martedì 31 ottobre 2017

Derek Raymond

Interni ed esterni di una famiglia aristocratica inglese negli anni sessanta: una decadenza inarrestabile che si trascina in un folle e amaro vortice di solitudine, disperazione e distruzione: anche se non è uno degli episodi della Factory, la saga per cui è diventato giustamente famoso, Atti privati in luoghi pubblici è a pieno titolo un romanzo degno della visione narrativa di Derek Raymond, che qui si applica a mondi che ha conosciuto in prima persona, ovvero quelli dell’aristocrazia e della pornografia. L’associazione autobiografica deve aver avuto un peso specifico non relativo, vista l’acidità con cui viene trasmessa dallo stesso Derek Raymond. Tutto si svolge all’ombra della Swingin’ London, un momento che, messi da parte miti e leggende, viene inquadrato così: “L’ottanta per cento della popolazione britannica stava mollo nell'ignoranza e nella miseria, nell’infelicità, nell’anno di grazia 1967, semplicemente perché il denaro non arrivava nelle loro tasche, o perché non avevano il tempo di fare buon uso di quello che guadagnavano, o le due cose insieme”. E’ quello il contesto in cui un manipolo di rampolli di buonissima famiglia si lascia andare alle deviazioni rispetto all’ipocrisia imperante, senza accorgersi di essere finiti nell’inevitabile cul de sac. Viper e Mendip si sono scelti un ramo aziendale insolito e piuttosto torbido (tengono insieme una serie di sexy shop) e, se non altro, tutto sommato almeno un senso degli affari l’hanno mantenuto. Le sorelle (e loro cugine) Lydia e Beatrice invece hanno manifestato tutto il loro dissenso verso le tradizioni, i riti e i codici della famiglia. Lydia si è dedicata alla più completa dissoluzione del corpo e della mente (“La noia, se ne rendeva conto, in lei occupava il posto di tutte le passioni. La noia era al contempo rabbia, gioia, amore, piacere dei sensi, in lei”), passando dai film pornografici alla prostituzione; Beatrice si è rinchiusa in soffitta a studiare Marx ed Engels, sommo sfregio all’aristocrazia famigliare, insieme al fatto (ancora più grave) che si degna di pranzare e cenare soltanto con la servitù. Una serie di eventi li porteranno tutti quanti (una bella compagnia, tutto sommato) nella ricca villa di famiglia. Nello scenario della bucolica campagna inglese, tra scenate irripetibili (“L’avidità era il loro comune terreno d'intesa. L’arroganza il loro comune linguaggio”), clamorosi colpi di scena e un intero catalogo di follie si consumerà, per intero, il dramma di un declino squallido, travolgente e spietato. Gli Atti privati in luoghi pubblici sono fotografati in modo molto lucido e convincente da Derek Raymond. Domina, incontrastato, il suo tratto spigoloso, tagliente che non concede nulla ai suoi personaggi se non una lunga, cupa e atroce discesa negli inferi che si sono creati. Nessun luogo comune, nessuna pietà e nessun effetto speciale: a Derek Raymond basta e avanza la sua geniale idiosincrasia verso il genere umano per arrivare fino in fondo. Senza scampo, senza via d’uscita.

lunedì 30 ottobre 2017

J. G. Ballard

In un grattacielo smisurato e proiettato tanto nel cielo quanto nel futuro, i rapporti tra i condomini regrediscono fino a tornare alle esigenze primordiali della sopravvivenza: aggressività, autodifesa, caccia all’uomo. Lo sviluppo è lineare almeno quanto la struttura verticale del grattacielo, “un’immensa macchina progettata per servire non la collettività degli inquilini, ma il residente individuale e isolato”. Metafora di tutta la nostra vita quotidiana, straordinaria visione di un futuro che è già presente, nel condominio di J. G. Ballard le classi sociali sono divise dai piani e dagli ascensori, ma ad un certo punto tutto ciò che dovrebbe essere garantire l’individualità e la privacy nella vita comune diventa un territorio di scontri brutali, che nascono dalle esigenze più elementari: la tutela del territorio e dei piccoli, la fame e altri appetiti (quelli sessuali, principalmente), la sopravvivenza tout court. La riduzione del tessuto sociale ai limiti dell’animalesco non è tutto, perché l’ombra del condominio svela l’ipocrisia, l’indifferenza, l’abulia visto “nonostante l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di tali accadimenti. La routine della vita continuava come prima, si andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che fare con l’ennesima incursione aerea”. Il condominio, con la sua brutale architettura di quaranta piani per mille appartamenti è verticale verso l’alto ed è anche un precipizio. Diventa un incubo claustrofobico, teso e snervante che introduce il lettore in un’atmosfera ambigua e inquietante perché il caos del condominio è il nostro (nuovo) ordine quotidiano, uno stillicidio di violenze piccole e grandi di cui, proprio come gli inquilini di J. G. Ballard, non riusciamo a tener conto. La “sfida alla realtà delle cose” è tutta dell’avvicinarsi ala cronaca quotidiana. Mentre Il condominio, con il progredire della storia, comincia una vita tutta sua e diventa un soggetto indipendente, lo specifico tipo di violenza che pervade i suoi abitanti è qualcosa di inedito e incontrollabile. Lo spunto, polemico se si vuole, del condominio è proprio lì, più che nella cupissima trama: è l’incapacità di vedere quello che ormai non si può più nascondere, è la forza dell’abitudine che impedisce di fiutare il peggio, è la stratificazione (sociale, politica, umana) che ad un certo punto, questione di tempo, collassa. Nell’intimo, nelle soggettività più che nella collettività, come fa notare Ballard, senza ipocrisie: “E’ un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato felice di primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale... Una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani”. Il condominio è un grande romanzo perché racconta, da dentro, dall’intestino, le ultime metamorfosi di una civiltà decadente, la nostra, e di un’umanità che, nonostante l’evoluzione della specie, è ferma ai suoi istinti animaleschi. Attualissimo, e sempre sorprendente, è l’istantanea di un futuro già esaurito.

venerdì 27 ottobre 2017

Hilary Mantel

Andrew e Frances Howe si trasferiscono in Arabia Saudita, a Gedda, dove lui dovrà sovrintendere alla costruzione di un nuovo e sontuoso palazzo ministeriale. La Turadup, la società inglese che ha in appalto i lavori, pensa a tutti i dettagli, con la mediazione di Jeff Pollard e sotto la responsabilità diretta di Eric Parsons, due figure che avranno un ruolo non relativo durante gli Otto mesi a Ghazzah Street trascorsi dagli Howe. Provenienti dall’Africa, già allenati a sopportare condizioni estreme e pericolose, apartheid compreso, Andrew e Frances affrontano l’impegnativo trasloco soltanto in virtù di un congruo riconoscimento economico: fuori dalle mura dell’appartamento affittato dalla Turadup c’è un mondo ostico, che però paga stipendi come da nessun’altra parte. Andrew è assorbito e sfiancato dal lavoro, Frances accusa ben presto un senso di isolamento, acuito dalle condizioni sociali e climatiche. Il calore opprimente si condensa nel senso di claustrofobia, persino all’aria aperta, anche di fronte al mare, dovuto all’attrito costante con le regole e le tradizioni, l’ipocrisia e i segreti celati dietro le porte chiuse, le voci e la lettura delle lettere ai giornali, le difficoltà nelle comunicazioni, perché “da quelle parti la curiosità è un fenomeno transitorio. Non che si venga a sapere tutto, ma nel giro di poco s’impara a conoscere ciò che è consentito. E’ un tipo di società riservata che non rende noti i propri difetti e non svela il modo in cui ragiona, che risponde alle domande pressanti con un’ondata di disinformazione e poi torna al suo prediletto silenzio. Una porta si chiude e, mentre stai mettendo insieme i luoghi comuni di tua conoscenza, se ne chiude un’altra, sbattendo”. Solo questi gli elementi che trasformano gli Otto mesi a Ghazzah Street in un’eternità. In effetti, la dimensione temporale è falsata, non soltanto dal calendario islamico, per cui “il tempo sembra scorrere a ritroso”. La giornata a Gedda è lunga, scorre come la polvere, impercettibile, sfuggente, friabile: l’unica attività concreta è andare a far compere, ma anche quello comporta limiti e rischi, in particolare se ci si avventura nel suk. Non a caso, il condominio dove abitano gli Howe è chiamato “il capolinea”: lì crollano in sonni agitati, bevono vino fermentato di nascosto e cercano di seguire le consuetudini degli espatriati, che sono quasi una società segreta. Il rischio di essere espulsi o (peggio ancora) di essere trattenuti è costante così come è continua l’ostilità verso le donne, costrette ad assecondare le imposizioni locali, a limitarsi, se non proprio a nascondersi. L’alternativa a Ghazzah Street, al “capolinea”, sarebbe (il condizionale è obbligatorio) un compound di maestranze occidentali, ancora più isolato, dato che la direttiva aziendale firmata da Eric Parsons è inequivocabile: “Il meglio che ci è concesso di fare, come individui, è tenerci alla larga dai guai”. Con una scrittura agevole, priva di inflessioni e complicazioni, Hilary Mantel riesce a rendere alla perfezione il senso di estraneità di Frances (soprattutto) e Andrew: la vita a Gedda è un’intricata nebulosa di leggi (scritte, dette e non dette) e al “capolinea” la trasferta professionale si sublima in un segmento di tempo alieno finché l’idea dell’esilio non appare del tutto fuori luogo. Un bel romanzo, utile ed efficace.

mercoledì 25 ottobre 2017

Herman Koch

Mamma e papà davanti alla televisione riconoscono, in un programma di cronaca, il figlio come protagonista di un’aggressione a un clochard, brutale e tragica nella sua conclusione. Il papà non dice nulla: la violenza è un parte della sua malattia. La mamma non dice nulla, e basta. Il filmato è di bassissima qualità, il figlio e i complici sono vestiti come migliaia di ragazzi, nessuno li riconosce. Ma tra gli altri c’è un nipote, figlio di un politico professionista e candidato a primo ministro che, avendo scoperto il fatto, non vuole saperne di proseguire la sua carriera con una mina pronta a esplodere da un momento con l’altro. La “cena” convocata per l’occasione in un ristorante di lusso diventa un consiglio di guerra famigliare per decidere cosa e come fare. Nell’atmosfera misurata e controllata del raffinato convivio, cresce una livida ambiguità trasformando La cena in un clamoroso punto di domanda: l’imprevedibile che può pregiudicare il destino e travolgere carriere, abitudini, posizioni nasce proprio nell’alveo della famiglia e ancora prima di immaginare una via d’uscita, i commensali si chiedono come è stato possibile, cosa hanno già perso, più di ciò che potrebbero perdere. Il romanzo è solido e trascinante, anche se la scrittura è abbastanza diseguale. In alcuni passaggi è molto lirica, altrove riflette il passato di autore televisivo di Herman Koch, tradendo un insolito affetto per le immagini e per il loro dettaglio. Colpiscono i passaggi in cui il lettore viene proiettato sul tavolo, dentro il menù, nel fuoco amico della discussione e poi fuori, come se fosse uno spettatore degli eventi. “Potevo scegliere fra due alternative: rimanere a guardare dalla finestra o confondermi nella folla. Avrei potuto fare finta di avere una destinazione anch’io”: la considerazione di uno dei protagonisti della “cena” vale anche per il lettore. Una serie di cambi di prospettiva che permette al romanzo di mantenere la tensione di un thriller dall’inizio alla fine. Solo che qui non c’è alcun mistero sui colpevoli (sono noti fin dall’inizio i responsabili dell’omicidio), sui moventi o sulle motivazioni, peraltro piuttosto evanescenti. C’è una grande pressione, a tratti palpabile nei momenti più feroci della “cena”, in attesa di risposte che, in effetti, non arrivano. O meglio, diventano chiare una volta imboccata la ripida discesa del finale, a suo modo è una rivelazione, che lascia aperte al lettore tutte le possibilità narrative. Mettendolo in un vicolo cieco dal punto di vista morale: cosa è giusto, cosa è sbagliato, in questa inquietudine moderna, viene deciso a tavola, dove quattro persone sono costrette a confrontarsi con una drammatica scelta (come difendere i figli senza tradire i propri valori) e a discuterne tra una portata e l’altra con la soluzione (se si può parlare di soluzione) che arriva insieme a un enorme conto da pagare. La violenza, endemica e mimetizzata all’interno della stessa cerchia famigliare, si rivela, ancora una volta, e fino in fondo, un’opportunità perché “da qualche parte sarebbe rimasta una cicatrice, ma una cicatrice non impedisce di essere felici”. Fa pensare.

martedì 24 ottobre 2017

Anthony Burgess

Pubblicato nello stesso anno di Arancia meccanica (1962), Il seme inquieto è un tassello fondamentale e profetico delle visioni, perché di questo si tratta, di Anthony Burgess. L’azione si svolge in un futuro dove l’esplosione demografica ha costretto le autorità ad un rigidissimo controllo delle nascite e al razionamento dei cibi e delle bevande. Tutto ciò in cambio di una stabilità geopolitica e di un mondo senza eventi bellici. Una Londra cupa e cresciuta in verticale, e almeno dal punto di vista architettonico non siamo distanti da come in effetti si è sviluppata, è l’epicentro dell’azione fino a quando la situazione non si ribalta: la fame non è un fenomeno che le variabili politici possono controllare. Scoppia l’inevitabile caos, tra disordini e cannibalismo, orge e manovre di palazzo fino a quando, in cerca di un nuovo ordine (che, si suppone, deve essere mondiale) si giunge alla creazione di rudimentali milizie, poi di un esercito, di più eserciti i cui destini sono chiarissimi: “Un esercito, essendo in primo luogo un’organizzazione votata all'omicidio di massa, non può certo farsi condizionare da scrupoli etici. Deve tenere sgombre le arterie stradali per garantire il traffico, sangue della nazione; tutelare i rifornimenti idrici; mantener bene illuminate le vie principali: strade secondarie e vicoli dovranno arrangiarsi. Nessun dubbio, niente domande”. Sono invece tantissime le questioni che il crescendo, a tratti barocco, con cui Anthony Burgess delinea Il seme inquieto lascia sul terreno, oggi più attuali di quarant'anni fa, proprio a partire dalla natura dell’esercito che è la causa, non l’effetto come i libri di storia vorrebbero insegnarci: “Di qui a poco saranno in tanti ad aver paura, amico, e tu fra loro, oserei dire. Ma è ovvio che ci sarà una guerra. Non perché qualcuno la voglia, naturalmente, ma perché c'è un esercito. Un esercito qua e un esercito là ed eserciti a destra e a manca. Gli eserciti sono fatti per la guerra e la guerra è fatta per gli eserciti. Mica ci vuol tanto a capirlo”. Quello che Il seme inquieto comprende e illustra, comincia da un’acuta rivisitazione dei temi orwelliani: il potere politico che resiste ad ogni ribaltamento di fronte, i temi dell’esplosione demografica e quelli conseguenti dello sfruttamento delle risorse e degli sviluppi urbanistici, il controllo dell'informazione e, infine, la guerra che aleggia sempre (anche oggi, purtroppo) come una soluzione: “La guerra come grande afrodisiaco, copiosa fonte di adrenalina per il mondo intero, soluzione al tedio, all’Angst, alla malinconia, all'accidia, allo spleen? La guerra come immenso atto sessuale culminante in una detumescenza che non era una morte soltanto metaforica? La guerra, infine, come suprema regolatrice, ordinatrice, eliminatrice, giustificatrice della fecondità?”. Allucinante e incontrollabile nel 1962, inquietante (per la sua attualità) oggi, Il seme inquieto sarà ancora un punto di riferimento tra quarant'anni e questo è un destino che spetta soltanto ai capolavori.

lunedì 23 ottobre 2017

Robert McLiam Wilson

L’esordio è bruciante: la descrizione di un parto che sembra uscire dagli inferi di Catholic Boy di Jim Carroll e invece è frutto di un giovane scrittore (classe 1964) nato a Belfast e rifugiato a Londra. Nelle due spicciole righe di biografia cìè un po’ tutto il mondo di Ripley Bogle e, a tratti, è difficile distinguere il personaggio dal suo autore, la realtà dalla fiction perché la crudezza del racconto, le vivide immagini che emergono dal diario della sua esistenza sono goffe, e brutali, tali da invischiare, fino alla fine, chi gli si avvicina. Tutto si svolge in un fine settimana un po’ lungo (si parte da giovedì), ma Ripley Bogle non ha molto da fare e spesso si lascia andare a ricordi, tormenti, estasi e confusioni, “Una mezza verità, la dura metà di niente. La storia sembra arrivata in fondo per me. Mi sono ritirato. Sono sceso e mi sono accucciato nella tonificante comodità del mio fallimento e del mio declino. Ho semplicemente capitolato di fronte al mondo e sono scivolato via, più silenzioso e meno ingombrante che potevo. Sono qui e felice di essere così”. La sua è la ricostruzione dell’inferno della vita sulle strade che ha toni spietati e durissimi. Gli homeless, in tutto il mondo, sono ormai così tanti che tra loro cominciano a emergere fior di scrittori. Immaginari, come può essere Ripley Bogle, o assolutamente veri sono comunque l’effetto di una presenza che la civiltà occidentale continua a ignorare e tendenzialmente a rimuovere. La verità è che gli homeless, invece, cominciano a riconoscersi e a trovare, non giustificazioni al loro stato, ma argomenti per difenderlo e valorizzarlo. Paradossalmente (ma nemmeno tanto), sono la coscienza critica più efficiente del momento, una parte di elettorato che nessuno politico andrà mai a cercare e a blandire. Si legge, tra le righe di Ripley Bogle: “Questo è il bello del vagabondaggio, si acquista lo status di pubblico: l’osservatore, lo sguardo di insieme dell’artista. Noi barboni vi guardiamo tutti, e vi ascoltiamo. Un po’ rudi, forse, ma non abbiamo un cazzo da fare”. Il tutto si complica per un irlandese come Ripley Bogle, che non riesce a schierarsi con nessuna parte (ed è facile capire il dramma), vaneggia come una specie di Oscar Wilde lasciato senza soldi e senza l’alta società, continua a ritenersi al di sopra di tutte le parti senza accorgersi di essere immerso nel disastro fino al collo. Beh, Ripley Bogle avrebbe usato altre parole, perché la ricerca degli eufemismi non è il suo forte e quando comincia a prendersela con tutto il mondo (cioè dall’inizio alla fine) riesce a riempire quasi quattrocento pagine, senza risparmiare nessuno. Il personaggio è quindi degno di nota e il suo autore, Robert McLiam Wilson mostra destrezza e abilità nel raccontarlo, tanto che in molti frangenti, Ripley Bogle sembra il diario di una sconfitta personale. L’unica eccezione che gli si può rivolgere è una certa ossessiva prolissità, come se avesse dovuto buttare fuori il rospo dopo una lunghissima attesa, ma le parole servono tutte perché un romanzo come Ripley Bogle riesca ad avere immagini che colpiscono lo stomaco come nessun apparecchio televisivo o cinematografico potrebbe. La scena finale, per esempio. Naturalmente, scopriteveli da soli, i particolari. L’unico dettaglio da svelare è il paesaggio scelto: in alto mare, un collegamento metaforico con l’acqua, simbolo della fertilità che apriva Ripley Bogle. Il cerchio si chiude e la decadenza occidentale trova in Robert McLiam Wilson un’altra voce che sale dai bassifondi. Tra un po’ qualcuno sarà costretto a dargli retta.

domenica 22 ottobre 2017

George Perec

Per un grande narratore come George Perec anche un libro fatto essenzialmente di appunti, idee, piccoli progetti, diventa un’occasione importante per riflettere, per lasciare un graffio, per indicare una direzione. Il canovaccio è offerto dalla contemplazione, non ovvia, non banale, della città e dei luoghi che occupiamo dove “lo spazio sembra essere, o più addomesticato, o più inoffensivo del tempo: s’incontrano dappertutto persone con un orologio, e solo molto di rado persone con una bussola. Si ha sempre bisogno di conoscere l'ora (e chi sa ancora dedurla dalla posizione del sole?) ma non ci si chiede mai dove si trovi. Si crede di saperlo: si è in casa, si è in ufficio, si è nel metro, si è in strada. E’ evidente, certo, ma è così evidente? Eppure, di tanto in tanto, bisognerebbe chiedersi dove si sia (arrivati): fare il punto: non solo sui propri stati d'animo, la propria salute, le proprie ambizioni, credenze e ragioni d'essere, ma semplicemente sulla propria posizione topografica, e non tanto rispetto agli assi sopraccitati, ma piuttosto rispetto a un luogo o a un essere al quale si pensa, o al quale ci si metterà così a pensare”. Una sorta di estrapolazione dei significati della/dalla quotidianità, quasi un tentativo di fotografarne lo scorrere senza soluzione di continuità: “I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato”. La vena sottile, ironica, e leggera come Italo Calvino ha insegnato, non impedisce a George Perec di affrontare in modo limpido, diretto tutte le problematiche relative a ogni luogo in cui viviamo, dalle camere delle nostre abitazioni alla città (“Mai potremo spiegare o giustificare la città. La città è qui. E’ il nostro spazio e non ne possediamo altro. Siamo nati in città. Siamo cresciuti in città. E’ in città che respiriamo. Quando prendiamo il treno, è per andare da una città all'altra. Non c'è niente di inumano in una città tranne la nostra umanità”), dalla strada alle trincee (“Si è combattuto per minuscoli frammenti di spazio, per pezzi di collina, qualche metro di lungomare, qualche picco roccioso, l'angolo di una strada. Per milioni di uomini, la morte è arrivata per una minima differenza di livello tra due punti che a volte distavano meno di cento metri: si combatteva per intere settimane per prendere o riprendere quota 532”) fino allo spazio per eccellenza, la pagina, la pagina bianca, la carta dell’oceano di Lewis Carroll senza una virgola. Puro nulla e, non a caso, è proprio qui che il libro di George Perec comincia, perché “Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. E’ anche la conclusione della cartografia di Specie di spazi, stramba ed eccentrica finché si vuole, ma efficace.

sabato 21 ottobre 2017

Carlos Franz

C’è “un giudice a Berlino” che apre pagine dolorose, e trova giustizia nella scrittura, come se la narrazione, il tentativo di interpretare una storia, la storia, fosse la condanna definitiva. Legge e giustizia nello schema mortale di una dittatura (il Cile nel 1973, ma vale sempre) sono sinonimo di pericolo e tortura e un giudice nella sua posizione risulta essere soltanto ambiguo. Laura è un giudice che durante il colpo di stato cileno del 1973 si trova a fronteggiare le nuove imposizioni della legge voluta dall’esercito. Deve applicare la legge, la deve rispettare, anche se è palese che gli viene imposta e che non è per nulla condivisa e che, ancora meno, dipende dalla giustizia. Lo “stato di guerra interna”, come l’hanno chiamato i generali, giustifica la sospensione del diritto e della sua interpretazione e Laura, questo il nome del giovane giudice, che si trova sull’orlo del baratro, capisce che “lo stato totalitario non è quello dove non c’è legge, ma quello dove non c’è altro che legge e nessun perché”. Il dilemma tra l’amministrazione della giustizia dello stato e la verità diventa un abisso in cui precipita fino a pagarne le estreme conseguenze: “Stiamo diventando poco alla volta un paese fantasma, presagendolo e ormai anelandolo. Quando arriverà il nostro turno per la rottamazione, si tratterà di una semplice ridondanza: un silenzio identico a quello delle nostre voci solitarie che predicano nel deserto”. Lei stessa si ritroverà a non sapere domandare niente al suo aguzzino e a dover rispondere alla figlia, anni e anni dopo, perché “i figli ci fanno il favore di rieducarci al dubbio e al dissenso”. La figlia, Claudia, chiede alla madre perché la legge non è stata giustizia, perché la giustizia non ha servito la verità, perché la verità è rimasta sepolta nel deserto, bruciata dal sole e corrosa dal sale. La madre risponde scavando nella memoria, lottando con ricordi che non vorrebbe più rileggere (figurarsi scrivere) e cercando di assemblare frammenti di una storia che l’ha vista vittima, carnefice, complice. C’è qualcosa nel fiume di parole tra madre e figlia di indicibile (di inaspettato) che appartiene al risvolto più oscuro della trama. Il ritrovarsi, alla fine, nel deserto per le due donne rappresenta la soluzione del conflitto a distanza, ma fino allora il racconto è una fisarmonica, una forma di respiro che alterna ricordi e colloquio epistolare che insieme fanno “la volontà di sapere quello che non si può sapere, di spiegare l’inspiegabile. Sapere e spiegare, per esempio, la normalità che aveva circondato la perversione. Non che la perversione fosse divenuta normale, ciò sarebbe stata cattiva memoria o pessima letteratura, bensì spiegare e sapere che le vite normali avevano seguito il loro corso normale mentre accadeva lo straordinario”. Tra magie e fantasmi, miraggi e destini, l’assedio del deserto all’utopia e la resistenza di due donne legate da un mistero si celebra in quello che Carlos Fuentes ha definito un romanzo “il destino individuale e quello collettivo: con sguardo lucido, distaccato eppure appassionato, Carlos Franz osa scrutare nei melodrammi di queste vite elevandoli a tragedia di una nazione”. Non si potrebbe dire meglio.

venerdì 20 ottobre 2017

Jonathan Coe

Attraverso una vecchia scatola di nastri e fotografie prende forma l’identità forma tre, quattro generazioni di donne le cui esistenze, nonché i destini, si incrociano con tutti i loro amori, stili, ideali e fallimenti, visto che “non c’è niente che si possa dire, immagino, di una felicità perfetta, impeccabile e senza ombre; niente, salvo la certezza che dovrà finire”. La pioggia prima che cada inizia come un romando di Ian McEwan, Martin Amis e Graham Swift, i fratelli maggiori: la stessa cura della geometria e della geografia, il ritmo soppesato battuta per battuta, un calore che s’insinua senza esitazioni attraverso le parole, un tono drammatico e nello stesso tempo molto cauto nel sottolineare gli eventi e un grande rispetto, quasi un timore reverenziale, verso i personaggi. Ben presto si capisce perché: il puzzle che si forma nelle fotografie, la cui descrizione è l’intima essenza di La pioggia prima che cada, è molto labile, come lo sarebbe in realtà, anche perché il rapporto tra immagine (soprattutto la fotografia, che fra tutte le arti visive è la più istintiva) e scrittura porta in un campo complesso (se non proprio pericoloso). Tra le righe del romanzo, ad un certo punto lo afferma con un certo candore anche Jonathan Coe: “Una fotografia è ben poca cosa. Può catturare soltanto un momento, tra milioni di momenti, nella vita di una persona o di una casa” ed è, come dice più avanti, una realtà ingannevole, dove un sorriso (si sorride sempre in una fotografia) è sempre falso. Forse è per quello che, fotografia dopo fotografia, le prime parti di La pioggia prima che cada sembrano effettivamente un po’ nebulose, come se l’immagine fosse sfocata. E’ anche la prudenza con cui Jonathan Coe allinea i personaggi, lentamente, con scrupolo fino a creare un intero universo femminile. Bisogna arrivarci, ben dentro, per vedere la luce che le illumina per intero perché il mosaico di immagini compone un quadro che ha come protagonista la famiglia, o la sua mancanza. In entrambi i casi, comunque, come dice con una certa precisione, Jonathan Coe, spogliando il termine di tutta l'enfasi posticcia che gli viene attribuita, la famiglia è vista semplicemente come “una delle nostre condizioni di vita”. E’ allora che il titolo dà un senso al romanzo, lo apre, lo spiega, accende una fuoco d’artificio sopra le fotografie e sopra i nastri illuminandole anche dove sono un po’ sbiadite e rendendo infine uniforme e comprensibile il patchwork di ricordi, sentimenti, sogni, vite vissute e non. Fin quando non è accettato il sostanziale paradosso che “la vita comincia ad avere senso solo quando ti rendi conto che a volte, spesso, continuamente, due idee del tutto contraddittorie possono essere egualmente vere”. La pioggia prima che cada è qualcosa in più di un titolo, quindi, il cui compito è anche quello di spiegare l’anima della storia (forse di tutte le storie) contenuta tutta in quella frase, molto pertinente, dove Jonathan Coe sostiene che “qualcosa può farti felice, anche se non è reale”. Un romanzo lirico e bellissimo e bye bye ai fratelli maggiori. 

giovedì 19 ottobre 2017

Horacio Verbitsky

Ci sono libri la cui bellezza trascende lo specifico argomento trattato, la storia, il valore della caratterizzazione dei personaggi, l’accuratezza della documentazione e la validità dello stile. Ci sono libri, come Il volo, che sono straordinari atti di coraggio. Il nocciolo della questione è esplicito fin dal sottotitolo, Le rivelazioni di un militare sulla fine dei desaparecidos, ma non si risolve in una semplice (per quanto doverosa) denuncia di violazione dei diritti civili, in una presa di posizione contro il regime militare argentino (1976-1982) o in una fredda inchiesta giornalistica. Pur contenendo tutti questi elementi Il volo è la catarsi emotiva di due persone ambiguamente unite da un’intervista condotta sul filo di rasoio. Da una parte, Horacio Verbitsky, che già dopo il colpo di stato militare del 1976, era entrato a far parte dell’agenzia clandestina ANCLA denunciava i soprusi e le violenze dei campi di concentramento argentini. Dall’altra, Adolfo Scilingo, capitano della marina militare e testimone, nonché protagonista di efferati omicidi che chiamare esecuzioni è già un eufemismo. Due opposti che si incontrano: il giornalista per scrupolo professionale e ideale; il militare per sgravarsi, in una tragica confessione, di quei rimorsi di coscienza che stanno minando la sua vita. Ne scaturisce un dialogo fitto, frammentario e risoluto: Horacio Verbitsky è lucidissimo, e, senza timori, incalza le dichiarazioni di Adolfo Scilingo facendogli descrivere i particolari più agghiaccianti e terribili della fine dei desaparecidos. Il suo non è un gioco macabro, ma un’interpretazione del giornalismo prossimo alla missione e leggendo Il volo si capisce il suo accanimento verso i dettagli, le sfumature, gli orari, le date. Perché il suo intento non è soltanto quello di raccogliere le ammissioni di Adolfo Scilingo (che ha partecipato attivamente ai voli, da cui il titolo del libro, in cui si facevano finire in mare aperto, una volta torturati e narcotizzati, gli oppositori saliti ancora vivi sugli aerei) ma di ricostruire e fissare nella memoria di tutti, argentini o meno, il dramma dei desaparecidos. E’ qui il punto, come spiega lo stesso Horacio Verbitsky nell’introduzione, riferendosi alle tentazioni di amnistia per i colpevoli: “Il tentativo di annullare il passato è manifesto. Perché se non esistesse il passato, in quella particolare forma di esistenza che è il non esserlo già, non esisterebbe nemmeno il futuro e al futuro mancherebbe la possibilità di proiettarsi. Senza l’assunzione/rifiuto del passato storico non vi è spazio per il futuro”. Il volo non viene a patti con il passato, non cerca facili soluzioni, e nemmeno compromessi, per quello che è stato un vero e proprio genocidio, ma affronta il dramma senza titubanze, con una precisione che può sembrare anche cinica, ma che serve a non cadere in placidi pietismi (verso le vittime) o in rabbiose soluzioni (verso i responsabili). Horacio Verbitsky non espone nemmeno un’opinione, non aggiunge una riga di morale alle dichiarazioni di Adolfo Scilingo e lascia che siano proprio le sue parole, le parole di un complice (“Perché ho collaborato con il silenzio. Non ho avuto il coraggio per denunciarlo” dice lo stesso capitano di marina argentino) a mettere a nudo tutta la criminale strategia e la sadica assiduità con cui i militari perseguirono gli oppositori. Con ogni sorta di giustificazione (politica, militare) o di ordine pubblico eliminarono migliaia di giovani le cui richieste (né impossibili, né utopiche) erano racchiuse dentro la parola libertà e a tutt’oggi restano ancora impuniti. Il volo serve a non dimenticarlo, e a futura memoria, per l’Argentina e per ogni altro angolo di mondo.

mercoledì 18 ottobre 2017

Amitav Ghosh

Il mondo così com’è oggi raccontato da un osservatore che ha un rapporto privilegiato con la scrittura e che riesce a mantenersi lucido e sicuro anche quando si trova nell’occhio di ciclone delle tempeste della storia. Ad Amitav Ghosh è capitato spesso, non tanto per vocazione o per andare in caccia di quell’adrenalina che è il sangue e l’anima di ogni reporter di guerra, quanto piuttosto perché il conflitto sembra essere averlo inseguito per gran parte della sua vita. Lasciatosi alle spalle l’India (che qui viene raccontata in tutte le variazioni delle sue guerre, interne ed esterne) si è ritrovato a vivere a New York proprio poco prima degli attacchi apocalittici al World Trade Center e dopo aver conosciuto tutto un catalogo di orrori e di disperazione in Cambogia, in Birmania e ancora altrove. Questa simbiosi con il conflitto non gli ha impedito però di perdere la lucidità e di mantenersi in equilibrio anche in mezzo alla paura e al disorientamento. E’ uno dei pochi intellettuali dei nostri tempi ad avere avuto il coraggio di scrivere: “La religione, la razza, l'etnia e la lingua non hanno alcun contenuto reale. Servono unicamente come linee di demarcazione. L'odierno contenuto dell’ideologia, qualunque vesta assuma, religiosa, linguistica o etnica, è lo stesso in tutti i paesi, anche se può variare l'articolazione simbolica”. Radunando gli articoli apparsi nell'arco di più di vent'anni, Circostanze incendiare diventa qualcosa di più: una complessa e insieme scorrevole analisi del mondo in cui viviamo e il faticoso arrancare di ogni narratore per raccontarlo perché, come tra il saggio e l'amaro scrive Amitav Ghosh, “è quando pensiamo al mondo che l'estetica dell'indifferenza potrebbe generare, che riconosciamo l'urgenza di ricordare storie di cui non abbiamo scritto”. Forse è l’esigenza di aggrapparsi in continuazione alle storie a permettere a Amitav Ghosh di mantenere la posizione, il punto anche in un frammento di carta geografica. Comunque, la sua fiducia nella lettura (“I libri marciscono se nessuno li legge”), nei legami tra luoghi e narrativa (“E’ questo dunque lo specifico paradosso del romanzo: chi ama i romanzi spesso li legge per il modo eloquente con cui comunicano il senso del luogo. Ma la verità è che proprio la perdita di un senso del luogo ne permette la rappresentazione narrativa”) non gli impediscono di cogliere fino in fondo i limiti impliciti e il più delle volte insondabili della letteratura di fronte all’apocalisse quotidiana: “Noi che scriviamo fiction, anche quando ci riferiamo a temi di rilevanza pubblica, non abbiamo scelta (e non importa quanto i nostri romanzi siano sdolcinati o stravaganti) se non quella di raccontare i fatti filtrati attraverso la nostra personalità. Il nostro approccio agli eventi, anche i più generali, è inevitabilmente limitato, basato e focalizzato su dettagli e particolari. Di qualunque fatto si scriva, si finirà necessariamente per trascurare il contesto politico”. Misurarsi con un fallimento indispensabile (Se c’è qualcosa di istruttivo nell’attuale disordine del mondo, è senza dubbio questo: che poche idee sono pericolose quanto la convinzione che ogni mezzo sia consentito in funzione di un fine auspicabile”) è l’unico modo per vedere come viviamo oggi anche perché, come scrive lapidario e acutissimo Amitav Ghosh, “in un mondo di esseri umani anche la sconfitta è una transazione”. Nell’era del mercato unico e assoluto dio, la letteratura non sarà la salvezza, ma uno dei modi, forse l’ultimo, per accorgersi che l’incendio è nato nelle parole e lì finirà in un’inutile cacofonia, che poi, per chi scrive e per chi legge, è la vera fine del mondo.