Interni
ed esterni di una famiglia aristocratica inglese negli anni sessanta:
una decadenza inarrestabile che si trascina in un folle e amaro
vortice di solitudine, disperazione e distruzione: anche se non è
uno degli episodi della Factory, la saga per cui è diventato
giustamente famoso, Atti privati in luoghi pubblici è a pieno
titolo un romanzo degno della visione narrativa di Derek Raymond, che
qui si applica a mondi che ha conosciuto in prima persona, ovvero
quelli dell’aristocrazia e della pornografia. L’associazione
autobiografica deve aver avuto un peso specifico non relativo, vista
l’acidità con cui viene trasmessa dallo stesso Derek Raymond.
Tutto si svolge all’ombra della Swingin’ London, un momento che,
messi da parte miti e leggende, viene inquadrato così: “L’ottanta
per cento della popolazione britannica stava mollo nell'ignoranza e
nella miseria, nell’infelicità, nell’anno di grazia 1967,
semplicemente perché il denaro non arrivava nelle loro tasche, o
perché non avevano il tempo di fare buon uso di quello che
guadagnavano, o le due cose insieme”. E’ quello il contesto in
cui un manipolo di rampolli di buonissima famiglia si lascia andare
alle deviazioni rispetto all’ipocrisia imperante, senza accorgersi
di essere finiti nell’inevitabile cul de sac. Viper e Mendip si
sono scelti un ramo aziendale insolito e piuttosto torbido (tengono
insieme una serie di sexy shop) e, se non altro, tutto sommato almeno
un senso degli affari l’hanno mantenuto. Le sorelle (e loro cugine)
Lydia e Beatrice invece hanno manifestato tutto il loro dissenso
verso le tradizioni, i riti e i codici della famiglia. Lydia si è
dedicata alla più completa dissoluzione del corpo e della mente (“La
noia, se ne rendeva conto, in lei occupava il posto di tutte le
passioni. La noia era al contempo rabbia, gioia, amore, piacere dei
sensi, in lei”), passando dai film pornografici alla prostituzione;
Beatrice si è rinchiusa in soffitta a studiare Marx ed Engels, sommo
sfregio all’aristocrazia famigliare, insieme al fatto (ancora più
grave) che si degna di pranzare e cenare soltanto con la servitù.
Una serie di eventi li porteranno tutti quanti (una bella compagnia,
tutto sommato) nella ricca villa di famiglia. Nello scenario della
bucolica campagna inglese, tra scenate irripetibili (“L’avidità
era il loro comune terreno d'intesa. L’arroganza il loro comune
linguaggio”), clamorosi colpi di scena e un intero catalogo di
follie si consumerà, per intero, il dramma di un declino squallido,
travolgente e spietato. Gli Atti privati in luoghi pubblici sono
fotografati in modo molto lucido e convincente da Derek Raymond.
Domina, incontrastato, il suo tratto spigoloso, tagliente che non
concede nulla ai suoi personaggi se non una lunga, cupa e atroce
discesa negli inferi che si sono creati. Nessun luogo comune, nessuna
pietà e nessun effetto speciale: a Derek Raymond basta e avanza la
sua geniale idiosincrasia verso il genere umano per arrivare fino in
fondo. Senza scampo, senza via d’uscita.
martedì 31 ottobre 2017
lunedì 30 ottobre 2017
J. G. Ballard
In un
grattacielo smisurato e proiettato tanto nel cielo quanto nel futuro,
i rapporti tra i condomini regrediscono fino a tornare alle esigenze
primordiali della sopravvivenza: aggressività, autodifesa, caccia
all’uomo. Lo sviluppo è lineare almeno quanto la struttura
verticale del grattacielo, “un’immensa macchina progettata per
servire non la collettività degli inquilini, ma il residente
individuale e isolato”. Metafora di tutta la nostra vita
quotidiana, straordinaria visione di un futuro che è già presente,
nel condominio di J. G. Ballard le classi sociali sono divise dai
piani e dagli ascensori, ma ad un certo punto tutto ciò che dovrebbe
essere garantire l’individualità e la privacy nella vita comune
diventa un territorio di scontri brutali, che nascono dalle esigenze
più elementari: la tutela del territorio e dei piccoli, la fame e
altri appetiti (quelli sessuali, principalmente), la sopravvivenza
tout court. La riduzione del tessuto sociale ai limiti
dell’animalesco non è tutto, perché l’ombra del condominio
svela l’ipocrisia, l’indifferenza, l’abulia visto “nonostante
l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di
tali accadimenti. La routine della vita continuava come prima, si
andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In
qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice
logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle
esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero
dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che
fare con l’ennesima incursione aerea”. Il
condominio, con la sua brutale architettura
di quaranta piani per mille appartamenti è verticale verso l’alto
ed è anche un precipizio. Diventa un incubo claustrofobico, teso e
snervante che introduce il lettore in un’atmosfera ambigua e
inquietante perché il caos del condominio è il nostro (nuovo)
ordine quotidiano, uno stillicidio di violenze piccole e grandi di
cui, proprio come gli inquilini di J. G. Ballard, non riusciamo a
tener conto. La “sfida alla realtà delle cose” è tutta
dell’avvicinarsi ala cronaca quotidiana. Mentre Il
condominio, con il progredire della storia,
comincia una vita tutta sua e diventa un soggetto indipendente, lo
specifico tipo di violenza che pervade i suoi abitanti è qualcosa di
inedito e incontrollabile. Lo spunto, polemico se si vuole, del
condominio è proprio lì, più che nella cupissima trama: è
l’incapacità di vedere quello che ormai non si può più
nascondere, è la forza dell’abitudine che impedisce di fiutare il
peggio, è la stratificazione (sociale, politica, umana) che ad un
certo punto, questione di tempo, collassa. Nell’intimo, nelle
soggettività più che nella collettività, come fa notare Ballard,
senza ipocrisie: “E’ un errore pensare che stiamo tutti
spostandoci verso uno stato felice di primitivismo. Qui il modello
non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé
post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da
un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione
per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale... Una miscela
ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare
i nostri antenati vittoriani”. Il condominio
è un grande romanzo perché racconta, da dentro, dall’intestino,
le ultime metamorfosi di una civiltà decadente, la nostra, e di
un’umanità che, nonostante l’evoluzione della specie, è ferma
ai suoi istinti animaleschi. Attualissimo, e sempre sorprendente, è
l’istantanea di un futuro già esaurito.
venerdì 27 ottobre 2017
Hilary Mantel
Andrew
e Frances Howe si trasferiscono in Arabia Saudita, a Gedda, dove lui
dovrà sovrintendere alla costruzione di un nuovo e sontuoso palazzo
ministeriale. La Turadup, la società inglese che ha in appalto i
lavori, pensa a tutti i dettagli, con la mediazione di Jeff Pollard
e sotto la responsabilità diretta di Eric Parsons, due figure che
avranno un ruolo non relativo durante gli Otto mesi a Ghazzah
Street trascorsi dagli Howe. Provenienti dall’Africa, già
allenati a sopportare condizioni estreme e pericolose, apartheid
compreso, Andrew e Frances affrontano l’impegnativo trasloco
soltanto in virtù di un congruo riconoscimento economico: fuori
dalle mura dell’appartamento affittato dalla Turadup c’è un
mondo ostico, che però paga stipendi come da nessun’altra parte.
Andrew è assorbito e sfiancato dal lavoro, Frances accusa ben presto
un senso di isolamento, acuito dalle condizioni sociali e climatiche.
Il calore opprimente si condensa nel senso di claustrofobia, persino
all’aria aperta, anche di fronte al mare, dovuto all’attrito
costante con le regole e le tradizioni, l’ipocrisia e i segreti
celati dietro le porte chiuse, le voci e la lettura delle lettere ai
giornali, le difficoltà nelle comunicazioni, perché “da quelle
parti la curiosità è un fenomeno transitorio. Non che si venga a
sapere tutto, ma nel giro di poco s’impara a conoscere ciò che è
consentito. E’ un tipo di società riservata che non rende noti i
propri difetti e non svela il modo in cui ragiona, che risponde alle
domande pressanti con un’ondata di disinformazione e poi torna al
suo prediletto silenzio. Una porta si chiude e, mentre stai mettendo
insieme i luoghi comuni di tua conoscenza, se ne chiude un’altra,
sbattendo”. Solo questi gli elementi che trasformano gli Otto
mesi a Ghazzah Street in un’eternità. In effetti, la
dimensione temporale è falsata, non soltanto dal calendario
islamico, per cui “il tempo sembra scorrere a ritroso”. La
giornata a Gedda è lunga, scorre come la polvere, impercettibile,
sfuggente, friabile: l’unica attività concreta è andare a far
compere, ma anche quello comporta limiti e rischi, in particolare se
ci si avventura nel suk. Non a caso, il condominio dove abitano gli
Howe è chiamato “il capolinea”: lì crollano in sonni agitati,
bevono vino fermentato di nascosto e cercano di seguire le
consuetudini degli espatriati, che sono quasi una società segreta.
Il rischio di essere espulsi o (peggio ancora) di essere trattenuti è
costante così come è continua l’ostilità verso le donne,
costrette ad assecondare le imposizioni locali, a limitarsi, se non
proprio a nascondersi. L’alternativa a Ghazzah Street, al
“capolinea”, sarebbe (il condizionale è obbligatorio) un
compound di maestranze occidentali, ancora più isolato, dato che la
direttiva aziendale firmata da Eric Parsons è inequivocabile: “Il
meglio che ci è concesso di fare, come individui, è tenerci alla
larga dai guai”. Con una scrittura agevole, priva di inflessioni e
complicazioni, Hilary Mantel riesce a rendere alla perfezione il
senso di estraneità di Frances (soprattutto) e Andrew: la vita a
Gedda è un’intricata nebulosa di leggi (scritte, dette e non
dette) e al “capolinea” la trasferta professionale si sublima in
un segmento di tempo alieno finché l’idea dell’esilio non appare
del tutto fuori luogo. Un bel romanzo, utile ed efficace.
mercoledì 25 ottobre 2017
Herman Koch
Mamma
e papà davanti alla televisione riconoscono, in un programma di
cronaca, il figlio come protagonista di un’aggressione a un
clochard, brutale e tragica nella sua conclusione. Il papà non dice
nulla: la violenza è un parte della sua malattia. La mamma non dice
nulla, e basta. Il filmato è di bassissima qualità, il figlio e i
complici sono vestiti come migliaia di ragazzi, nessuno li riconosce.
Ma tra gli altri c’è un nipote, figlio di un politico
professionista e candidato a primo ministro che, avendo scoperto il
fatto, non vuole saperne di proseguire la sua carriera con una mina
pronta a esplodere da un momento con l’altro. La “cena”
convocata per l’occasione in un ristorante di lusso diventa un
consiglio di guerra famigliare per decidere cosa e come fare.
Nell’atmosfera misurata e controllata del raffinato convivio,
cresce una livida ambiguità trasformando La cena in un
clamoroso punto di domanda: l’imprevedibile che può pregiudicare
il destino e travolgere carriere, abitudini, posizioni nasce proprio
nell’alveo della famiglia e ancora prima di immaginare una via
d’uscita, i commensali si chiedono come è stato possibile, cosa
hanno già perso, più di ciò che potrebbero perdere. Il romanzo è
solido e trascinante, anche se la scrittura è abbastanza diseguale.
In alcuni passaggi è molto lirica, altrove riflette il passato di
autore televisivo di Herman Koch, tradendo un insolito affetto per le
immagini e per il loro dettaglio. Colpiscono i passaggi in cui il
lettore viene proiettato sul tavolo, dentro il menù, nel fuoco amico
della discussione e poi fuori, come se fosse uno spettatore degli
eventi. “Potevo scegliere fra due alternative: rimanere a guardare
dalla finestra o confondermi nella folla. Avrei potuto fare finta di
avere una destinazione anch’io”: la considerazione di uno dei
protagonisti della “cena” vale anche per il lettore. Una serie di
cambi di prospettiva che permette al romanzo di mantenere la tensione
di un thriller dall’inizio alla fine. Solo che qui non c’è alcun
mistero sui colpevoli (sono noti fin dall’inizio i responsabili
dell’omicidio), sui moventi o sulle motivazioni, peraltro piuttosto
evanescenti. C’è una grande pressione, a tratti palpabile nei
momenti più feroci della “cena”, in attesa di risposte che, in
effetti, non arrivano. O meglio, diventano chiare una volta imboccata
la ripida discesa del finale, a suo modo è una rivelazione, che
lascia aperte al lettore tutte le possibilità narrative. Mettendolo
in un vicolo cieco dal punto di vista morale: cosa è giusto, cosa è
sbagliato, in questa inquietudine moderna, viene deciso a tavola,
dove quattro persone sono costrette a confrontarsi con una drammatica
scelta (come difendere i figli senza tradire i propri valori) e a
discuterne tra una portata e l’altra con la soluzione (se si può
parlare di soluzione) che arriva insieme a un enorme conto da pagare.
La violenza, endemica e mimetizzata all’interno della stessa
cerchia famigliare, si rivela, ancora una volta, e fino in fondo,
un’opportunità perché “da qualche parte sarebbe rimasta una
cicatrice, ma una cicatrice non impedisce di essere felici”. Fa
pensare.
martedì 24 ottobre 2017
Anthony Burgess
Pubblicato
nello stesso anno di Arancia meccanica (1962), Il seme
inquieto è un tassello fondamentale e profetico delle visioni,
perché di questo si tratta, di Anthony Burgess. L’azione si svolge
in un futuro dove l’esplosione demografica ha costretto le autorità
ad un rigidissimo controllo delle nascite e al razionamento dei cibi
e delle bevande. Tutto ciò in cambio di una stabilità geopolitica e
di un mondo senza eventi bellici. Una Londra cupa e cresciuta in
verticale, e almeno dal punto di vista architettonico non siamo
distanti da come in effetti si è sviluppata, è l’epicentro dell’azione fino a
quando la situazione non si ribalta: la fame non è un fenomeno che
le variabili politici possono controllare. Scoppia l’inevitabile
caos, tra disordini e cannibalismo, orge e manovre di palazzo fino a
quando, in cerca di un nuovo ordine (che, si suppone, deve essere
mondiale) si giunge alla creazione di rudimentali milizie, poi di un
esercito, di più eserciti i cui destini sono chiarissimi: “Un
esercito, essendo in primo luogo un’organizzazione votata
all'omicidio di massa, non può certo farsi condizionare da scrupoli
etici. Deve tenere sgombre le arterie stradali per garantire il
traffico, sangue della nazione; tutelare i rifornimenti idrici;
mantener bene illuminate le vie principali: strade secondarie e
vicoli dovranno arrangiarsi. Nessun dubbio, niente domande”. Sono
invece tantissime le questioni che il crescendo, a tratti barocco,
con cui Anthony Burgess delinea Il seme inquieto lascia sul
terreno, oggi più attuali di quarant'anni fa, proprio a partire
dalla natura dell’esercito che è la causa, non l’effetto come i
libri di storia vorrebbero insegnarci: “Di qui a poco saranno in
tanti ad aver paura, amico, e tu fra loro, oserei dire. Ma è ovvio
che ci sarà una guerra. Non perché qualcuno la voglia,
naturalmente, ma perché c'è un esercito. Un esercito qua e un
esercito là ed eserciti a destra e a manca. Gli eserciti sono fatti
per la guerra e la guerra è fatta per gli eserciti. Mica ci vuol
tanto a capirlo”. Quello che Il seme inquieto comprende e
illustra, comincia da un’acuta rivisitazione dei temi orwelliani:
il potere politico che resiste ad ogni ribaltamento di fronte, i temi
dell’esplosione demografica e quelli conseguenti dello sfruttamento
delle risorse e degli sviluppi urbanistici, il controllo
dell'informazione e, infine, la guerra che aleggia sempre (anche
oggi, purtroppo) come una soluzione: “La guerra come grande
afrodisiaco, copiosa fonte di adrenalina per il mondo intero,
soluzione al tedio, all’Angst, alla malinconia, all'accidia, allo
spleen? La guerra come immenso atto sessuale culminante in una
detumescenza che non era una morte soltanto metaforica? La guerra,
infine, come suprema regolatrice, ordinatrice, eliminatrice,
giustificatrice della fecondità?”. Allucinante e incontrollabile nel
1962, inquietante (per la sua attualità) oggi, Il seme inquieto
sarà ancora un punto di riferimento tra quarant'anni e questo è un
destino che spetta soltanto ai capolavori.
lunedì 23 ottobre 2017
Robert McLiam Wilson
L’esordio
è bruciante: la descrizione di un parto che sembra uscire dagli
inferi di Catholic Boy di Jim Carroll e invece è frutto di un
giovane scrittore (classe 1964) nato a Belfast e rifugiato a Londra.
Nelle due spicciole righe di biografia cìè un po’ tutto il mondo
di Ripley Bogle e, a tratti, è difficile distinguere il
personaggio dal suo autore, la realtà dalla fiction perché la
crudezza del racconto, le vivide immagini che emergono dal diario
della sua esistenza sono goffe, e brutali, tali da invischiare, fino
alla fine, chi gli si avvicina. Tutto si svolge in un fine settimana
un po’ lungo (si parte da giovedì), ma Ripley Bogle non ha molto
da fare e spesso si lascia andare a ricordi, tormenti, estasi e
confusioni, “Una mezza verità, la dura metà di niente. La storia
sembra arrivata in fondo per me. Mi sono ritirato. Sono sceso e mi
sono accucciato nella tonificante comodità del mio fallimento e del
mio declino. Ho semplicemente capitolato di fronte al mondo e sono
scivolato via, più silenzioso e meno ingombrante che potevo. Sono
qui e felice di essere così”. La sua è la ricostruzione
dell’inferno della vita sulle strade che ha toni spietati e
durissimi. Gli homeless, in tutto il mondo, sono ormai così tanti
che tra loro cominciano a emergere fior di scrittori. Immaginari,
come può essere Ripley Bogle, o assolutamente veri sono comunque
l’effetto di una presenza che la civiltà occidentale continua a
ignorare e tendenzialmente a rimuovere. La verità è che gli
homeless, invece, cominciano a riconoscersi e a trovare, non
giustificazioni al loro stato, ma argomenti per difenderlo e
valorizzarlo. Paradossalmente (ma nemmeno tanto), sono la coscienza
critica più efficiente del momento, una parte di elettorato che
nessuno politico andrà mai a cercare e a blandire. Si legge, tra le
righe di Ripley Bogle: “Questo è il bello del
vagabondaggio, si acquista lo status di pubblico: l’osservatore, lo
sguardo di insieme dell’artista. Noi barboni vi guardiamo tutti, e
vi ascoltiamo. Un po’ rudi, forse, ma non abbiamo un cazzo da
fare”. Il tutto si complica per un irlandese come Ripley Bogle, che
non riesce a schierarsi con nessuna parte (ed è facile capire il
dramma), vaneggia come una specie di Oscar Wilde lasciato senza soldi
e senza l’alta società, continua a ritenersi al di sopra di tutte
le parti senza accorgersi di essere immerso nel disastro fino al
collo. Beh, Ripley Bogle avrebbe usato altre parole, perché la
ricerca degli eufemismi non è il suo forte e quando comincia a
prendersela con tutto il mondo (cioè dall’inizio alla fine) riesce
a riempire quasi quattrocento pagine, senza risparmiare nessuno. Il
personaggio è quindi degno di nota e il suo autore, Robert McLiam
Wilson mostra destrezza e abilità nel raccontarlo, tanto che in
molti frangenti, Ripley Bogle sembra il diario di una
sconfitta personale. L’unica eccezione che gli si può rivolgere è
una certa ossessiva prolissità, come se avesse dovuto buttare fuori
il rospo dopo una lunghissima attesa, ma le parole servono tutte
perché un romanzo come Ripley Bogle riesca ad avere immagini che
colpiscono lo stomaco come nessun apparecchio televisivo o
cinematografico potrebbe. La scena finale, per esempio. Naturalmente,
scopriteveli da soli, i particolari. L’unico dettaglio da svelare è
il paesaggio scelto: in alto mare, un collegamento metaforico con
l’acqua, simbolo della fertilità che apriva Ripley Bogle.
Il cerchio si chiude e la decadenza occidentale trova in Robert
McLiam Wilson un’altra voce che sale dai bassifondi. Tra un po’
qualcuno sarà costretto a dargli retta.
domenica 22 ottobre 2017
George Perec
Per
un grande narratore come George Perec anche un libro fatto
essenzialmente di appunti, idee, piccoli progetti, diventa
un’occasione importante per riflettere, per lasciare un graffio,
per indicare una direzione. Il canovaccio è offerto dalla
contemplazione, non ovvia, non banale, della città e dei luoghi che
occupiamo dove “lo spazio sembra essere, o più addomesticato, o
più inoffensivo del tempo: s’incontrano dappertutto persone con un
orologio, e solo molto di rado persone con una bussola. Si ha sempre
bisogno di conoscere l'ora (e chi sa ancora dedurla dalla posizione
del sole?) ma non ci si chiede mai dove si trovi. Si crede di
saperlo: si è in casa, si è in ufficio, si è nel metro, si è in
strada. E’ evidente, certo, ma è così evidente? Eppure, di tanto
in tanto, bisognerebbe chiedersi dove si sia (arrivati): fare il
punto: non solo sui propri stati d'animo, la propria salute, le
proprie ambizioni, credenze e ragioni d'essere, ma semplicemente
sulla propria posizione topografica, e non tanto rispetto agli assi
sopraccitati, ma piuttosto rispetto a un luogo o a un essere al quale
si pensa, o al quale ci si metterà così a pensare”. Una sorta di
estrapolazione dei significati della/dalla quotidianità, quasi un
tentativo di fotografarne lo scorrere senza soluzione di continuità:
“I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà:
niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno,
l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza
riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato”. La
vena sottile, ironica, e leggera come Italo Calvino ha insegnato, non
impedisce a George Perec di affrontare in modo limpido, diretto tutte
le problematiche relative a ogni luogo in cui viviamo, dalle camere
delle nostre abitazioni alla città (“Mai potremo spiegare o
giustificare la città. La città è qui. E’ il nostro spazio e non
ne possediamo altro. Siamo nati in città. Siamo cresciuti in città.
E’ in città che respiriamo. Quando prendiamo il treno, è per
andare da una città all'altra. Non c'è niente di inumano in una
città tranne la nostra umanità”), dalla strada alle trincee (“Si
è combattuto per minuscoli frammenti di spazio, per pezzi di
collina, qualche metro di lungomare, qualche picco roccioso, l'angolo
di una strada. Per milioni di uomini, la morte è arrivata per una
minima differenza di livello tra due punti che a volte distavano meno
di cento metri: si combatteva per intere settimane per prendere o
riprendere quota 532”) fino allo spazio per eccellenza, la pagina,
la pagina bianca, la carta dell’oceano di Lewis Carroll senza una
virgola. Puro nulla e, non a caso, è proprio qui che il libro di
George Perec comincia, perché “Scrivere: cercare meticolosamente
di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare
qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche
parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. E’
anche la conclusione della cartografia di Specie di spazi,
stramba ed eccentrica finché si vuole, ma efficace.
sabato 21 ottobre 2017
Carlos Franz
C’è
“un giudice a Berlino” che apre pagine dolorose, e trova
giustizia nella scrittura, come se la narrazione, il tentativo di
interpretare una storia, la storia, fosse la condanna definitiva.
Legge e giustizia nello schema mortale di una dittatura (il Cile nel
1973, ma vale sempre) sono sinonimo di pericolo e tortura e un
giudice nella sua posizione risulta essere soltanto ambiguo. Laura è
un giudice che durante il colpo di stato cileno del 1973 si trova a
fronteggiare le nuove imposizioni della legge voluta dall’esercito.
Deve applicare la legge, la deve rispettare, anche se è palese che
gli viene imposta e che non è per nulla condivisa e che, ancora
meno, dipende dalla giustizia. Lo “stato di guerra interna”, come
l’hanno chiamato i generali, giustifica la sospensione del diritto
e della sua interpretazione e Laura, questo il nome del giovane
giudice, che si trova sull’orlo del baratro, capisce che “lo
stato totalitario non è quello dove non c’è legge, ma quello dove
non c’è altro che legge e nessun perché”. Il dilemma tra
l’amministrazione della giustizia dello stato e la verità diventa
un abisso in cui precipita fino a pagarne le estreme conseguenze:
“Stiamo diventando poco alla volta un paese fantasma, presagendolo
e ormai anelandolo. Quando arriverà il nostro turno per la
rottamazione, si tratterà di una semplice ridondanza: un silenzio
identico a quello delle nostre voci solitarie che predicano nel
deserto”. Lei stessa si ritroverà a non sapere domandare niente al
suo aguzzino e a dover rispondere alla figlia, anni e anni dopo,
perché “i figli ci fanno il favore di rieducarci al dubbio e al
dissenso”. La figlia, Claudia, chiede alla madre perché la legge
non è stata giustizia, perché la giustizia non ha servito la
verità, perché la verità è rimasta sepolta nel deserto, bruciata
dal sole e corrosa dal sale. La madre risponde scavando nella
memoria, lottando con ricordi che non vorrebbe più rileggere
(figurarsi scrivere) e cercando di assemblare frammenti di una storia
che l’ha vista vittima, carnefice, complice. C’è qualcosa nel
fiume di parole tra madre e figlia di indicibile (di inaspettato) che
appartiene al risvolto più oscuro della trama. Il ritrovarsi, alla
fine, nel deserto per le due donne rappresenta la soluzione del
conflitto a distanza, ma fino allora il racconto è una fisarmonica,
una forma di respiro che alterna ricordi e colloquio epistolare che
insieme fanno “la volontà di sapere quello che non si può sapere,
di spiegare l’inspiegabile. Sapere e spiegare, per esempio, la
normalità che aveva circondato la perversione. Non che la
perversione fosse divenuta normale, ciò sarebbe stata cattiva
memoria o pessima letteratura, bensì spiegare e sapere che le vite
normali avevano seguito il loro corso normale mentre accadeva lo
straordinario”. Tra magie e fantasmi, miraggi e destini, l’assedio
del deserto all’utopia e la resistenza di due donne legate da un
mistero si celebra in quello che Carlos Fuentes ha definito un
romanzo “il destino individuale e quello collettivo: con sguardo
lucido, distaccato eppure appassionato, Carlos Franz osa scrutare nei
melodrammi di queste vite elevandoli a tragedia di una nazione”.
Non si potrebbe dire meglio.
venerdì 20 ottobre 2017
Jonathan Coe
Attraverso
una vecchia scatola di nastri e fotografie prende forma l’identità
forma tre, quattro generazioni di donne le cui esistenze, nonché i
destini, si incrociano con tutti i loro amori, stili, ideali e
fallimenti, visto che “non c’è niente che si possa dire,
immagino, di una felicità perfetta, impeccabile e senza ombre;
niente, salvo la certezza che dovrà finire”. La pioggia prima
che cada inizia come un romando di Ian McEwan, Martin Amis e
Graham Swift, i fratelli maggiori: la stessa cura della geometria e
della geografia, il ritmo soppesato battuta per battuta, un calore
che s’insinua senza esitazioni attraverso le parole, un tono
drammatico e nello stesso tempo molto cauto nel sottolineare gli
eventi e un grande rispetto, quasi un timore reverenziale, verso i
personaggi. Ben presto si capisce perché: il puzzle che si forma
nelle fotografie, la cui descrizione è l’intima essenza di La
pioggia prima che cada, è molto labile, come lo sarebbe in
realtà, anche perché il rapporto tra immagine (soprattutto la
fotografia, che fra tutte le arti visive è la più istintiva) e
scrittura porta in un campo complesso (se non proprio pericoloso).
Tra le righe del romanzo, ad un certo punto lo afferma con un certo
candore anche Jonathan Coe: “Una fotografia è ben poca cosa. Può
catturare soltanto un momento, tra milioni di momenti, nella vita di
una persona o di una casa” ed è, come dice più avanti, una realtà
ingannevole, dove un sorriso (si sorride sempre in una fotografia) è
sempre falso. Forse è per quello che, fotografia dopo fotografia, le
prime parti di La pioggia prima che cada sembrano
effettivamente un po’ nebulose, come se l’immagine fosse sfocata.
E’ anche la prudenza con cui Jonathan Coe allinea i personaggi,
lentamente, con scrupolo fino a creare un intero universo femminile.
Bisogna arrivarci, ben dentro, per vedere la luce che le illumina per
intero perché il mosaico di immagini compone un quadro che ha come
protagonista la famiglia, o la sua mancanza. In entrambi i casi,
comunque, come dice con una certa precisione, Jonathan Coe,
spogliando il termine di tutta l'enfasi posticcia che gli viene
attribuita, la famiglia è vista semplicemente come “una delle
nostre condizioni di vita”. E’ allora che il titolo dà un senso
al romanzo, lo apre, lo spiega, accende una fuoco d’artificio sopra
le fotografie e sopra i nastri illuminandole anche dove sono un po’
sbiadite e rendendo infine uniforme e comprensibile il patchwork di
ricordi, sentimenti, sogni, vite vissute e non. Fin quando non è
accettato il sostanziale paradosso che “la vita comincia ad avere
senso solo quando ti rendi conto che a volte, spesso, continuamente,
due idee del tutto contraddittorie possono essere egualmente vere”.
La pioggia prima che cada è qualcosa in più di un titolo,
quindi, il cui compito è anche quello di spiegare l’anima della
storia (forse di tutte le storie) contenuta tutta in quella frase,
molto pertinente, dove Jonathan Coe sostiene che “qualcosa può
farti felice, anche se non è reale”. Un romanzo lirico e
bellissimo e bye bye ai fratelli maggiori.
giovedì 19 ottobre 2017
Horacio Verbitsky
Ci
sono libri la cui bellezza trascende lo specifico argomento trattato,
la storia, il valore della caratterizzazione dei personaggi,
l’accuratezza della documentazione e la validità dello stile. Ci
sono libri, come Il volo, che sono straordinari atti di
coraggio. Il nocciolo della questione è esplicito fin dal
sottotitolo, Le rivelazioni di un militare sulla fine dei
desaparecidos, ma non si risolve in una semplice (per quanto
doverosa) denuncia di violazione dei diritti civili, in una presa di
posizione contro il regime militare argentino (1976-1982) o in una
fredda inchiesta giornalistica. Pur contenendo tutti questi elementi
Il volo è la catarsi emotiva di due persone ambiguamente
unite da un’intervista condotta sul filo di rasoio. Da una parte,
Horacio Verbitsky, che già dopo il colpo di stato militare del 1976,
era entrato a far parte dell’agenzia clandestina ANCLA denunciava i
soprusi e le violenze dei campi di concentramento argentini.
Dall’altra, Adolfo Scilingo, capitano della marina militare e
testimone, nonché protagonista di efferati omicidi che chiamare
esecuzioni è già un eufemismo. Due opposti che si incontrano: il
giornalista per scrupolo professionale e ideale; il militare per
sgravarsi, in una tragica confessione, di quei rimorsi di coscienza
che stanno minando la sua vita. Ne scaturisce un dialogo fitto,
frammentario e risoluto: Horacio Verbitsky è lucidissimo, e, senza
timori, incalza le dichiarazioni di Adolfo Scilingo facendogli
descrivere i particolari più agghiaccianti e terribili della fine
dei desaparecidos. Il suo non è un gioco macabro, ma
un’interpretazione del giornalismo prossimo alla missione e
leggendo Il volo si capisce il suo accanimento verso i
dettagli, le sfumature, gli orari, le date. Perché il suo intento
non è soltanto quello di raccogliere le ammissioni di Adolfo
Scilingo (che ha partecipato attivamente ai voli, da cui il titolo
del libro, in cui si facevano finire in mare aperto, una volta
torturati e narcotizzati, gli oppositori saliti ancora vivi sugli
aerei) ma di ricostruire e fissare nella memoria di tutti, argentini
o meno, il dramma dei desaparecidos. E’ qui il punto, come spiega
lo stesso Horacio Verbitsky nell’introduzione, riferendosi alle
tentazioni di amnistia per i colpevoli: “Il tentativo di annullare
il passato è manifesto. Perché se non esistesse il passato, in
quella particolare forma di esistenza che è il non esserlo già, non
esisterebbe nemmeno il futuro e al futuro mancherebbe la possibilità
di proiettarsi. Senza l’assunzione/rifiuto del passato storico non
vi è spazio per il futuro”. Il volo non viene a patti con
il passato, non cerca facili soluzioni, e nemmeno compromessi, per
quello che è stato un vero e proprio genocidio, ma affronta il
dramma senza titubanze, con una precisione che può sembrare anche
cinica, ma che serve a non cadere in placidi pietismi (verso le
vittime) o in rabbiose soluzioni (verso i responsabili). Horacio
Verbitsky non espone nemmeno un’opinione, non aggiunge una riga di
morale alle dichiarazioni di Adolfo Scilingo e lascia che siano
proprio le sue parole, le parole di un complice (“Perché ho
collaborato con il silenzio. Non ho avuto il coraggio per
denunciarlo” dice lo stesso capitano di marina argentino) a mettere
a nudo tutta la criminale strategia e la sadica assiduità con cui i
militari perseguirono gli oppositori. Con ogni sorta di
giustificazione (politica, militare) o di ordine pubblico eliminarono
migliaia di giovani le cui richieste (né impossibili, né utopiche)
erano racchiuse dentro la parola libertà e a tutt’oggi restano
ancora impuniti. Il volo serve a non dimenticarlo, e a futura
memoria, per l’Argentina e per ogni altro angolo di mondo.
mercoledì 18 ottobre 2017
Amitav Ghosh
Il
mondo così com’è oggi raccontato da un osservatore che ha un
rapporto privilegiato con la scrittura e che riesce a mantenersi
lucido e sicuro anche quando si trova nell’occhio di ciclone delle
tempeste della storia. Ad Amitav Ghosh è capitato spesso, non tanto
per vocazione o per andare in caccia di quell’adrenalina che è il
sangue e l’anima di ogni reporter di guerra, quanto piuttosto
perché il conflitto sembra essere averlo inseguito per gran parte
della sua vita. Lasciatosi alle spalle l’India (che qui viene
raccontata in tutte le variazioni delle sue guerre, interne ed
esterne) si è ritrovato a vivere a New York proprio poco prima degli
attacchi apocalittici al World Trade Center e dopo aver conosciuto
tutto un catalogo di orrori e di disperazione in Cambogia, in
Birmania e ancora altrove. Questa simbiosi con il conflitto non gli
ha impedito però di perdere la lucidità e di mantenersi in
equilibrio anche in mezzo alla paura e al disorientamento. E’ uno
dei pochi intellettuali dei nostri tempi ad avere avuto il coraggio
di scrivere: “La religione, la razza, l'etnia e la lingua non hanno
alcun contenuto reale. Servono unicamente come linee di demarcazione.
L'odierno contenuto dell’ideologia, qualunque vesta assuma,
religiosa, linguistica o etnica, è lo stesso in tutti i paesi, anche
se può variare l'articolazione simbolica”. Radunando gli articoli
apparsi nell'arco di più di vent'anni, Circostanze incendiare
diventa qualcosa di più: una complessa e insieme scorrevole analisi
del mondo in cui viviamo e il faticoso arrancare di ogni narratore
per raccontarlo perché, come tra il saggio e l'amaro scrive Amitav
Ghosh, “è quando pensiamo al mondo che l'estetica
dell'indifferenza potrebbe generare, che riconosciamo l'urgenza di
ricordare storie di cui non abbiamo scritto”. Forse è l’esigenza
di aggrapparsi in continuazione alle storie a permettere a Amitav
Ghosh di mantenere la posizione, il punto anche in un frammento di
carta geografica. Comunque, la sua fiducia nella lettura (“I libri
marciscono se nessuno li legge”), nei legami tra luoghi e narrativa
(“E’ questo dunque lo specifico paradosso del romanzo: chi ama i
romanzi spesso li legge per il modo eloquente con cui comunicano il
senso del luogo. Ma la verità è che proprio la perdita di un senso
del luogo ne permette la rappresentazione narrativa”) non gli
impediscono di cogliere fino in fondo i limiti impliciti e il più
delle volte insondabili della letteratura di fronte all’apocalisse
quotidiana: “Noi che scriviamo fiction, anche quando ci riferiamo a
temi di rilevanza pubblica, non abbiamo scelta (e non importa quanto
i nostri romanzi siano sdolcinati o stravaganti) se non quella di
raccontare i fatti filtrati attraverso la nostra personalità. Il
nostro approccio agli eventi, anche i più generali, è
inevitabilmente limitato, basato e focalizzato su dettagli e
particolari. Di qualunque fatto si scriva, si finirà necessariamente
per trascurare il contesto politico”. Misurarsi con un fallimento
indispensabile (“Se c’è qualcosa di istruttivo
nell’attuale disordine del mondo, è senza dubbio questo: che poche
idee sono pericolose quanto la convinzione che ogni mezzo sia
consentito in funzione di un fine auspicabile”) è l’unico modo
per vedere come viviamo oggi anche perché, come scrive lapidario e
acutissimo Amitav Ghosh, “in un mondo di esseri umani anche la
sconfitta è una transazione”. Nell’era del mercato unico e
assoluto dio, la letteratura non sarà la salvezza, ma uno dei modi,
forse l’ultimo, per accorgersi che l’incendio è nato nelle
parole e lì finirà in un’inutile cacofonia, che poi, per chi
scrive e per chi legge, è la vera fine del mondo.
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