venerdì 31 dicembre 2021

Clarissa Goenawan

All’inizio l’atmosfera è quella di un noir d’altri tempi: la pioggia, la notte, una donna sola, un omicidio avvolto nel mistero. Non manca nessuno dei cliché, ma Clarissa Goenawan non introduce l’ennesimo investigatore e ben presto le necessità poliziesche di Rainbirds saranno ridotte al minimo sindacale. Attorno alla fine Keiko Ishida che aveva lasciato Tokyo per Akakawa si sviluppa un vortice di legami avviluppati da ricordi, segreti, sotterfugi. Per Ren Ishida, la morte della sorella apre un varco personale inaspettato, ma in qualche modo ineludibile: “È bello essere giovani, tutto sembra possibile. Quando si invecchia ci si dimentica com’era sognare. Prima di rendertene conto, un giorno ti svegli e ti guardi allo specchio, chiedendoti chi sia l’uomo di mezza età che hai davanti”. Succede mentre si trasferisce ad Akakawa per le esequie della sorella, ed è lì che Ren Ishida diventa un po’ il catalizzatore di storie che si scoprono incastonate una dentro l’altra, seguendo quello che è il collante di Rainbirds, una catena di profili femminili che si impone sulla e nella storia. Madre, figlia, amante, moglie: tutte le figure si distribuiscono a strati nel racconto di Clarissa Goenawan, ognuna con il suo peso. Scorrono le intemperanze di Seven Stars, l’abulia della signora Katou, l’accortezza di Izumi, l’assenza di Nae e, di nuovo, il ricordo di Keiko che scrive: “L’amore arriva quando meno te lo aspetti. Ecco perché in inglese si dice cadere nell’amore. Non si può imparare a cadere, né si può pianificare di farlo. Capita di cadere e basta”. L’omicidio di Keiko diventa relativo per quanto sia la scintilla da cui scaturisce tutto: per Ren, il rapporto con la sorella è una ferita, e il romanzo è costruito da intricati codici, come se tutti avessero qualcosa da nascondere o da rivelare. Clarissa Goenawan con un tatto semplice e raffinato nello stesso tempo, sa mostrare i gesti, il cibo, gli angoli e le sfumature, lasciando alle singole voci dei personaggi il compito di spiegare l’evoluzione delle circostanze. È così che Rainbirds è un romanzo che si muove in una zona sfumata tra i sogni e la realtà: l’intreccio della trama si svolge su più piani che si sovrappongono e si alternano con il ricorso al flashback e alle diverse dimensioni temporali, comprese le numerose parentesi, a partire da quella con Jin e Anzu, che si rivelerà importante nel determinare lo svolgersi finale. Le porte si aprono su segreti e deviazioni famigliari: le consuetudini e le tradizioni giapponesi, descritte in ogni dettaglio, con una grazia amanuense, si scontrano con una solitudine atavica, compressa nella gentilezza e nelle formalità, e fluttuante tra una casa vuota e quella dopo. È un labirinto e tale andrebbe considerato, compreso il rischio di perdersi. Se serve una chiave di volta va cercata in un passaggio di Salman Rushdie, visto che I figli della mezzanotte è uno dei libri citati da Clarissa Goenawan attraverso i suoi personaggi: “La realtà è un fatto di prospettive; quanto più te ne allontani, tanto più il passato ti pare concreto e plausibile, ma come t’avvicini al presente, esso ti sembra inevitabilmente sempre più incredibile”. Succede così in Rainbirds, e si tratta di svoltare un angolo dopo dopo l’altro, assecondando i cicli, le sequenze, i temi ricorrenti proprio come nel jazz. Una passione che in qualche modo delimita la personalità di Keiko e i contorni del romanzo dato che comincia con Billie Holiday e finisce con My Favorite Things di John Coltrane, per cui va tenuto conto dell’imprevisto, dell’improvviso e dell’eccentrico, ma, più di tutto, del mood che riesce a creare. Un ottimo esordio.

martedì 28 dicembre 2021

J. G. Ballard

Già nell’incipit c’è materiale a sufficienza per far impazzire un esperto di numerologia: 32 omicidi, 13 ragazzi scomparsi, un primo videotape di 28 minuti, ma soprattutto è il 1988, l’apogeo dell’era Thatcher, un riferimento da annotare, per il momento, perché per Ballard è relativo, almeno fino alla fine. O, meglio: è soltanto un effetto politico ed economico di cause più profonde, e radicate nell’alienazione suburbana. La misteriosa e violentissima strage avviene infatti nella rigorosa cornice del Pangbourne Village, un’esclusiva enclave nella campagna inglese, protetta da recinti, cani da guardia e da un reticolo di videocamere. L’ossessione di Ballard per l’architettura monotematica dei quartieri residenziali e per l’M4, l’autostrada che dalla City porta all’aeroporto di Heathrow, espande le profezie orwelliane, con La fattoria degli animali richiamata in modo implicito ed esplicito. L’eccidio, corredato da precedenti reali, Charles Manson su tutti, ha una sua particolare logica perché “i proprietari delle sue eleganti palazzine erano stati infatti spediti all’altro mondo con il minor danno possibile per le loro abitazioni, come se quei segni tangibili del loro successo professionale e della loro posizione sociale fossero i loro beni più concreti e duraturi”. Convocato sulla scena del crimine, Richard Greville, ufficialmente consulente psichiatrico della polizia metropolitana, e il sergente Payne si avvia come Dante con Virgilio in un moderno girone infernale dove è stato raggiunta una dimensione in cui “i concetti di colpa e di responsabilità non hanno più alcun significato”. La separazione meccanica, a base di cemento e filo spinato, dal resto del mondo sottintende “uno stato molto simile alla deprivazione sensoriale”, un luogo privato e riservato dove “l’emotività era considerata una debolezza, sia negli adulti sia nei giovani”. Se la ricostruzione degli omicidi si fa via via più credibile, e Un gioco da bambini sa essere davvero disturbante nella descrizione dei metodi, dei tempi e dell’azione in generale, resta da appurare il movente, ed è qui che Ballard, attraverso l’analisi di Richard Greville cerca di comprendere e delineare i confini del vuoto pneumatico in cui è maturato: “Al Pangbourne Village, pensai, il tempo poteva scorrere sia in avanti che all’indietro. I suoi abitanti avevano cancellato sia il passato che il futuro e malgrado tutte le loro attività vivevano in un ben organizzato e monotono mondo senza tempo. In un certo senso, i ragazzi avevano ricaricato gli orologi della vita reale”. Il complesso di Edipo e altre ipotesi psicologiche sono da accantonare. Tra tutti gli incubi ballardiani, Un gioco da bambini offre uno squarcio su una società dove ogni questione morale è sospesa, qualsiasi attrito è assorbito da ambizioni, speculazioni e proiezioni che, al massimo, possono tollerare la noia. Da lì in poi è soltanto un conto alla rovescia, prima dell’esplosione, che pare più inevitabile che prevedibile. Un gioco da bambini resta “un atroce paradosso”, e nel tempo, anche l’assunto principale che “in una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia” si è capovolto, dato che l’assurdità del Pangbourne Village si è rivelata endemica, propagandosi senza incontrare alcuna resistenza.

mercoledì 1 dicembre 2021

Tahar Ben Jelloun

Per Tahar Ben Jelloun la poesia è antecedente agli sviluppi della prosa e Stelle velate è una raccolta che rappresenta un’ottima introduzione e insieme una valida antologia della sua creazione poetica. Anche perché il senso della scrittura è uno degli argomenti ricorrenti di Stelle Velate, fin da dove Tahar Ben Jelloun ammette: “Scrivo per non aver più volto. Scrivo per dire la differenza. La differenza che mi avvicina a tutti quelli che non sono io, quelli che compongono la folla che mi assedia e mi tradisce. Non scrivo per loro, ma dentro di loro, e con loro. Mi getto nel corteo della loro alienazione. Mi precipito sullo schermo della loro solitudine. La parola tagliente”. La lotta è dichiarata, e imprevedibile nei suoi risultati, non di meno viene intrapresa con grande spontaneità: “Incomincio il gesto in una memoria furibonda e do inizio allo spoglio. Apro la pagina delle mie debolezze, delle mie insufficienze, delle mie illusioni e del mio errore. Scopro la vergogna”. La gamma delle interazioni parte da quando “il verbo si coagula in pugni alzati” e si articola fluttuando di verso in verso, con Tahar Ben Jelloun che dice: “Mi affido all’equivoco oscillare delle parole, nella nudità dei loro limiti, e affronto ciò che resta. Poca cosa. Mi resta la sopravvivenza della parola legata e consumata”. Il rapporto con la pagina che gli si apre davanti è tormentato, ma ineludibile e allora si chiede, ancora: “Perché la nostra storia è disseminata di disfatte? È forse la rovina delle parole? Una polvere bianca cade sul viso, è un po’ di cielo che ci chiude gli occhi”. Nella luce delle Stelle velate e nelle “città vedove della vita” ci sono “uomini sotto sudario di silenzio” che cercano una via, un luogo, una destinazione. Il disorientamento e lo smarrimento sono costanti che si ritrovano in La mia patria è un volto (“Fai la tua dimora nella parola trattenuta, sulla riva di una frase. Non essere impaziente. Guarda l’erba dei vocaboli. L’infante calerà la felce del crepuscolo”) e in Notizie dal paese (“Al mio paese non si fa prestito, si spartisce. Un piatto restituito non è mai vuoto: del pane, qualche fava o un po’ di sale”). Sono i motivi principali della partenza che si manifesta in Contagiato dal deserto: “La nudità è una sera d’estate, una fiamma custodita tra le nostre mani, un fiume solitario di cui siamo origine e sorgente”. Il pellegrinaggio comincia così, con le sembianze di una fuga: “E noi, espulsi dal vento, aneliamo al nulla, al deserto assoluto, esilio estremo, per sempre separati da coloro che hanno offeso e affamato l’uomo e noi”. È un cammino arduo e faticoso (“È questo il deserto. Un dolore riportato in città o in un villaggio di montagna”) che incontra domande angoscianti (“È una tempesta o è il ritratto della nostra disfatta che si disegna tra le nuvole? Vinti lo siamo da noi stessi ed è l’abisso ciò che ci attende”). Il viaggio è particolarmente impegnativo, anche nel suo sviluppo metaforico (“Ci siamo persi. Lo siamo da tanto tempo. Le nostre guide ci camminano sulle spalle. Sono sempre armate. Non sanno né cantare né danzare ma scrivono poemi di circostanza e discorsi opachi. Sputano sulle facce anonime, come festini dei tempi antichi”) e nella concretezza dei versi di Tahar Ben Jelloun (“Camminiamo spogliati non per virtù ma per necessità, le nostre cose ci inseguono e ci irridono, la nostra storia è carica come una vecchia mula. La bestia ci precede pesante e millenaria”) che portano, in fondo, all’amara constatazione: “Arriviamo sempre in ritardo per vivere, ma per morire dicono che siamo pronti”. Le Stelle velate spiccano poi in Chiaroscuro, dove Tahar Ben Jelloun dove sembra quasi concludere con toni elegiaci: “Dei nostri ricordi archiviati, imperlati di desideri, abbiamo fatto l’unico asilo. Linfa amara dell’albero malato, che trasportiamo nelle valige, l’esilio con mani nude e fredde ci avvolge sotto il cielo bianco dell’insonnia. Il paese tira la pelle sul nostro volto la solca di percorsi ingrati. Il nostro paese ci sta sulla fronte: ogni ruga è un fiume che irriga la nostra memoria”. Da conservare con cura.

giovedì 25 novembre 2021

Edmond Jabès

Un incontro, una città, e un libro. È abbastanza, è tutto. Quello di Edmond Jabès è un monologo e nello stesso tempo un dialogo, un gioco di specchi nel confronto con l’altro e con se stesso (e/o tutti e due), partendo dalla coscienza che “lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. L’esilio a Parigi (“Questa città non è la mia città. Vado errando, all’altro capo di me stesso, ai confini aridi, i più devastanti dell’essere, dove i sogni mi abbandonarono; ai confini di un’esistenza trascritta, della quale il vocabolo fu da sempre l’intercessore. Ciò che si disperde è ciò che si rivela; ciò che si dissolve e si annulla è ciò che ha cessato di ingannare il libro”) è la meta pro tempore, l’unica certezza è che “nomade o marinaio, sempre, tra lo straniero e lo straniero vi è, mare o deserto, uno spazio delimitato dalla vertigine alla quale entrambi soccombono. Viaggio nel viaggio”. In quell’invisibile e persistente frontiera Edmond Jabès riesce a individuare uno spazio universale, praticamente infinito, quando dice: “La tua città è un miraggio. La terra, rispetto all’universo, un uccello perduto, dalle ali troppo fragili per sfidare, sola, l’ignoto. Cammina su questo pianeta così maneggevole che un niente lo fa girare. Dove sei? Caduto nella trappola del reale e dell’inverosimile. Cercando l’uscita”. La mia maestra è da cercare nelle limitate possibilità della scrittura (“Vedo una parola che si avanza verso il mare. Non è la parola cielo, né la parola terra; non è neppure la parola sale o seme, ma la parola niente, ma la parola nulla. E dico a me stesso che sale, seme, terra e cielo sono in questo vocabolo”), motivo per cui “ogni libro è un libro di bordo”. La riflessione filosofica che permea la visione Edmond Jabès è reiterata nella forma scorticata della poesia che ribadisce i concetti limandoli e aggiustandoli, e così inoltrandosi ad affrontare la differenza dell’altro, che non è materia di nazionalità o di etnia (“Allo straniero non domandare il luogo di nascita, ma il luogo d’avvenire”), si trova a sentirsi a sua volta “straniero, per essere stato solo l’oggetto di una lettura di se stesso e per continuare a leggersi in solitudine le parole lette”. Inevitabile e inaspettato, l’ospite si rifugia nella “pagina del libro con i suoi margini, bramata dimora. Le parole vi si ammucchiano, con le loro torce in fiamme, tizzoni d’alleanza” e così Edmond Jabès non ha più timore a rivelare che “lo scrittore è lo straniero per eccellenza. Messo dovunque al bando, si rifugia nel libro da dove la parola lo espellerà. Ogni volta è a un nuovo libro che egli dovrà, provvisoriamente, la propria salvezza”. Di fronte allo straniero si aprono solo “luoghi scritti. Il sentiero polveroso è il seguito”, e la scoperta prosegue nel contrasto tra il silenzio (“Essere se stessi significa essere soli. Abituarsi a questa solitudine. Crescere, operare, in senso alle proprie naturali contraddizioni”) e una muta partecipazione perché “autore e lettore sono impegnati, allo stesso titolo, nell’avvenire del libro, che non è più l’avvenire del libro, ma il loro avvenire. Ciò che resta sempre da scrivere e da leggere apre loro il cammino”. Nel reiterare le sue asserzioni Edmond Jabès pare accertarsi con cura che “la pausa di una parola, il tempo della sua lettura” siano rispettati di volta in volta, volendo condividere la responsabilità del pensiero e il potere salvifico che si cela tra le pagine, che poi è quello di “aprire la propria solitudine a quella dell’altro, come si apre un libro; chiarore contro chiarore per festeggiare il mattino. In questa fase, la responsabilità ha un nome: gratitudine”. Straniero, straordinario: questo libro non finisce mai.

venerdì 12 novembre 2021

Colin Wilson

Nel 1956, Colin Wilson tirò un sasso contro lo specchio per celebrare l’essenza dell’outsider, “un uomo per il quale il mondo, per come lo vede la maggior parte delle persone, è una menzogna e un inganno”. The Outsider esplorava le connessioni tra “un senso di alienazione dalla società” e “una questione di disciplina individuale” che nell’articolarsi di sensibilità e ossessioni, sperimentazioni e osservazioni, nutre e sospinge  “un sentimento violento di pura affermazione”. L’identità dell’outsider, con l’istintiva necessità di manifestarsi a un livello più ampio e verso orizzonti inesplorati, lo posiziona verso “maggiori possibilità spirituali” ed è qui, in estrema e provvisoria sintesi, che si intravede la natura della simbiosi tra Religione e ribellione. Un anno dopo, il sasso lanciato con The Outsider Colin Wilson mostra il reticolo delle spaccature e delle crepe di quel riflesso in frantumi: il disprezzo per la futilità della vita, il rifiuto della limitata gamma di opzioni proposte e/o imposte dalla civiltà moderna, quel rumore di fondo che “non concede tempo per la pace e la contemplazione”, costituiscono il carburante spontaneo della ribellione. La religione, che deve necessariamente comporsi di “mito, dogma, rituale” è relativa ed è intesa in un senso molto più ampio dell’articolazione dell’espressione della fede in forme istituzionali o spontanee. Per Wilson e per la disposizione in sé dell’outsider  sono più importanti la poesia (“Ogni poeta sa che il valore reale di un uomo è determinato dalla profondità della sua esperienza emotiva. Sono quelle intuizioni profonde del suo stesso essere che danno veramente all’uomo il dominio su se stesso e su tutto il mondo”, la filosofia (“Il segno della grandezza è sempre l’intuizione, non la logica, ma la nostra civiltà purtroppo ha fatto una distinzione immaginaria tra le due cose, che si chiama filosofia”) e la letteratura. Con queste premesse, Colin Wilson si addentra in altrettanti ritratti, bio-bibliografici e critici, di Böhme, Pascal, Wittgenstein, Kierkegaard, Swedenborg, Whitehead, Ferrar, Newman, Law e, forse più di tutti, Bernard Shaw. Sono loro gli outsider per eccellenza, ma nel suo estendersi, Religione e ribellione ospita l’inferno e il paradiso secondo Rilke, Rimbaud e Verlaine, Joyce e Beckett, Elliot e Blake, Fitzgerald e Hemingway e infine Dostoevskij a ricordare che “tutte le creature viventi vivono principalmente per istinto e l’uomo non fa eccezione. Ma quando una civiltà raggiunge la sua fase di declino, l’istinto di salvezza non è sufficiente: l’intuizione ha bisogno della punta di diamante di uno sforzo intellettuale conscio”. Nella ricchezza della sua esposizione, più che sostenere e illustrare la tesi e le cause dell’outsider, Colin Wilson si abbandona a raccontarne le gesta, le idee, le illusioni e le visioni, in fondo seguendo una sola convinzione, dichiarata in modo molto chiaro ed esplicito fin dall’inizio: “Credo che gli esseri umani sperimentino una gamma di stati mentali ristretta quanto i tre tasti centrali di un pianoforte, mentre sono convinto che la gamma di possibili stati mentali sia ampia quanto l’intera tastiera, e l’unico scopo e compito dell’uomo sia di estendere la propria percezione dalle solite tre o quattro note all’intera tastiera”. Una metafora perfetta che da sola riassume tutta l’erudita esperienza di Religione e ribellione.

giovedì 11 novembre 2021

J. G. Ballard

Molte visioni di Ballard partono o arrivano dalla linea che tracciava La mostra delle atrocità nel 1970, a cominciare da Crash che è una sua diretta estrapolazione. È una rivelazione che scoperchia e azzera molti luoghi comuni di quegli anni, visto che “sotto la superficie scorrevano correnti più cupe. La ferocia della guerra del Vietnam, il senso di una colpevolezza pubblica che aleggiava sull’assassinio di Kennedy, le perdite umane nella scena delle droghe pesanti, il pervicace tentativo della cultura dell’intrattenimento di ricacciarci nell’infanzia”. La radiografia dei tempi è impietosa: Ballard è un voyeur con un quoziente intellettivo allucinante, capace di disquisire senza sosta di chirurgia plastica e stardom system, di quasar e di architetture autostradali, del Vietnam e della terza guerra mondiale, dei quadri di Max Ernst e delle sculture di George Segal in un solo flusso feroce e inafferrabile perché come scrive William Burroughs nella prefazione: “La linea di demarcazione fra paesaggio interno e paesaggio esterno è crollata”. L’apocalittico cut-up ballardiano si rivolge a un’era ormai trapassata, ma che si tramanda come un suono dello spazio interstellare, profondo e infinito. Si capisce la costruzione casuale, ma matematica: come ha detto lo stesso Ballard in I miracoli della vita, era “un approccio frammentato come il mondo che il libro descriveva” e comprende schegge, sovrapposizioni, istantanee, libere associazioni e le fughe mentali dei protagonisti, nonché le “catastrofi psichiche” di un’intera dimensione collettiva. In quest’ottica il culto della personalità diventa uno degli snodi fondamentali che La mostra delle atrocità attraversa: “Si è verificata una sorta di banalizzazione della celebrità: oggi la fama che ci viene offerta è istantanea, pronta per l’uso, e ha il potere nutritivo di una zuppa in scatola. Le serigrafie di Warhol mostrano questo processo in atto. I suoi ritratti di Marilyn Monroe e di Jackie Kennedy sottraggono alla vita di queste donne disperate la loro tragedia, e la sua tavolozza lucida e brillante le restituisce al mondo innocente dei libri colorati per bambini”. La soverchiante prepotenza delle immagini conduce direttamente al ruolo del corpo umano che La mostra delle atrocità viviseziona in continuazione e con convinzione fino all’infinitesimale dettaglio anatomico, anche se in realtà a Ballard basta molto meno per spiegare come “nell’epoca postwarholiana un singolo gesto, accavallare le gambe, per esempio, può diventare più significativo di tutte le pagine di Guerra e pace. Secondo le coordinate del ventesimo secolo la crocifissione, per esempio, verrebbe rimessa in scena come un autodisastro concettuale”. La conseguenza immediata è un’interpretazione del sesso (“il linguaggio più negoziabile di tutti”) che riconduce a un contesto più ampio, meno banale dell’erotismo patinato e dell’ossessività della pornografia, dove Ballard afferma: “Senza speranza di fronte al nuovo, ma delusi da tutto quello che non ci è familiare, noi ricolonizziamo tanto il passato che il futuro. La stessa tendenza si coglie nei rapporti personali, nel modo in cui ci aspettiamo che la gente confezioni se stessa, le proprie emozioni e la propria sessualità in forme attraenti e di richiamo immediato”. Nella sua stessa struttura La mostra delle atrocità è una provocazione, incluso il sottotesto delle note, quasi un’ulteriore deviazione di percorso: del resto se “la forma non rivela più la funzione”, non resta che guardare attoniti ai “disastri mimetizzati”, alla geografia degli incubi urbani, al vorticare di elicotteri impazziti e alle linee oblique dei terrapieni dei cavalcavia. Ogni cosa connessa da tagli e innesti che rivelano tutto un futuro, perché come ha detto lo stesso Ballard, “se La mostra delle atrocità fu uno spettacolo di fuochi d’artificio in un ossario, Crash fu l’incursione di mille bombardieri sulla città”. Dirompente.

lunedì 8 novembre 2021

Neil Gaiman

Ha ragioni da vendere Neil Gaiman quando sostiene che “la narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, oppure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là dalla storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza”. In quel ciclo infinito, American Gods è un viaggio americano “in bilico tra diorama e incubo” e nella mitologia di uomini e dèi che lo popola i rapporti sono mutevoli e fragili, come un pulviscolo che si disperde tra sogni, visioni e allucinazioni, mentre un paesaggio multiforme scorre un istante dopo l’altro, come uno schermo su cui proiettare storie e miti. In effetti, come scriveva Wendy Doniger O’Flaherty: “Gli dèi sono attori che interpretano ruoli reali soltanto ai nostri occhi; sono le maschere dietro cui ciascuno intravede il proprio volto”. L’America (si suppone, non a caso) è un campo aperto e la dimensione fantastica e quella reale delle “strade blu” che si intrecciano e si sovrappongono ne accentuano le proporzioni e le asperità: è “una terra di sogni e di fuoco” ed è anche “l’unico paese al mondo che si domanda chi è” e deve confrontarsi con altre forme di idolatria, laddove è necessario uno sforzo di comprensione in più, proprio perché, come dice Neil Gaiman, “è sui sensi che si fondano le nostre convinzioni, sono gli unici strumenti di cui disponiamo per fare esperienza: la nostra vista, il tatto, la memoria. Se i sensi ci mentono, allora non abbiamo niente di cui fidarci. E anche se non crediamo a ciò che ci dicono, non abbiamo altro modo per viaggiare che quello di seguire la strada che essi ci indicano, ed è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo”. La rappresentazione di American Gods si avvale di una moltitudine di “simboli”, con alcune connessioni specifiche: le culture ancestrali scandinave ed europee, il Medio ed Estremo Oriente, i Velvet e i Beatles, Stephen King e Thomas Pynchon nell’ombra, trucchi e magie, antiche dinastie e conflitti epocali confluiscono nella vita nella provincia in un patchwork che nell’insieme appare “come il sogno creato dall’umanità per dare un senso alle ombre sulle pareti della caverna”. Più di tutto conta la dimensione onirica, dove il linguaggio e le immagini fluttuano senza regole apparenti, e qui, piuttosto del citatissimo Erodoto, è più appropriato ricordare Eraclito quando diceva: “Coloro che sognano, sono coautori di ciò che accade nel mondo”. La domanda sottintesa da American Gods è: anche gli dei sognano? Shadow, protagonista suo malgrado di questo crepuscolo leggendario, cerca di capire (“Non fate che parlarmi di queste cazzo di regole, ma io non so neanche a che gioco state giocando”) il suo ruolo, ma nell’attrito generato dagli dèi erranti e confusi si manifesta una chiara separazione: “Il vecchio mondo, un mondo di infinita vastità, risorse illimitate e futuro, veniva messo a confronto con qualcosa di diverso, una rete di energie, di opinioni, di abissi”. Il confronto è caotico e nel ritratto a distanza ravvicinata dell’America rurale e del Midwest (e la bucolica Lakeside, Michigan diventa il nucleo attorno a cui ruota gran parte della storia) l’odissea americana tra dèi che si comportano in modo umano troppo umano e città che sono popolate di relitti, trova un percorso altrimenti tortuoso: American Gods si snoda serpeggiando in una serie di tappe in cui Shadow ha modo di affrontare le intenzioni degli dèi che l’hanno reclutato. Essendo un outsider con poco o nulla da perdere, Shadow è testimone di un ribaltamento continuo di fronti, ed è al centro dell’azione, anche se il più delle volte non può fare molto, se non assistere all’evoluzione dello scontro degli dèi. È in missione senza un mandato o è solo un capro espiatorio: la presenza di Shadow rimane enigmatica essendo in balia di decisioni che provengono da identità indefinite e il potere di quelle creature si estende, ma in qualche modo pare incapace di risolvere i conflitti, anzi, li alimenta nel corso dei secoli, perché anche “gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle”. Il rapporto con loro è sempre dubbioso, ma le moltitudini di esseri che vagabondano per l’America garantiscono lo spettacolo, dato che, come sosteneva Kierkegaard, “gli dèi si annoiavano, perciò crearono gli uomini”. Può essere, ma leggendo American Gods, è facile credere il contrario.

giovedì 4 novembre 2021

Derek Jarman

Mentre completava uno dei suoi film più intensi, The Last of England, Derek Jarman teneva un diario sui generis di quei giorni, composto da “opinioni, reminiscenze, ritratti di persone e luoghi; e registrazioni audio di interviste sconclusionate ad amici e colleghi”. L’elenco è fornito da Keith Collins nella breve prefazione che ne riassume la frammentaria gestazione ed è tutto sommato molto parziale. Nella sua eterogenea composizione, Ciò che resta dell’Inghilterra si adagia sullo stesso substrato autobiografico di The Last of England, una scelta nata da una consapevolezza espressa così da Derek Jarman: “Ora proietti il tuo mondo privato nell’arena pubblica, e crei la crisi; l’attrito tra il mondo pubblico e quello privato è la tradizione che riveli. Tutto quello che puoi fare è indicare una direzione da prendere a tutti quelli tra il pubblico che vogliono viaggiare. Perciò, mentre ti dissolvi nell’oscurità, pensa al silenzio. Quando tutti hanno imboccato il sentiero noi siamo tutta arte e nessun pubblico”. Un ruolo di primo piano nell’alimentare gli appunti di Derek Jarman tocca al padre, pilota e comandante della RAF, decorato al valore e protagonista della vita familiare. Il ritratto, proprio nel centro di Ciò che resta dell’Inghilterra, raccoglie i sentimenti più intimi e nello stesso tempo esprime il disorientamento di un’intera nazione, seguito alla fine della seconda guerra mondiale. La vittoria non è stata sufficiente, le “ceneri dell’impero” rimbalzano negli anni della Thatcher (siamo tra il 1986 e 1987) e Derek Jarman ammette senza remore che   “la decadenza, lo imparai in fretta, era il primo segno di intelligenza. È importante mettere la danza in una prospettiva storica”. The Last of England e Ciò che resta dell’Inghilterra si spendono entrambi con generosità (“Noi danzavamo mentre altri mettevano radici e contraevano mutui, ma il terreno era avvelenato”), e Derek Jarman ha sempre negato l’avversione contro il proprio paese, piuttosto le sferzate riguardavano le condizioni brutali della vita in quegli anni: “È una storia d’amore con l’Inghilterra. Non è un attacco. È un attacco contro quelle cose che avverto personalmente come senza valore. Cose che hanno invaso il circuito commerciale della vita inglese. Non si tratta di un attacco all’Inghilterra. È il contrario”. In questo, Derek Jarman è stato particolarmente attento alle deformazioni della musica pop (“Una cultura orientata dalle mode adolescenziali e dal criterio del feedback immediato non è molto interessata alle idee. In questo modo la sopravvivenza di un’artista è una moda o un capriccio passeggero”), grazie anche alla sua collaborazione con gli Smiths per The Queen Is Dead (“Nell’ultimo decennio, il video musicale è l’unico ambito nel quale il linguaggio cinematografico si è evoluto, ma lo scopo è sempre stato quello di ottenere un impatto immediato, il che spesso comporta un risultato appariscente e superficiale”). D’altra parte l’omaggio ad Andy Warhol, all’inizio di Ciò che resta dell’Inghilterra, era già un segnale palese nel condividere l’idea che “l’arte è furto” e che, di conseguenza, “siamo tutti complici nel mondo onirico dell’anima; non è soltanto individuale, ma generale; facciamo questi collegamenti in continuazione”. Il canovaccio è abbondante e variopinto: ci sono Tilda  Swinton e Pasolini, la realizzazione di The Last of England giorno dopo giorno, Pensieri domestici e le Ceneri dell’impero, appunti e poesie, in un ordine che emerge per gradi dall’istinto creativo di Derek Jarman, che resta convinto della forza intrinseca della curiosità: “Il fatto stesso di ricercare è la mia forza motrice. Non credo nella pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, ma credo nell’arcobaleno”. Anche questa era una piccola anticipazione: la sua teoria dei colori (Chroma) arriverà da lì a qualche anno e sarà il testamento finale di un grande visionario.

martedì 19 ottobre 2021

Barbara Stiegler

C’è un’estrema lucidità nella prospettiva di Barbara Stiegler, che cerca di isolare ogni singolo passaggio della pandemia, riuscendo a chiarire i rapporti di forza che hanno incrinato le strutture democratiche. L’analisi è impietosa, ma precisa, e parte dalle origini e dalle cause, da ciò che c’era prima, e in gran parte parte è rimasto inalterato: quello che “il virus fondamentalmente mette a nudo è la contraddizione tra gli effetti deleteri sulla nostra salute di quello che viene erroneamente chiamato sviluppo economico e l’attuale sottosviluppo di quasi tutti i nostri sistemi sanitari, compresi quelli dei paesi più ricchi del pianeta”. Nella parte iniziale della sua riflessione, Barbara Stiegler coglie l’opportunità per ricordarci come “l’industrializzazione degli allevamenti, unita all’accelerazione del commercio su scala mondiale e al deterioramento della salute delle popolazioni nei paesi industrializzati produce così tutte le condizioni perché lo stesso tipo di epidemia si ripeta regolarmente”. Le condizioni che hanno portato alla pandemia sono le stesse con cui è stata gestita e con una progressione ineluttabile ci hanno introdotto in “un mondo in cui non c’era tempo per imbarazzarsi con la democrazia”. Barbara Stiegler non discute, ragionevolmente, i singoli provvedimenti, le urgenze, i processi sanitari e in genere l’emergenza in sé, ma fa notare che ben presto “invece di una comunità di cittadini, eravamo tornati allo stadio pastorale del gregge”. Mentre i governi (qui, nello specifico, si parla della Francia, ma vale un po’ per tutti i paesi), per inaugurare “la svolta verso un mondo di crisi permanente”, si affidavano a unità speciali di consulenti e consiglieri, estranei ai processi elettivi, prendeva piede “un’infantilizzazione generale di tutti gli atti della vita, pubblici e privati”. Le riduzioni e le semplificazioni, e l’overdose di informazioni in generale, hanno generato un processo per cui “la sfiducia si è instaurata a tutti i livelli come modalità di relazione principale tra i governanti e i governati, sfiducia instaurata dai governanti stessi, eppure così pronti ad imputarla ai cittadini”. A questo punto, la ricostruzione di Barbara Stiegler non si basa su ipotesi o tesi precostruite, ma semplicemente su un’osservazione limpida: “Così, fin dalle prime ore, una spettacolare inversione di responsabilità ha preso forma. Mentre i cittadini erano le vittime di una politica che aveva disarmato il sistema sanitario, il governo ha rovesciato l’accusa imputandola ai cittadini stessi, cioè alle vittime non consenzienti di queste decisioni, declinando un’agenda che non era mai stata dichiarata come tale nei programmi elettorali”. È un dato storico, ormai, ma il pamphlet di Barbara Stiegler, per quanto dichiaratamente schierato, ha il pregio infinito di evitare anche la minima teoria cospirativa, specificando fin troppo bene che “l’errore qui sarebbe quello di cercare un piano o una strategia. Se si volesse ricostituire un complotto potente, si presterebbe molta razionalità a un potere che, nelle circostanze, ne era singolarmente privo. Invece che nell’intelligenza tattica, dovremmo piuttosto cercare dalle parti della paura, che è spesso il motivo principale delle grandi sconfitte. Questo governo che, a partire da questa data, si metterà a governare con la paura, è stato esso stesso dall’inizio alla fine, governato dalla paura. Per il panico del virus, naturalmente, ma anche per quello della rivolta sociale”. Questo è ancora più visibile, oggi, quando “la dolorosa esperienza della cura e dell’educazione spogliate della loro natura collettiva e degradate dal capitalismo digitale allo status di prodotti di consumo” appaiono come i frutti avvelenati della pandemia, mentre sono le conseguenze dell’indulgenza, dell’indifferenza, per non dire della sottomissione, alle regole del mercato il cui interesse per la democrazia, come è noto, è pur sempre relativo. Un libro scomodo, ma efficace.

lunedì 18 ottobre 2021

Konstandinos P. Kavafis

La definizione “poeta del futuro”, in cui Konstandinos Kavafis si rispecchiava, è sicuramente una visione, una proiezione e per molti versi anche un azzardo, ma certo coglie il senso compiuto delle sue liriche. Kavafis mescola a secco storia e mitologia, riducendole a un flusso di versi sottili, intensi e pregnanti, come se la poesia fosse una forma di interazione, di interpretazione e di traduzione. Un linguaggio simbolico, ricco e ipnotico, che si svolge in un avvertimento, a suo modo inevitabile, per le Idi di marzo: (“Temi la gloria, e se non puoi vincere le tue ambizioni, abbi almeno cautela e precauzione nel secondarle. E quanto più avanti vai, tanto maggiori siano attenzione e accortezza”) e che guarda a Itaca, (“Augurati che la strada sia lunga”) come un centro di gravità permanente di tutte le culture classiche del bacino mediterraneo, che Kavafis mostra di conoscere e di possedere in profondità. Il mare è anche protagonista con Le navi, una prosa che è metafora della trasformazione delle parole, dalla “fantasia” alla “carta”, ma la materia che accomuna gli dei agli esseri umani è quella sensualità, vista attraverso “occhi poetici” e trattata da Kavafis con passione, ma anche con estremo riguardo e grande cura. Espressa con somma raffinatezza, si disvela misurando le distanze tra “l’antico desiderio” e “la memoria del corpo”, come è declamata in Torna: un’insistente voluttà composta il più delle volte da un’assenza, da una perdita, da un vuoto improvviso. O dalla conclamata volontà, celebrata in Andai: “Non volli legami. Mi lasciai completamente andare. Verso piaceri, in parte reali, in parte turbinanti nella mente, andai nella notte illuminata. E bevvi vini forti, come bevono i  valorosi del piacere”. Il ricordo gioca un ruolo decisivo e ambivalente che per Kavafis si manifesta nella ricostruzione delle atmosfere in Nello stesso posto (“Aria di casa, i locali, il quartiere che vedo e dove cammino; da anni e anni. Ti ho creato nella gioia e nel dolore: in tante vicende, in tanti fatti. E sei tutto sentimento, ora, per me”) e soprattutto nella costante percezione di una luce, che è evidente in Quando si risvegliano: “Cerca di conservarle, poeta, anche se sono poche quelle che si fermano. Le tue visioni erotiche. Nascondile, in parte, nei tuoi versi. Cerca di trattenerle, poeta, quando si risvegliano nella mente, la notte, o nel bagliore dell’ora meridiana”. Il clima crepuscolare nella poesia di Kavafis è proprio un’estensione di questo equilibrio, tra la carica emotiva e la sua riduzione in forma di parola, comprese quelle poesie destinate a una forma di memoria indefinita e catalogate con la dicitura: “Non per la pubblicazione, ma può rimanere qui”. Questo vitale conflitto è rappresentato a un livello più intimo in Sconcerto (“La mia anima, nel mezzo della notte, nella paralisi, nello sconcerto. Fuori, fuori di lei è la sua vita. E aspetta l’improbabile aurora. E anche io aspetto, mi struggo e soffro, dentro di lei o con lei”) e, all’estremo opposto, in Giura: “Ogni tanto giura di darsi una vita migliore, ma quando viene la notte con i suoi consigli e le sue lusinghe, con i suoi compromessi; ma quando viene la notte con tutta la sua forza, alla stessa fatale gioia del corpo che agogna e cerca, perduto, ritorna”. A colmare tanta ricchezza, resta l’invocazione di Per quanto puoi, una sorta di esplicito proclama della filosofia di Kavafis: “E se non puoi la vita che vorresti, cerca almeno questo, per quanto puoi: non la svilire nei troppi contatti con la gente, con traffici e discorsi. Non la svilire portandola troppo in giro, esponendola alla quotidiana insipienza dei rapporti e degli incontri, fino a farne una fastidiosa estranea”. Allora è giusto richiamare una delle sue letture, quella di Filostratto, quando diceva che “gli dei conoscono il futuro, gli uomini ciò che accade, i saggi ciò che si avvicina”, ed è così i poeti avvicinano tutto il resto.

giovedì 14 ottobre 2021

Richard Thompson

Molti anni fa, intervistato da Bill Flanagan, Richard Thompson diceva: “Combino di più quando affronto la composizione delle canzoni come se si trattasse di un romanzo o qualcosa di simile”. Quella sensazione deve averlo perseguitato talmente a lungo che alla fine ha deciso di dedicarsi a un memoir circoscritto agli anni tra il il 1967 e il 1975, ovvero dall’intuizione dei Fairport Convention all’inizio della sua carriera solista. Il modello anche per una specifica vicinanza artistica, pare essere quello seguito da Joe Boyd con Le biciclette bianche, una forma di racconto lineare che cerca di mettere ordine in anni caotici. Lo stile non è dissimile dal Richard Thompson songwriter e chitarrista: essenziale, cristallino, sincero e pungente. Un osservatore a cui non sfugge nulla e che racconta con particolare dedizione, quasi documentaristica, la sua missione nel rock’n’roll. Comincia prestissimo quando i negozi di strumenti musicali londinesi esponevano il cartello “Non si fa credito agli Who” (e certo, sfasciavano tutto) e lui è un giovane dal talento precoce e spiccato, che deve fare ben presto i conti con la realtà: “Da essere uno scolaretto a diventare un musicista professionista a fare dischi, tutto all’età di diciotto anni; il cameratismo on the road, e la tragedia e la perdita; il matrimonio, i figli e le responsabilità; e la presa di coscienza che la vita è piena di distrazioni che ti distolgono dalle migliori intenzioni”. Richard Thompson si racconta con stile, sia quando deve illustrare la vita notturna a Londra, sia quando deve narrare la convivenza rurale e bucolica con i Fairport Convention. Un ensemble che “ha sbattuto qualche finestra, senza tuttavia buttare giù la casa”, cercando di rinnovare e aggiornare la musica folk e tradizionale, pur lo spirito dei tempi, come spiega Richard Thompson nell’epilogo: “Come i nostri contemporanei anche noi rifiutavamo le nuove regole sociali, prestabilite e soffocanti, idealizzavamo nuovi modi di esistere e di modellare la società, generalmente condannando la guerra e coloro che la facevano, e non avevamo simpatia per i nostri genitori”. Detto questo la rivisitazione di Beeswing è indulgente e rispettosa, anche se è limpida e non nasconde nulla degli usi e dei costumi dell’epoca. Ogni episodio viene collocato in una giusta cornice: dal tragico incidente che coinvolse i Fairport Convention nel maggio del 1969 alla scoperta dell’America, dal legame con Sandy Denny al matrimonio con Linda, dagli eccessi alcolici alla svolta religiosa, Beeswing è un bel ritratto di un periodo prolifico e tumultuoso, comprensivo delle modalità del business, rivelate da un insider al di sopra di ogni possibile sospetto. Anche se la fiction è ridotta al minimo indispensabile, gli aneddoti si sprecano  anche se poi l’afflato verso la musica resta il carburante principale, per non dire l’unico. Il libro arriva a Shoot Out the Lights, il disco (meraviglioso) che ha dato una svolta alla sua carriera solista, ma siamo già in un altro mondo. Qui ci va un piccolo duetto, dove la collega Sandy Denny dice: “Immagino che faccia tutto parte del ricco mosaico della vita”, laddove Richard Thompson pare rispondere di conseguenza: “Penso che noi scriviamo canzoni per puro piacere, ma anche per capire noi stessi e per decifrare la vita”. È il percorso a fasi alterne, ma continue e cicliche, che costituisce il substrato più denso di Beeswing e, tornando all’intervista in cui spiegava le modalità del suo songwriting, Richard Thompson arriva a dire che “se sto scrivendo con regolarità sognerò anche le canzoni”. Così eccolo intercalare nella sua storia sia le divagazioni imposte da strofe e ritornelli di antiche e nuove ballate, sia i ricorrenti paesaggi onirici dove gli capita di incontrare Keith Richards o Joni Mitchell e di trovare, alla fine, la sua voce: la vita è un sogno, un suono e una Stratocaster pagata pochi dollari. Consigliatissimo.

mercoledì 13 ottobre 2021

Stanislav Grof

Attorno all’Lsd sono fiorite congetture, polemiche e controversie che hanno delimitato e ristretto, al pari di altre sostanze psichedeliche, le possibilità di esplorazione e il campo d’azione. La sua stessa origine, che deve molto all’imprevedibile casualità, pare destinarlo a un’ubicazione indefinita, messo in un angolo, bandito, dove non possa nuocere alle teorie sulla personalità, così come sono conosciute e costituite. Stanislav Grof, nato a Praga nel 1931, psichiatra con un curriculum sterminato, ha potuto analizzare i dati di migliaia di sessioni con l’Lsd, sia in Europa che negli Stati Uniti e da quell’enorme bagaglio ha preso forma l’innovativa ricerca psichedelica nei reami dell’inconscio, proprio come recita il sottotitolo. Grof si astiene dal partecipare alla celebrazioni e alle sperimentazioni “profane”: l’approccio è scientifico, misurato, rigoroso per certi versi dichiaratamente conservatore, e all’inizio è molto cauto nel notare come l’Lsd “sembra creare una situazione di attivazione indifferenziata, che facilita l’emergere di materiale inconscio da differente livelli della personalità”. Questo è un primo passo nell’ignoto, poi via via che l’indagine procede, seduta dopo seduta, diventa evidente che “la capacità dell’Lsd, e di altre sostanze psichedeliche, di rendere manifesti fenomeni e processi che altrimenti rimarrebbero invisibili e di renderli oggetto dell’investigazione scientifica, conferisce a queste sostanze un eccezionale potenziale come strumenti diagnostici e come strumenti di ricerca per l’esplorazione della mente umana”. Detto questo, Stanislav Grof, per quanto sorpreso dalle scoperte e dalle coincidenze, non li lascia travolgere dallo stupore. L’Lsd è un trampolino per cogliere quei cambiamenti nella percezione che suddivide in “esperienze astratte ed estetiche, psicodinamiche, perinatali e transpersonali”. Le prime appartengono a una sfera immediata e comprensibile, ma al centro di questa catalogazione Grof individua tra gli strumenti essenziali il sistema Coex (sistema di esperienza condensata) che “può essere definito come una costellazione di ricordi, composta da esperienze condensate, e fantasie collegate, proveniente da periodi diversi della vita del soggetto. I ricordi appartenenti a uno specifico sistema Coex hanno un tema di base simile o contengono elementi simili e sono associati con una forte carica emotiva della stessa qualità. Gli stati più profondi di questo sistema sono rappresentati da ricordi vividi e realistici di esperienze della prima infanzia”. Lì viene ricondotta gran parte delle considerazioni, che Stanislav Grof ha potuto verificare su una massa rilevante di fatti clinici arrivando concludere che “le esperienze infantili rappresentano i nuclei più profondi di complesse costellazioni di ricordi, che agiscono come sistemi dinamici di funzionamento della psiche”. A quel punto, il tragitto prevede “la profonda comprensione della fragilità dell’uomo in quanto creatura biologica”, attraverso le esperienze perinatali (in breve, il trauma della nascita) riportate a galla dall’Lsd. Alcuni passaggi sono sconcertanti e lasciano attonito lo stesso Grof che non manca mai di espletare ogni verifica possibile, anche se poi giunge alla conclusione che è “disturbante realizzare l’incongruenza tra il vissuto interno e la percezione del mondo esterno. È più accettabile sperimentare le proprie emozioni spiacevoli come reazioni appropriate alle circostanze esistenti nella realtà oggettiva”. Ciò diventa più evidente, per non dire tangibile, nelle esperienze transpersonali che, variando dai fenomeni ancestrali all’identificazione con piante e animali, dalla telepatia alla comprensione dei simboli universali “determinano una espansione della coscienza”. È per quello che Stanislav Grof nell’epilogo, sostiene che “uno studio dettagliato dei fenomeni psichedelici”, dovrebbe andare oltre la psicologia e la psichiatria e comprendere una vasta gamma di discipline, dalla neurofisiologia alla filosofia e a conoscenze dettagliate di religioni e mitologie. Succede sempre così quando capita di “sentirsi in connessione con qualcosa di molto più grande di noi stessi”, come dice Jonas Di Gregorio, da San Francisco, California, nell’introdurre questa “nuova mappa della psiche”, ricordando che, Lsd a parte, l’alterazione degli stati di coscienza comincia comunque da qualcosa chiamata meraviglia.

lunedì 6 settembre 2021

Aliya Whiteley

In un’intervista di parecchi anni fa Ballard sosteneva che nel futuro le principali malattie a colpire gli esseri umani avrebbero riguardato le vie respiratorie, le facoltà mentali e la cute. Sulle prime è stato profetico, sulle seconde non manca molto, e per quanto riguarda la terza ha avuto un’ottima allieva in Aliya Whiteley. Nelle particolari condizioni create per La muta, la pelle diventa un elemento speciale, non solo l’involucro del corpo, ma anche una sorta di archivio delle emozioni. L’aveva ben capito Thomas Harris con Jame Gumb alias Buffalo Bill, il personaggio che Il silenzio degli innocenti vedeva al centro dell’attenzione proprio mentre cercava di rivestirsi con una pelle fatta su misura, ed è il motivo per cui Rose Allington si ritrova a combattere: è stata la guardia del corpo e l’amante di Max Black, attore, regista e produttore cinematografico. Uno che non deve chiedere mai (“Fai sempre così. Una cosa è reale solo se lo dici tu”), si sarà capito. I due ruoli prevedono un contatto diretto, ravvicinato, sensibile, ma in un mondo dove l’epidermide cambia ogni sette anni, la tensione non si può nascondere e per Rose ogni trasformazione è una sofferenza infinita al punto di dover lasciare Max e il suo lavoro. Il provvisorio rifugio è la famiglia, che resta ancora il legame più solido, dove l’amore è interiorizzato, incanalato e probabilmente istituzionalizzato. Rose rientra in questo alveo, limita le ambizioni (la ritroviamo occupata in un piccolo negozio che tratta le pelli) risale alle origini, prima di essere coinvolta ancora nel e dal suo passato. È chiaro che La muta è un’epifania perché è convinzione generale che “perdere la pelle non è la tragedia che sta al centro della condizione umana. Provare la stessa cosa per sempre: questo è peggio”. Le mutazioni sono essenziali a completare i cicli vitali, ma anche a determinare le posizioni sociali. Le leggi non dichiarate dello stardom system sono feroci: o dentro, o fuori. Questo diventa evidente nella seconda parte del romanzo che si avvolge attorno alla prima seguendo la diaspora degli Stuck Six, una sorta di mix tra una boy band e un reality show a cui Max Black vuole dedicare un film. Nomi, cognomi e pseudonimi si alternano come le pelli che si consumano, e le storie che si scambiano, coprendo professioni imbarazzanti, e tutto un background che Aliya Whiteley è molto saggia a lasciare nascosto, così il lettore trova un po’ di spazio anche per le inevitabili domande che sorgono spontanee. Quante pelli si possono cambiare in una vita? E quanto amore può restare su una pelle? La muta ruota attorno a questi interrogativi e al tentativo di conservare le pelli (e, forse, l’amore) e lì ci si inoltra in un sottobosco di ex militari, prostitute, spacciatori, tutte figure appariscenti nel mondo scintillante che ruota attorno a Max Black e agli Stuck Six, ma che sono pericolosamente vicini ai bassifondi, e questo Rose lo sa benissimo. Nel corso delle mutazioni, la pelle è una costante dell’identità nel tempo e nel friabile tempo delle star diventa un raro elemento di memoria e diventa un’ossessione al punto di costituire un pericolo. Con tutte le sue simbologie il romanzo di Aliya Whiteley va annusato, sfiorato, toccato proprio perché, in un’era dove tutto è smaterializzato, anche i rapporti umani, riporta il corpo, con le sue variabili e i suoi limiti, al centro dell’attenzione. Ed è molto vicino alla realtà, anche se la osserva attraverso una lente deformante: il tono della scrittura è pop, leggero e movimentato, la trama si snoda come una sceneggiatura, ma quello che scorre in sottofondo, quasi come un presagio, vale molto di più. E Ballard approverebbe, senza dubbio.

sabato 28 agosto 2021

Jorge Luis Borges

Il labirinto comincia qui, nell’ambigua umiltà dell’epigrafe, quando Borges a poco più di vent’anni scrive: “I nostri nulla differiscono di poco; è banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi ed io il loro estensore”. Fervore di Buenos Aires è l’apologia delle ombre, nei cortili e nei vicoli, e di una città Buenos Aires vissuta come un mondo visibile e occulta nello stesso tempo e comunque indivisibile da Borges, che si attiene a una costruzione espressiva illimitata ed estrema. Un’esuberanza che si annuncia già con La recoleta, i cui versi centrali dicono: “Vibrante nelle spade e nella passione e addormentata nell’edera solo la vita esiste. Lo spazio e il tempo sono forme sue, strumenti magici dell’anima, e quando questa si spegnerà, si spegneranno con essa lo spazio, il tempo e la morte, come al cessare della luce si estingue il simulacro degli specchi che già la sera stava spegnendo”. Le crepuscolari cornici tratteggiate con Il sud o in Strada conosciuta accompagnano l’avventura nei meandri di Buenos Aires dove, come dice con  Il truco sopravvivono “gli stessi versi e le stesse diavolerie” e dove “è bello vivere con l’amicizia oscura di un atrio, di una pergola e di una cisterna”, così elencati in conclusione a Un patio. Il giovane Borges è apodittico e temerario. Narrando le gesta del bisavolo, il colonnello Isidoro Suárez, comandante della cavalleria nelle guerre d’indipendenza peruviana e colombiana, conclude la sua Iscrizione sepolcrale con due versi che celebrano tutta l’amarezza, dopo le gesta eroiche: “Preferì l’onorevole esilio. Oggi è un pugno di cenere e di gloria”. In punta di polemica è anche Sala vuota, dove dice che “i dagherrotipi mentono la loro falsa vicinanza di tempo trattenuto in uno specchio e al nostro esame di perdono come date inutili di confusi anniversari”. Un’annotazione che, a distanza esatta di un secolo, vale anche per la loro evoluzione digitale che, per quanto precisa e dettagliata, non riesce a raccogliere “il capitale delle notti e dei giorni” o “il sospetto generale confuso” dovuto all’enigma del tempo, che sono le principali ossessioni di Jorge Luis Borges. Gli omaggi a Schopenauer e a Walt Whitman sono gli unici riferimenti espliciti, lasciati galleggiare tra i versi perché poi, come rivela in Camminata, Borges ammette finalmente di essere “l’unico spettatore di questa strada”. Allora è un trionfo di tramonti e silenzi, solitudini e ricordi, sere e segreti, assenze e crocicchi che conducono, in Semplicità, a quel voler essere ammesso a una realtà “innegabile”, proprio come “le pietre e gli alberi”. È quella la cifra precisa delle osservazioni e della profondità cercata nel Fervore di Buenos Aires che, in un costante processo di rarefazione, verrà infine celebrata così in Benares: “E pensare che mentre gioco con dubbiose immagini, la città che canto, persiste in un luogo predestinato del mondo, con la sua topografia precisa, popolata come un sogno”. Scriverà, nel prologo aggiunto a Fervore di Buenos Aires nel 1969: “A quel tempo cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora i mattini, il centro e la serenità”. Tutto chiaro.

martedì 13 luglio 2021

Jonathan Scott

Ancora sul finire del 2020, le sonde Voyager, ormai lanciate ben oltre i confini della nostra galassia, rilevavano le accelerazioni di flussi di elettroni nei raggi cosmici provocate dalle eruzioni solari. Un risultato sorprendente, essendo partite nel 1977, e viaggiando con la limitata tecnologia del tempo. Insieme all’esplorazione scientifica, le Voyager trasportavano un messaggio destinato ad altri ospiti dell’infinito universo. Mixtape Interstellare racconta proprio la genesi del Voyager Golden Record e la ricostruzione di Jonathan Scott è particolarmente felice, perché discorsiva, capace di fermarsi al punto giusto quando si tratta di inerpicarsi nelle spiegazioni scientifiche e/o matematiche e in grado persino di raccontare con il giusto garbo la liaison tra Carl Sagan e Ann Druyan, sfociata poi nel matrimonio, così come tutte le eccentricità e le resistenze e le divergenze che hanno delimitato la creazione del Golden Record. Un’idea tutt’altro che bizzarra, anzi, una scintilla di umanesimo inserita nel contesto burocratico della NASA e del governo americano (e dell’ONU). Mixtape Interstellare descrive così la dedizione di un gruppo di scienziati nel cercare di formulare, in un messaggio sintetico, da realizzare in un lasso di tempo brevissimo (sei settimane dell’estate 1977) e con un budget risicato, un ritratto dell’umanità. Come scrive giustamente Jonathan Scott “questo voleva dire assicurarsi che il messaggio avesse una sensibilità globale, non arrivava dagli americani, o dagli occidentali evoluti, arrivava da tutto il mondo, e che non lo influenzassimo mettendoci dentro la nostra religione e la nostra filosofia. Ovviamente, per gli alieni non avrebbe fatto la minima differenza, ma alla popolazione terrestre avrebbe comunicato un senso d’inclusione molto più grande, ed è questo che voleva ottenere”. Al pari delle contemporanee capsule del tempo, il contenuto ospitato dalle sonde, oltre a rappresentare un messaggio per entità aliene, è un riflesso dell’identità e del bisogno dell’umanità di riscoprirsi, con la musica al centro del progetto perché, rappresenta “un’idea del valore di una civiltà” come diceva Carl Sagan, una figura centrale nell’elaborazione del Mixtape Interstellare. Tra rocambolesche ricerche, equivoci successivi (come la presenza di Satisfaction), censure e cambi di rotta il tentativo di parlare con gli extraterrestri si è rivelato anche un confronto tra arte e scienza e, all’interno di questo, tra immagini e suoni, raffinato dalla necessità di selezionare con cura e quindi di operare sia una cernita che una scelta. Definita anche dai limiti operativi: è vero che “la Nasa aveva dimostrato ancora una volta la sua apertura verso il non essenziale. Sì, l’agenzia voleva risparmiare soldi. Sì, voleva che i suoi progetti fossero approvati dal Congresso. Ma cercava anche di entusiasmare”, ma c’erano aspetti tecnici che costituivano un percorso irto di ostacoli: ogni singolo grammo di peso in più spostava gli equilibri della sonda, che voleva dire fare acrobazie su un budget ridotto all’osso e rischiare di incappare nelle maglie delle burocrazie governative, il più delle volte inamovibili. L’occasione era troppo importante per lasciarsela sfuggire perché, nei fatti, rispondeva al fortissimo desiderio espresso da Don DeLillo con La stella di Ratner: “Ciò di cui abbiamo bisogno in questa fase del nostro sviluppo percettivo è una simmetria onnicomprensiva, in grado di costituire qualcosa che sembri, magari senza esserlo, un’immagine totalmente armoniosa del sistema-mondo. È la nostra ingenuità, se non altro, a richiederlo. La nostra infantile fiducia nell’equilibrio strutturale”. Tutto da contenere in un disco: raccontata come se fosse un romanzo, l’avventura del Mixtape Interstellare è coinvolgente per la scrittura dettagliata e frizzante quanto basta e per la materia in sé perché “il disco era un’opportunità per noi umani di guardarci e di chiederci qual è la caratteristica essenziale dell’umanità”. Era quindi logico pensare a un’edizione da distribuire urbi et orbi, ma come ha detto Jon Lomberg: “Imparammo nel peggiore dei modi che era più semplice spedire il disco nella galassia che farlo uscire sul mercato”. E, anche qui, si scopre che c’è qualcosa di peggio del vuoto cosmico. Per inciso, bisognerebbe parlare di quello che hanno evitato di mettere nel Voyager Golden Record: l’immagine di un’esplosione nucleare (avremmo voluto anche che non fosse mai esistita, ma questo è un altro discorso).

lunedì 28 giugno 2021

Nick Kent

A differenza di The Dark Stuff, dove i protagonisti erano quelle rock’n’roll star che Nick Kent doveva inseguire per redarre le sue cronache dai territori di gloria e perdizione, in Apathy For The Devil, il soggetto principale è proprio lui. Sì, ci sono ancora gli incontri con David Bowie, Iggy Pop, Syd Barrett, l’epifania con Rolling Stones e così via, ma lo scandaglio del giornalista e dello scrittore affonda nell’autobiografia per raccontare la risalita dalle profondità della tossicodipendenza. Una cavalcata senza tregua a cui Nick Kent si dedica con passione e con molta sincerità: quasi una confessione che si snoda nei suoi trascorsi tra Londra, New York e Los Angeles, dove nuove ondate di stili musicali (e non solo) si succedono una dopo l’altra, con una visione particolare del momento: “Chi scriveva non osservava più pigramente i suoi oggetti da una distanza di sicurezza: era proprio lì nella mischia, a succhiare l’essenza di ciò che accadeva per poi rimodellarla in una forma d’arte personale”. Si susseguono la turbolenta relazione con Chrisse Hynde prima della formazione dei Pretenders, i Roxy Music e Brian Eno, Captain Beefheart e Marc Bolan, i Ramones ed Elvis Costello agli esordi. Il tutto immerso in un diluvio di sostanze di cui, per buona parte della sua vita, Nick Kent ha abusato arrivando a sopravvivere in infimi livelli di decadenza, che vengono riportati senza alcun sconto. Il quadro, per niente edificante, non impedisce a Nick Kent di cogliere o partecipare i principali stravolgimenti della musica che è chiamato ad affrontare. Entra, per un attimo fuggente, anche nei Sex Pistols, seguendo poi tutte le variazioni di tendenza di quegli anni dalla Londra dormiente a quella che viene svegliata dall’improvvisa scoperta che il Regno Unito è in preda all’anarchia. Nick Kent si lascia trascinare dagli eventi e il risultato è un grezzo memoir senza freni inibitori, che colleziona gli effetti deleteri dell’eroina e del metadone. In quelle condizioni è chiaro che per Nick Kent “la musica resta la sola chiave capace di aprire la porta sul passato in modo di cui mi possa fidare” ed è così che riesce comunque a superare le barriere e a raccontare molto di quello che è successo dietro le scene di Ziggy Stardust o dei New York Dolls, trucchi e costumi, di un’intera civiltà che, nella sua decadenza, ha raggiunta un’aura leggendaria. Nick Kent non fa nulla per sfatarla, ma si addentra senza (inutili) censure, sporcandosi le mani, e annotando tutto con uno stile scarno e tagliente, dato che “la realtà ha questa pessima abitudine, di irrompere all’improvviso e sgonfiare i nostri palloncini”. Nelle parti più torbide, Apathy For The Devil, pur contando qualche ripetizione, vive di pura adrenalina, che mette in risalto molti dei luoghi comuni dello stardom system, che peraltro Nick Kent vive da perfetto outsider, ma anche da acuto osservatore. Dentro un “vortice oscuro” riesce a sollevarsi mantenendo quel tanto di lucidità da ricordarsi gli anni dal 1970 al 1979: il resto l’ha lasciato volentieri ai posteri trattandosi di musica suonata da “gente con tagli di capelli assurdi chinata su tastiere con un sacco di fili e oscillatori di tono fai-da-te. Roba che suonava come un branco di oche che scoreggiano in una galleria del vento”. Il finale è traballante, forse perché la redenzione non è altrettanto affascinante della desolazione, ma Nick Kent non concede nulla né ai rimpianti né ai rimorsi, e si lascia alle spalle tutta un’era. Onesto.

mercoledì 5 maggio 2021

Sadeq Hedayat

In uno dei tanti incontri che popolano L’ultimo sorriso, episodio centrale che illumina Il randagio e altri racconti, Sadeq Hedayat declina la sensazione “che la musica avesse conferito un’anima speciale alle immagini sul muro, che ora avevano preso vita”. Questo giocare con il chiaroscuro, che resta la sua dote principale e la cifra assoluta del suo capolavoro, La civetta cieca, si associa qui a una progenie di drammi umani. Sadeq Hedayat è un maestro nel dipanare gli equivoci che alimentano Vortice o Gerdab e Haji Morad, in cui i personaggi sono annodati da legami invisibili che inducono a eventi che pesano tragicamente sulla vita. Gli stessi protagonisti si muovono come spettri negli anfratti di quello che non viene detto. Ogni racconto ha un personaggio che deve affrontare il il sospetto, la vendetta, l’invidia (succede ad Abji Khanum), le faide (“Tutti a Shiraz sapevano che Dash Akol e Kaka Rostam erano così nemici che avrebbero sparato pure alle reciproche ombre”) e gli intrighi. I complotti politici che avvelenano L’ultimo sorriso, non sono meno di quelli sentimentali che poi vengono concentrati attorno alle formule del matrimonio dove l’ambiguità (maschile e femminile) ha modo di espandersi e di implodere. Esemplare, in questo senso, lo svolgimento di Muhallil o Il pluridivorziato, dove il ruolo di Robadeh, una sposa bambina, si fa via via imperioso e risolutivo. Nelle trame di Sadeq Hedayat le sorprese non mancano: quello che Il randagio e altri racconti condividono sono le atmosfere di un Iran preindustriale e cosmopolita, con la vita, privata e sociale, che si svolge tra il bazar e il quartiere, ma dove “non c’è più niente che sia benedetto dalla sorte”. Il tratto comune è un’estrema povertà, condensata nell’idea che “il nostro tempo è finito, come dicono le vecchie ciabatte, siamo vivi perché non abbiamo il sudario”. Una condizione vissuta con una dignità profonda, sorretta e articolata da una pletora di celebrazioni, riti e tradizioni. Una cultura risalente a “mille anni prima”, un retaggio solido e stratificato che è nello stesso tempo caposaldo e prigione, rifugio e castigo, tanto è vero che la scrittura di Sadeq Hedayat è permeata di proverbi e canzoni, è popolare e popolana nella rappresentazione ma anche estremamente raffinata, asciutta e rarefatta nel suo formularsi racconto dopo racconto. Con alcune eccezioni, che si svolgono altrove, rispetto all’Iran rurale e sperduto dei villaggi, come La bambola dietro la tenda, espressione simbolica e surreale di una condizione femminile tutta da esplorare e in cui “la vita stessa era illusoria, artificiale, priva di senso” e Il Don Giovanni di Karaj, testimonianza di un Capodanno danzante dove il protagonista scopre, già dal memorabile incipit, che “ci sono persone che diventano intime già dal primo incontro, o come dice il detto popolare, asola e bottone, e non si dimenticano più l’uno dell’altro fin dalla prima presentazione. Mentre altri, nonostante vengano presentati più volte e si incontrino spesso, si evitano accuratamente. Niente simpatia o compassione reciproca per loro. E se per caso si incrociano per strada, fingono di non essersi visti. Amicizia inspiegabile, inimicizia anche”. Ancora più estremo è Il randagio, una piccola parabola che vede un cane fuggire dal suo padrone, travolto dall’istinto, e finire in mezzo alla strada, con un’espressione emblematica e malinconica “qualcosa che si può cogliere solo nel muso di un cane randagio”. Manca un capitolo rispetto all’originale selezione che doveva comporre Il randagio e altri racconti perché Anna Vanzan, iranista e islamologa che già aveva tradotto La civetta cieca, è scomparsa alla fine del 2020 e qui, in perfetta simbiosi con le atmosfere di Sadeq Hedayat, insieme  all’assenza si celebra il ricordo.

lunedì 3 maggio 2021

Bruce Chatwin

L’Afghanistan come non l’avremmo più visto: nell’estate nel 1969, Bruce Chatwin lo attraversa inseguendo le tracce elleniche e la leggenda del tesoro di Fullol. Con lui c’è Peter Levi che descrive così il suo compagno di viaggio: “L’Afghanistan è abbastanza distante e straordinario e non si può essere così stupidi da viaggiare da soli. C’erano amici di cui desideravo fortemente la compagnia e attraverso i cui occhi avrei voluto vedere molto di più. Ma risulterà ovvio da ogni pagina di questo libro che sono stato estremamente fortunato a viaggiare con la compagnia che ebbi. Le migliori osservazioni in questo viaggio e le migliori battute vengono da questo compagno di viaggio; era lui ad essere interessato ai nomadi, che mi disse di leggere Basho, lui che aveva fatto tutte le ricerche giuste sui soggetti che interessavano me oltre che su quelli che lo riguardavano, lui che conosceva i nomi dei fiori e che capiva la storia dell’arte islamica. Questi sono veri e propri lussi; ma il mio compagno era perfino meglio nelle virtù quotidiane, senza le quali ci saremmo arresi subito, in un viaggio in cui uno deve essere instancabile, estremamente paziente, aperto, simpatico e con un talento speciale per la conversazione o il silenzio”. Più che alle mappe o alle speculazioni, Bruce Chatwin si affida a una sensibilità epidermica ma sincera: al cospetto dei sessantacinque metri del minareto di Jam (“Si eleva contro il cielo come un razzo per la luna a tre stadi e fu costruito con la stessa esatta aspirazione”), ammette che “non si può descrivere il senso di sorpresa e stupore di fronte a questa meraviglia”. Lo sguardo vaga senza sosta condivide “l’emozione delle grandi foreste di cedro”, collegando le bellezze della natura con un’idea di arte. Il 5 agosto annota: “Le montagne sono disposte in una quiete diagonale come in Leonardo” e, non a caso, si accorge che che i copricapi tradizionali sono simili a quelli rinascimentali. Sarà solo una coincidenza, ma poi Bruce Chatwin scopre davvero i resti di una civiltà straordinaria, risalente all’età del bronzo,  unico testimone di una ricchezza che le guerre hanno fatto sparire per sempre. Con il consueto entusiasmo, scrive alla moglie Elizabeth, chiedendole di raggiungerlo a Kabul: “Il libro dovrebbe prendere la forma di un diario di viaggio con diversioni sull’aspetto del paese, sulle montagne, gli alberi, e gli uccelli. I viaggiatori dai pellegrini buddisti ai grandi conquistatori, l’architettura, soprattutto islamica, e l’arte; la complicata etnografia, i traffici dai tempi antichi fino ad oggi”. Se quel volume resterà un bel proposito, confinato nei suoi taccuini, è proprio lì che Bruce Chatwin vede il suo futuro nella scrittura. Come scrive Franco La Cecla, curatore insieme a Maurizio Tosi del Viaggio in Afghanistan, “il vero personaggio è questo infaticabile lavoratore del mondo, questo macinatore di paesaggi, di letterature, quest’uomo che si applicava con passione ai luoghi come se fossero persone. E che lo faceva sapendo di non essere un letterato ma di volerlo diventare. Non sappiamo nemmeno oggi che tipo di letterato sia diventato. È insieme un archeologo mancato, un antropologo mancato, ma anche un letterato strano e le tre cose insieme formano un complesso che ci ha avvinto, volenti o nolenti. È la sua magnifica incompiutezza che ci ha affascinato. Quella che in questo viaggio di formazione, in questa soglia che lo fa passare dall’osservazione alla scrittura, emerge con tutta la sua freschezza e ingenuità. Soprattutto emerge una cosa che ci siamo dimenticati di dire: che nonostante tutte le spocchiosità degli accademici e dei letterati, Bruce Chatwin è bravo davvero (come archeologo, studioso di civiltà, come antropologo e viaggiatore e come scrittore e critico al tempo stesso), perché ha piegato i saperi alle sue passioni di eterno adolescente”. Ci manca Bruce Chatwin, ci manca l'Afghanistan, ci manca quel viaggio.