tra Sana, Ausi e lo stesso Eddy ed è lì che le figure geometriche disegnate dai movimenti dei tre amici cominciano a confondersi: gli scenari cambiano insieme alle scansioni temporali,  con l’undici settembre 2001 (come è inevitabile) a fare da spartiacque. Nell’epistolario, Omar Abassi scopre che lo sceicco non è mai stato così irreprensibile (anzi) e devoto e che la sua “conversione” non è dovuta a una radicalizzazione religiosa e politica, piuttosto allo sbandamento e al disorientamento di fronte alla violenza, alla corruzione, alla miseria. Lettera dopo lettera, la ricostruzione di  Omar Abassi affronterà molto altro riguardo ai tre amici e allo sceicco in particolare (che, per ovvi motivi, tocca al lettore scoprire), ma bisogna aggiungere che arrivati a questo punto forse è più importante lo sfondo della storia, che la trama stessa. Ecco perché Lancio a effetto annunciato dal titolo va seguito con scrupolosa attenzione e, potendo, senza interruzioni: Omar Shahid Hamid gioca sul velluto, senza grandi pretese, ma sul campo lascia molti interrogativi su quello che è successo prima e dopo l’11 settembre 2001, in Pakistan, e non solo.

mercoledì 7 marzo 2018

Jurij Oleša

Il tempo è un concetto tecnico e la storia è un’illusione ottica che dipende tutta dalla prospettiva. Gli anni in cui Jurij Oleša scrive Invidia sono una profonda trincea tra due ere: la prima guerra mondiale è appena finita e già si prepara la seconda; gli imperi si stanno disgregando e la rivoluzione è diventata una realtà; il vapore, che pareva destinato a durare per sempre, sarà soppiantato, da lì a breve, dall’elettricità e dal motore a scoppio. È una dimensione (ancora) in evoluzione, una parte si specchia nell’altra, il passato e il futuro si dividono nell’incognita del presente a riprova che, come scrive Jurij Oleša, “la vita dell’uomo è una misera cosa. Il moto dei mondi è una minaccia”. Abbagliante riflesso di quel crepuscolare momento, Invidia è tutto doppio, a partire dal contrasto tra l’inconcludente Nikolaj Kavalerov che sconta le sue frustrazioni con Andrej Babičev, burocrate fedele alla collettività che sta cercando di ottimizzare un refettorio pubblico, il Četvertak, perché “la gloria, in questo mondo nuovo, si diffonde quando dalle mani di un salsicciaio esce una nuova qualità”. Ma Andrej ha un fratello, Ivan, e Nikolaj Kavalerov sarà sostituito nelle sue attenzioni, da Volodja Makarov, eroe dell’incontro con la Germania, e nel calcio, sia il campo che la partita sono divisi in due. Si può continuare fino alla fine: Invidia si riproduce per partenogenesi perché all’orizzonte, oltre al Četvertak, appare un altro manufatto, l’Ofelia (nome che a sua volta evoca lo specchio d’acqua in cui annegano i dubbi amletici), e due sono anche le donne (la diafana Valja e la lussuriosa Anečka) attorno alle quali ruotano le orbite ellittiche degli uomini. Infine, ma non meno importante, va ricordato che tra i vizi capitali, l’Invidia, più di tutti, necessita la presenza dell’altro e l’insistenza su questa dualità diventa, nei toni e nel ritmo, un fenomeno di rifrazione, che Jurij Oleša riassume così: “Trovo che il paesaggio osservato attraverso la lente convergente di un binocolo, ci guadagni in splendore, intensità e in profondità stereoscopica. È come se i colori e i contorni diventassero più nitidi. Un oggetto, pur sapendo com’è fatto all’improvviso appare assurdamente piccolo e insolito. E in colui che osserva suscita delle rappresentazioni infantili. È come vedere un sogno. Fateci caso, un uomo che ha posizionato il binocolo capovolto, inizia a sorridere placido”. L’effetto di Invidia è lo stesso (non a caso questo passaggio cade proprio a metà del romanzo): una concezione della storia senza controllo nel suo svolgimento, con ampi sprazzi onirici e fantasmagorici perché “l’invenzione è l’amata dell’intelletto”, e, come direbbe Ivan Babičev, “è un bene, però, che già corrano le leggende. Quando fallisce un’epoca, o in un momento di transizione, si sente il bisogno di queste leggende e favole”. Non di meno, Jurij Oleša è rigoroso nel rappresentare le dicotomie (se non proprio la schizofrenia) dell’epoca, sapendo che “la storia e il tempo sono la stessa cosa, dei doppi”. Sarà per quello che Michail Bachtin per spiegare “la parola come segno ideologico”, elesse Invidia a esempio, “grazie alla incisività che caratterizza fortemente l’orientamento sociale delle enunciazioni dei suoi eroi”. È vero, dubbi compresi: Kavalerov incarna, sì, lo spirito “gregario” di Nietzsche, ma in contemporanea un’idea individualista che si scontra con l’avvenire delle repubbliche sovietiche. Il vizio “capitale” si evolve tanto nella vendetta quanto nella burla e nel grottesco, ma anche qui c’è un sottile simbolismo da seguire con attenzione perché come diceva Henri Bergson, premio Nobel proprio nell’anno di Invidia (1927), “non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”. Jurij Oleša se ne è ben accorto un secolo fa e quello che in Invidia rimane inespresso è profetico: “Noi siamo l’umanità giunta al limitare”, ma non sono state né le guerre né le rivoluzioni a portarci lì, bensì le macchine, i nuovi totem, che non conoscono peccato o redenzione, e non hanno bisogno di metafore per essere esprimersi in tutta la loro grigia tristezza.

lunedì 5 marzo 2018

Leyla Qasemi

La notizia del ritorno di Omid, che ha lasciato Tehran durante la guerra con l’Iraq, riunisce Bita e Mashid. Attorno ai convenevoli, che cominciano con una tazza di tè e continuano nella colazione con una versione vegetariana del queymeh, un piatto iraniano di pomodori, caiano, cipolla, limone secco, patate e riso, le due donne si riavvicinano rileggendo il comune passato, senza nascondersi incomprensioni, bugie, sospetti, turbamenti. Mashid, dirigente scolastica, è la madre di Omid, a sua volta il miglior amico d’infanzia di Bita, negli anni in cui il cielo di Tehran era squarciato dai bombardamenti, e la sopravvivenza era soltanto una questione di una frazione di secondo, un gradino verso i sotterranei, un frammento di metallo, pochi millimetri. L’attesa di Omid, che sta per arrivare da Parigi, consente di evocare ricordi su ricordi, e mette in difficoltà entrambe le donne, che si ritrovano più legate che mai, perché nella difficile arte di convivere con il passato si accorgono che erano “sempre in fuga, in fuga dalla nostra stessa vita. Solo che da piccoli hai a disposizione più storie in cui perderti, e i racconti ti sembrano più credibili”. In realtà, la prospettiva è già cambiata quando Mashid apre la porta a Bita: Saddam Hussein è stato giustiziato e con lui non se ne sono andati soltanto il terrore e gli incubi notturni, i figli caduti al fronte e i razionamenti, ma anche quei momenti inestricabili, quelle scoperte, un nome pronunciato, uno sguardo insistito, che diventano fantasmi perché “quando ti perdi in realtà perdi qualcosa del tuo cuore e, finché non ti ritrovi, quella cosa non ritorna al suo posto”. Bita (che è la voce narrante, in prima persona) lo sa: è stata Mashid a far partire Omid senza un saluto e arrivata a trentacinque anni, sposata con uomo che l’ama, Kamran, vive la contraddizione di essersi persa e nello stesso tempo di sapere che “al giorno d’oggi perdersi e sparire è diventato proprio un’impresa”. I telefoni squillano, i social aggiornano, e non ci si può più nascondere. Bita vorrebbe ricomporre quello che è stato spezzato, o ritrovarne una scheggia, quanto basta a superare debolezze e tormenti. Non chiede molto, in effetti: “Mi piacerebbe avere qualcuno che mi pensasse e che dedicasse del tempo per scrivermi una lettera, una lettera da poter fare a pezzi ogni volta che sono arrabbiata, consolandomi col suono della carta strappata, oppure a cui dar fuoco riempiendo la casa di odore di bruciato fino a sentirmi sollevata”. La cenere delle storie di tutti quei giorni che non ha vissuto si mescola con quella delle sigarette (un’infinità) e che lei e Mashid accendono, come se volessero stendere una cortina fumogena sulle lacrime e sulle distanze che rimangono nonostante le parole, il queymeh, le cortesie, la pazienza e la comune trepidazione per Omid. L’esordio di Leyla Qasemi (Tehran, classe 1975) si specchia in un dialogo impervio e coraggioso, limitato dalle circostanze, eppure capace di abbracciare il senso storico di una nazione e le piccole variazioni dei destini individuali. La scrittura, limpida, asciutta, attenta al più microscopico dei dettagli o al più insignificante dei gesti, ha confidenza con un tono già maturo, preciso, credibile e musicale, tanto da farci ascoltare le voci di Bita e Mashid come se fossero qui, appena dietro una parete. Così vicine, così lontane.

sabato 3 marzo 2018

Hugo Loetscher

Per quanto rigoroso e attinente alla trama, il titolo è fuorviante. Un ispettore delle fogne ha una vita necessariamente underground, nel senso letterale del termine. Tutto quello che succede sopra è relativo. Vive nei rifiuti, si occupa di far scorrere le acque, di sterminare i topi e si sente dire in continuazione che il suo mestiere l’ha rovinato. Eppure è talmente fiero del suo lavoro, e così assiduo nel viverlo quotidianamente che è convinto di governare “una città immersa nelle tenebre, con una pianta più regolare della città alla superficie, una città che, al pari di quella, ha le sue piazze principali e le sue vie secondarie, una città sempre percorsa dalle acque e raramente da passi umani, utile agli uomini e pur sconosciuta alla maggior parte di essi”. Questa visione schizofrenica gli impedisce di accorgersi che sopra di lui, nella vera città, è in corso un colpo di mano e che i rivoluzionari lo vogliono rimuovere in seguito alle accuse di aver sfruttato la sua conoscenza delle vie fognarie per facilitare la fuga agli oppositori. L’ispettore delle fogne si difende con una lunga, prolissa e dettagliata relazione con cui cerca di salvaguardare non solo il posto di lavoro, ma anche la dignità, il mondo che si è costruito e quei pochissimi legami, forse la sua stessa solitudine, perché “quando si lavora nelle fogne, bisogna mettere in conto che gli altri ti prendano in giro e ti ridano dietro. Quante volte al ristorante, quando ordino il vino, la cameriera scherza con me dicendo che anche un vinello come quello locale è pur sempre meglio dell’acqua delle fogne”. Non c’è alcun dubbio, e L’ispettore delle fogne sa di essere un uomo senza qualità, soprattutto agli occhi dei rivoluzionari (“Sì, signori, non si capisce bene perché, ma io sono un tipo che lascia perplessi. E io temo che, sempre per quella stessa ragione, debba apparire un tipo discutibile anche ai vostri occhi e sono addirittura sicuro che, chiunque sia il mio successore, egli finirà prima o poi col destare i sospetti del servizio di sicurezza”), ma non può fare a meno, come tutti, di credersi utile al regolare svolgersi della vita cittadina, anche in tempi tumultuosi. Ma nella sua appassionata filippica, L’ispettore delle fogne arriva a considerare un dato ineluttabile, ovvero “che l’uomo non è un essere pulito”, neanche quando prova a rinnovarsi nel sacro fuoco della rivoluzione. Nonostante sia sostanzialmente un monologo, L’ispettore delle fogne è un romanzo eccezionale per la chiarezza della scrittura di Hugo Loetscher, per il sottile e complesso gioco delle parti e perché lascia al lettore spazio a sufficienza per condividere l’ossessione del suo protagonista, che ha pure qualche ragione da vendere: “Qualunque sia il futuro che ora ha inizio, qualunque sia l’ordine che verrà istaurato, l’avvenire anche il più luminoso, e il mattino, anche il più ricco di giustizia, produrranno sempre acque di scolo e qualcuno che devii queste acque di scolo e ispezioni i loro canali ci vorrà pur sempre”. Le rivoluzioni, di solito, laggiù non ci vanno.

giovedì 1 marzo 2018

Thomas Brussig

Klaus Prima Pagina, il protagonista di Eroi come noi, è un concentrato di ossessioni esplosivo. Dalle dimensioni del suo membro al premio Nobel, non c’è pensiero quotidiano che non lo conduca a ripetersi all’infinito il suo privato mantra: “Uno come me deve diventare qualcuno un giorno o l’altro!”. L’aspirazione legittima, e per certi versi logica in qualsiasi altro angolo del mondo, è una pericolosissima deviazione della Repubblica Democratica Tedesca, il muro ancora intatto, il sistema perfettamente funzionante. Soprattutto perché Klaus Prima Pagina vuole diventare qualcuno rispettando tutte le regole della famiglia, del partito, del regime e, nello stesso tempo, senza rinunciare al suo personalissimo delirio. Sarà il fatidico 1989 a portare all’ebollizione tutte le contraddizioni, conducendo infine Klaus Prima Pagina a raccontare la storia dal suo punto di vista. All’inizio, dovrebbe essere l’autobiografia di “un testimone europeo dell’epoca”, ovvero il mezzo per arrivare al Nobel, ma poi è evidente che la scrittura è uno strumento troppo razionale (o troppo limitato) per Klaus Prima Pagina. Almeno ha il coraggio di confessare che “pienamente consapevole della mia responsabilità storica, ho già iniziato a scrivere la cronaca della mia vita, anche se devo ammettere che, in due anni, non sono andato oltre il primo capoverso”. Eroi come noi diventa quindi un lungo racconto orale, un monologo molto simile a una seduta psicanalitica, dove cadono tutte le barriere e le inibizioni, tanto da permettere a Thomas Brussig di ricostruire non soltanto la personalità e la vita di Klaus Prima Pagina, ma anche l’humus in cui è germogliata, quel sistema che lui stesso descrive così: “Non è che non avesse niente a che fare con noi. Era umano, coinvolgeva uomini qualunque, in un modo o nell’altro. Ed è di questo che dobbiamo parlare. Degli uomini qualunque. Di noi. Delle reciproche offese e umiliazioni. Dell’ignavia. Delle umane brutture. Nulla di umano mi è estraneo, neanche le umane brutture. Il sistema non era disumano. Però ostile gli uomini. Non sprezzava l’umanità, era contrario all’umanità. Sfigurava gli uomini. Li portava ad amare ciò che dovrebbero odiare”. Se è facile lasciarsi trasportare dai toni da farsa di Eroi come noi (perché Thomas Brussig, nato a Berlino Est nel 1965, un passato da fattorino, ha talento per una scrittura ritmata e tagliente), è altrettanto evidente che i suoi affondi al cuore del sistema fuggono tutti i luoghi comuni più o meno democratici. Anzi, li fanno a pezzi, quando Klaus Prima Pagina dice: “C’è in gioco più di una sola vita. Bisogna anche sacrificare la propria vita per una causa superiore. Lo fanno tutti. E quando oggi, in qualche parte del mondo, vengono ammazzati dei civili o torturati dei prigionieri politici non riesco a condividere lo sdegno. La brutalità non mi ha mai scioccato. Fucilazioni e simili erano all’ordine del giorno nel mondo, tranne che nel nostro idillio. Molti venivano uccisi, però morivano per una grande causa”. C’è una grande lucidità nel caos erotico e politico di Eroi come noi: anche lo storico crollo del muro di Berlino è narrato con un finale al vetriolo (“Credono che l’aver buttato giù un muro li santifichi per l’eternità”) in cui Brussig alias Klaus Prima Pagina sembra prendersela con tutti e tutto, e senza rispetto per niente e nessuno. Folle e spiazzante perché nello spazio di un particolare insignificante, di un refuso, di una lettera che manca, quella che fa la differenza tra eroismo ed erotismo, Eroi come noi ha il coraggio di mettere in dubbio la storia così come ci è stata raccontata.