sabato 30 dicembre 2017

Fattaneh Haj Seyed Javadi

Nell’Iran attuale, Sudabeh è figlia di una famiglia benestante, che crede sia giusto trovare per lei un marito allo stesso livello. I pensieri di Subadeh però sono occupati da un altro amore, distante, per censo e per formazione, dalle sue abitudini. Travolta dal tormento tra la passione e l’intenzione di non deludere i genitori, la ragazza si rivolge a una zia saggia e comprensiva, Mahbubeh, che l’accoglie aprendo un vecchio scrigno di ricordi. “Quando sei innamorata lasci che le cose vadano e vengano come vogliono, lasci che il mondo vada sottosopra oppure no: che importanza ha?”, le dice la zia e a quel punto è già chiaro che La scelta di Subadeh è solo il prologo alla storia di Mahbubeh che, in un altro Iran, quello dello Shah, ha vissuto pene e fatiche d’amore simili e parallele a quelle della nipote. In un trionfo di giardini profumati, pranzi ricchi di sapori, dialoghi coloriti e allegorici, Mahbubeh racconta come ha schivato tutti i matrimoni combinati dalla famiglia, perché innamorata di Rahim, il garzone del falegname del quartiere. La vita con Rahim (e un’antipatica e invadente suocera) invece del “paradiso in terra” si rivelerà impossibile (e brutale), tanto è vero che, per Mahbubeh, il massimo della felicità “se di felicità si può parlare, si manifestava con un sorriso amaro”. La separazione tra i sogni a occhi aperti dell’infatuazione, la passione della rivolta di Mahbubeh contro le imposizioni e la dura realtà genera un corposo romanzo, dove i personaggi femminili imperano in tutte le direzioni. Il senso del melodramma con cui Fattaneh Haj Seyed Javadi sfoggia una scrittura florida e affascinante non le impedisce di collocare La scelta di Mahbubeh nel contesto delle trasformazioni e delle contraddizioni dell’Iran del ventesimo secolo, consentendo al lettore di farsi trasportare dalle atmosfere avvolgenti del romanzo perché poi, come dice Nazanin, la madre di Mahbubeh, “la bellezza è negli occhi di chi la possiede”. Non è l’unica iperbole: tutta La scelta di Sudabeh è costellata di versi poetici, metafore, un florilegio linguistico che riflette l’intensa tradizione della narrativa dell’Iran, dove, come ha raccontato la stessa Fattaneh Haj Seyed Javadi, “la letteratura è all’ordine del giorno e anche le persone con un grado di istruzione relativo amano esprimersi attraverso versi e proverbi”. I contrasti sono resi con un meticoloso lavoro di intarsio attorno ai “legami di sangue” e alle trame che coinvolgono famiglie e parentele, così come con minuziosa descrizione della vita quotidiana in una cittadina dell’Iran. Dalle colorite espressioni per descrivere lo svolgersi delle stagioni al labirinto di dettagli di tradizioni, regole e usanze, per non dire dei dialoghi forbiti e cesellati battuta per battuta La scelta di Sudabeh è un fuoco d’artificio senza fine che non nasconde, nelle pieghe dei tormenti di Mahbubeh, un velo di nostalgia per altri tempi, quando erano “tutti felici, ognuno a modo proprio, ognuno con i propri pensieri e i propri desideri”. Un romanzo da scoprire lasciandosi guidare dalla mano sicura di Fattaneh Haj Seyed Javadi in un panorama, sì, molto diverso e distante, ma dove le scelte e i loro effetti pesano come in ogni altra parte del mondo.

martedì 19 dicembre 2017

Dubravka Ugrešić

Scriveva Josip Osti, lo straordinario poeta del Libro dei morti di Sarajevo: “Non chiedere se questa guerra è realtà, o un ricordo del passato”. Il tempo nei Balcani ha sempre avuto un valore storico biunivoco. Bisogna ricordare per esistere. Bisogna dimenticare per sopravvivere. Solo in apparenza è una contraddizione: la frammentazione politica, territoriale e umana che ha generato la migrazione e l’esilio di interi popoli, a partire dai loro intellettuali, Dubravka Ugrešić compresa, nasce proprio dalla rottura di quel difficile, se non impossibile, equilibrio tra memoria ed oblio. Lo sforzo in Il museo della resa incondizionata è apprezzabile perché rende alla perfezione il momento del collasso visto che Dubravka Ugrešić è una scrittrice con il gusto maniacale del particolare, del dettaglio, dell’infinitesimale e nel suo essere straniera riesce veramente a vedere “l’oscurità del mondo”, come la definisce Joseph Brodskij. Madre, figlia, amiche, donne: i ricordi si intrecciano partendo da un’immagine scolorita e seguendo i percorsi di un esilio infinito dato che “la vita non è altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album esiste. Quello che nell’album manca, non è nemmeno accaduto”. La conclusione a cui giunge Dubravka Ugrešić è che “la creazione della realtà è l’attività della vera letteratura” e la responsabilità di supplire a ciò che manca è implicita nella connotazione che determina Il museo della resa incondizionata. Compresa l’apologia del dilettante, un passaggio quanto mai utile per comprendere la predisposizione (molto istintiva) di Dubravka Ugrešić: “Il vantaggio del dilettantismo rispetto al professionismo (chiamiamolo così in mancanza di un termine migliore), o addirittura la differenza tra i due, è contenuta in un determinato punto di dolore indefinito, dolore che l’opera amatoriale, come le percezioni extrasensoriali, può centrare suscitando di conseguenza un’identica sensazione nell’osservatore o nel lettore. Le sontuose strategie della cosiddetta opera d’arte raramente centrano tale punto. Il punto di dolore è meta casuale solo dei beati dilettanti, meta che unicamente loro, senza nemmeno sapere di che si tratti, riescono a centrare”. Allora è un’immagine, un’istantanea, il tentativo di fissare un attimo, anche nell’infinita terra di nessuno dell’esilio europeo: “E d’un tratto mi venne in mente che a Lisbona avevo comprato un biglietto della lotteria e vinto un raro premio: la momentanea sensazione che niente, in realtà, è perduto, che perciò non c’è motivo di lamentarsi, che tutto esiste da qualche parte, così come noi esistiamo sparpagliati in ogni dove, che tutto da qualche parte si somma, che tutto è collegato”. Se bastasse una piccola epifania, sarebbe tutto risolto: il limite intrinseco è che Il museo della resa incondizionata si attorciglia attorno alle immagini, ai ricordi, persino ai sogni (“Il sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal presente e dal futuro”) e tutto ciò è insieme metafora e realtà dell’esilio, che diventa una gabbia decadente, e a tratti anche autoreferenziale. Un libro, sì, “prezioso”, come ha detto qualcuno, ed è vero come scrive Predrag Matvejević nell’introduzione, che “la letteratura non ha l’obbligo di dare giudizi”, ma avrebbe anche tutte le potenzialità per ripristinare l’equilibrio tra oblio e memoria che qui, nelle floride pagine di Dubravka Ugrešić, si perdono attorno ad una fotografia ingiallita, un ricordo che non serve più.

domenica 17 dicembre 2017

Ryszard Kapuściński

Dalle alture del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive, racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni. Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica, è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare, stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”. Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più semplicemente, chiunque pensi”. Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte. 

sabato 16 dicembre 2017

Ben Watt

Ricoverato d’urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt, musicista inglese noto ai più per la collaborazione con la moglie Tracey Thorn negli Everything But The Girl, si deve confrontare con gli orizzonti della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di variabili specifiche. A prima vista, il suo “caso speciale” non sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è tutto colpa di un “modo di vivere privo di senso”. D’altra parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il personale medico riesce a scoprire è un “disordine multisistemico”, definizione tanto elaborata quanto vaga. Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell’osservare la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri, Ben Watt ricorda: “Mi sembrava di essere una creatura in metamorfosi, che passa dalla vita sott’acqua a quella sulla terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i successivi venti minuti o giù di lì”. Ci vogliono diverse settimane prima che gli venga diagnosticata “una malattia autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto raro che colpiva individui con trascorsi d’asma e febbre da fieno i cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione antigenica”. Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche (all’intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale tutta l’estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il diario dettagliato e puntiglioso della degenza, quando doveva combattere con tutta la terminologia scientifica, le preoccupanti visioni del futuro e lo spasmodico desiderio di “essere in qualche campo all’aperto in estate, col cielo sopra la mia testa, e Tracey (Thorn) che mi correva davanti, fuori dal tempo reale”. Con grazia, a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra fragilità, di solito nascosta da “un differente ritmo che si svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo, una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel nostro cranio per tutte le ore di veglia”. Costretto a spogliarsi (metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e per esteso a tutti i “pazienti”, resta un’unica protezione nell’elogio della normalità fino a quando un senso non giunge “dalla solitudine e dalla calma, dall’accettazione, dall’adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se stessi”. Al libro manca soltanto il lieto fine: dopo essersi ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività discografiche, pubblicando tra l’altro uno dei suoi album più belli in assoluto, Fever Dream.

venerdì 15 dicembre 2017

Panos Karnezis

Durante una campagna bellica del 1922, una brigata dell’esercito greco cerca di sopravvivere, impigliata in una guerra senza senso, se mai la guerra in sé ne avrà uno, in rotta nel nulla del deserto ottomano. Incalzata dal nemico e dai suoi spettri, la ritirata diventa Il labirinto in cui si confondono i suoi protagonisti. Un comandante morfinomane e consumato dai rimorsi, misteriosi provocatori marxisti che si nascondono tra gli ufficiali, un cappellano sornione e sbandato e tutti i soldati che cercano di sopravvivere un giorno dopo l’altro. Il percorso, quasi biblico nel suo svolgersi contro la fame, la polvere, il destino, porta lentamente alla disgregazione dell’organizzazione militare, ma anche della più intima e semplice delle speranze, ovvero quello di lasciare il fronte ancora interi. L’orizzonte psicologico in cui ci si perde con Il labirinto è proprio lì e Panos Karnezis riesce a sviluppare con meticolosa precisione la vita quotidiana di soldati sconfitti e sofferenti, che si regge su pratiche semplici e dirette: “Quando vengono meno il valore, il patriottismo e la fede religiosa, è la disciplina a offrire un po’ di consolazione, dimostrando che nel mondo esiste ancora qualche forma di ordine. E basta così poco per raggiungere certi risultati: una lucidatina a un paio di stivali infangati, la sostituzione di alcuni bottoni mancanti, una spallina strappata ricucita e sistemata di nuovo al posto giusto”. Come si vedrà, attraversando Il labirinto, non sempre quelle attenzioni sono sufficienti, soprattutto quando i soldati si ritrovano, in un piccola città dell’Anatolia, a confrontarsi con tutto quello che pensavano di aver dimenticato. Il contatto con una parvenza di civiltà scatena reazioni impreviste e acuisce tutte le fratture che serpeggiano nella brigata, il cui destino è andare oltre, verso il mare, l’ultima tappa per tornare a casa sani e salvi. L’abilità, non comune, di Panos Karnezis non è solo nel ricreare le dolorose (a volte, tragiche) condizioni quotidiane, ma anche la complessità sul piano emotivo della composita umanità della brigata. C’è anche qualcosa in più. Se l’atmosfera generale, dal deserto a quel nemico che non arriva mai, rimanda facilmente a Dino Buzzati, nell’asprezza che Il labirinto si porta dietro non mancano di giungere appunti che si legano chiaramente con l’attualità, dalla disinformazione nei gironi della sconfitta (“Dal momento in cui le cose hanno cominciato a volgere al peggio, si sono messi a ripubblicare i vecchi articoli cambiando i nomi e le date”) a una visione non casuale della storia, dei suoi cicli e del suo tempo (“La storia si misura con i secoli: non con quanto è accaduto ieri”). Come se il 1922 non fosse così lontano, perché la guerra non cambia mai e, nella sua fuga, la brigata assorbe e rispecchia tutto un mondo brullo e arido come la steppa anatolica. Con questo, Il labirinto non manca di momenti grotteschi e (molto) divertenti, piccoli abbagli luminosi di un viaggio tormentato, drammatico nella sua consistenza ed epico nello svolgersi. 

giovedì 14 dicembre 2017

Ian McEwan

Il funerale di Molly Lane è soltanto un’occasione per mettere in scena l’impossibile congruenza delle pubbliche relazioni. La conoscevano tutti, soltanto che il tempo ha scarnificato gli esili fili che annodavano le vite. Nel caso di John Julian Garmony, gli anni passati sono coincisi con la carriera: è ministro spregiudicato e ambiguo, e , a breve termine, ha un luminoso futuro politico davanti. Gli altri amici, convenuti già nell’incipit di Amsterdam, sono Clive, compositore e direttore d’orchestra, e Vernon, direttore di un giornale bisognoso di cure, strategie e lettori. La dipartita di Molly lascia trasparire molte cicatrici e, nelle pieghe del suo lascito, compaiono a sorpresa alcune foto (molto) imbarazzanti di Julian. Vernon deve decidere se pubblicarle oppure lasciarle nell’oscurità. Senza dubbio, quelle immagini hanno il potere di stroncare ogni velleità di Julian, ma nel dubbio Vernon coinvolge anche Clive e a quel punto il conflitto di Amsterdam diventa evidente perché “sappiamo così poco gli uni degli altri. Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero, dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente”. Non c’è dubbio che, anche in Amsterdam, Ian McEwan abbia assemblato la decadenza dei costumi, l’intreccio linguistico, e l’immaginario stesso di una nazione e, insieme, di un’idea di vita sociale. Fin dall’inizio, è un tentativo di ripetere le geometrie di L’amore fatale, un romanzo che gli è contemporaneo e parallelo: atmosfere, temi e persino i personaggi sembrano gli stessi, sempre trascinati dai loro dilemmi, sempre coinvolti nelle distorsioni tra pubblico e privato, nella biunivocità di rapporti che tendono a confondere la trama con il pensiero, i dialoghi con le descrizioni, l’ambiente con il paesaggio, il comico con il grottesco. Il paradosso è che l’abilità di Ian McEwan è proprio questa e, in Amsterdam, ne è consapevole al punto di rivelare senza pudore la chiave di volta, quando scrive: “La comunicazione scritta concede ampio spazio al fraintendimento. Basta spostare l’enfasi di quanto si legge da un termine a un altro per modificare un messaggio. La stessa parola del resto può avere più di un significato: rifiuto può indicare l’atto di dire no a qualcosa che si ritiene sbagliato, ma può essere anche un avanzo, un sinonimo di spazzatura”. Amsterdam sembra davvero muoversi e giocare dentro questa compiaciuta certezza e proprio dove Ian McEwan offriva immagini rapide, brucianti, immediate, qui sembra crogiolarsi nell’eccezionale qualità della scrittura, ormai conclamata. Ne esce un romanzo costruito con mestiere, raffinato e seducente, ma che lascia molti interrogativi irrisolti e che sembra suggerire, più che chiarire, appuntare, più che descrivere, inventare, più che definire. E’ giusto così, in fondo, perché Ian McEwan gioca spesso con il lettore sul filo del rasoio, solo che in Amsterdam forse ha barato un po’. 

mercoledì 13 dicembre 2017

Levi Henriksen

Ormai abbandonata ogni velleità di scoprire una musica davvero autentica, il produttore discografico Jim Gystad rimane folgorato dall’esibizione di un trio vocale nel corso del battesimo del figlio di un amico. Lo stupore è tanto e tale che confessa al suo ospite: “Ricordi come ci sentivamo quando da ragazzi scoprivamo qualcosa di diverso? La prima volta che abbiamo ascoltato un nuovo artista, o letto un libro, o guardato un film, o baciato una ragazza... Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti è capitato di sentirti così?”, e la domanda rimane sospesa nell’aria, dando il via al romanzo che Levi Henriksen (classe 1964) accorda sui toni agrodolci della commedia. La leggerezza di Norwegian Blues però non è mai banale perché, sempre con garbo e ironia, lascia emergere più di una possibilità di approfondimento. Intanto, i cantanti che hanno emozionato Jim Gystad sono una famiglia, i Thorsen, composta dalle sorelle, Tamar/Tulla (il secondo nome cela un’altra storia che scorre parallela a Norwegian Blues) e Maria, e dal fratello Timothy. Nella loro carriera hanno soltanto interpretato inni religiosi, spesso con arrangiamenti fantasiosi ed eccentrici, ma sempre rispettosi e adeguati alle circostanze. In gioventù hanno inciso e pubblicato dozzine di dischi e sono stati acclamati in tour negli Stati Uniti, ma, arrivati a una certa età, si sono ritirati nella campagna norvegese e non vogliono nemmeno sentire nominare per sbaglio l’industria discografica. Non hanno tutti i torti (anzi), perché come dice il protagonista di Norwegian Blues, “la gente non vuole la realtà. Vuole un reality show dal cast accuratamente selezionato”. Ammaliato dalle loro armonie, Jim Gystad abbandona la città e parte all’inseguimento dei Thorsen, con l’idea di convincerli a tornare in studio di registrazione per siglare un ultimo capolavoro, e per assecondare il “bisogno di recuperare la vera essenza della musica. La sensazione di produrre qualcosa che riesce davvero a toccare l’animo delle persone”. La rocambolesca avventura lascia affiorare un paesaggio e un’umanità, quelli della Norvegia, che non sono molto diversi dal resto del mondo: lo sfruttamento insensato del territorio, l’avidità e la superficialità sono gli ostacoli con cui deve confrontarsi Jim Gystad, più della consolidata ritrosia dei Thorsen. Con l’evolversi della storia, nella seconda parte di Norwegian Blues, Levi Henrikesn sposta l’attenzione dall’ossessione per la musica, verso gli affetti, i legami, i sentimenti, la famiglia e, non ultima, la casa. Jim Gystad sarà costretto a scegliere proprio tra modi diversi di intendere, sia la vita che la musica. Compreso il finale (a sorpresa), Norwegian Blues lascia intendere che la tanto agognata autenticità non è un elemento delle strategie di marketing o una rarità destinata agli studi antropologici e, in effetti, non è nemmeno un traguardo definitivo. E’ il riflesso naturale di valori vissuti e difesi fino in fondo. Per dirlo con i Thorsen, “la musica parla di quello che succede dalla vita in su, non più in basso”. Una piccola fiaba moderna.

martedì 12 dicembre 2017

Derek Raymond

E’ difficile fare il sergente alla A14 (che non è un’autostrada, ma la sezione Casi Irrisolti della polizia di Chelsea) quando si ha una moglie pazza ricoverata in un manicomio perché ha ucciso la figlia, non si sopportano i propri superiori (“La mia non è mancanza di rispetto, ma di pazienza. Il mio guaio è che non riesco a sopportare gli idioti. Mi preoccupo della giustizia, non dei gradi”) ma soprattutto, non si cerca la giustizia, ma la verità. Una sottile distinzione che, in Aprile è il più crudele dei mesi, viene sviscerata da Derek Raymond con un’aderenza totale al suo protagonista: il noir non è inteso soltanto come ambientazione, atmosfera, stile o genere, ma è proprio un modo per vedere la vita, o il dramma della vita. “Dove vado io, là vanno i fantasmi. Io vado là dove si trova il male”, dice il tormentato sergente della A14 ed è un riflesso spontaneo che si traduce in quello che sostiene lo stesso Derek Raymond ovvero che “la funzione del romanzo noir è di impedire alle persone di dimenticare l'orrore che regna”. Questa dura e nobile definizione (è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare) trova una sua logica in Aprile è il più crudele dei mesi. Al nostro sergente della A14 viene recapitato un caso che comincia da quello che rimane di un cadavere: cinque sacchetti di plastica che contengono, adeguatamente sezionato e bollito, un corpo umano. La prima reazione è, a sua volta, un tentativo di individuare un senso, difficile se non impossibile da trovare davanti a quello scempio: “Cominciai a immedesimarmi nell’assassino. Pensavo: sono pazzo. Sì, ma dobbiamo tutti sforzarci di sembrare normali”. Da quel macabro ritrovamento si dipana un intreccio che comprende malavitosi della peggior specie, agenti segreti e doppiogiochisti di professione, politici corrotti e tutta una fauna ambigua che è sempre pronta a tirare il grilletto. Dal canto suo, Derek Raymond non spreca una riga, una parola. I personaggi sono chiari, evidenti, dai contorni netti e precisi, a partire dall’autoritratto del sergente dell’A14: “Le mie indagini le conduco a modo mio, è il grande vantaggio di lavorare da solo. E se la cosa non garba ai miei superiori, possono pure cacciarmi. Probabilmente l’avrebbero già fatto, solo che non sono così facile da rimpiazzare”. I dialoghi hanno la forza bruciante di chi sa gestire la scrittura con naturalezza (“Perché te la stai prendendo come me? Perché hai abitudini pericolose e sei stato dentro per omicidio. Hai strangolato un uomo, e ti sto controllando com’è prassi, ma anche perché la tua faccia potrebbe essere proprio il pezzo mancante del puzzle di una nuova indagine che sto svolgendo”) e senza tanti patemi stilistici. La storia è una rete infinita di intrighi dove le psicologie sono determinanti almeno quanto i paesaggi perché Londra e i sobborghi sono (come in tutti i suoi romanzi) uno scenario perfetto e tenebroso. Aprile è il più crudele dei mesi è un ottimo biglietto da visita per un autore che ha il merito di aver elevato il noir, o di essersi abbassato fino a sporcarsi le mani: in entrambi i casi, un bel coraggio.

sabato 9 dicembre 2017

John Berger

Le ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci, lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura (“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi, precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni (“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa, in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili, sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith, Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits, dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta (“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire, quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di una) da non dimenticare.

sabato 2 dicembre 2017

Enrique Vila-Matas

Spiegare un complotto non è facile. Figurarsi spiegarne uno che non aveva scopi, se non quello di trovare una forma all’illusione che, a ben vedere, è già una sorta di cospirazione. Avanziamo a piccoli passi, e cominciamo dall’inizio quando Tristan Tzara ispira, come lo descrive l’alchimista Aleister Crowley “un genere letterario che, secondo lui, è caratterizzato dal fatto di non avere un sistema da proporre, ma solo un’arte di vivere. In un certo senso, più che letteratura è vita”. Ecco la pietra angolare del tempio della società shandy che tradotta e aggiornata si risolve nell’ordine del giorno che prevede per tutti i (segreti) congiurati “spirito innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi, nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte dell’insolenza”. E’ un programma vasto e criptico da affrontare, con punti di criticità assoluta già nella sua conclusione (“E’ bene considerare che l’insolenza, quando si manifesta, lo fa sempre in relazione agli altri, attraverso un movimento che tiene conto intensamente dell’altro”) e che nel mondo in cui vige ancora una maledetta realtà appariva una chimera. Gli stessi shandy tendevano a soluzioni di comunicazione improprie come quella usata da Francis Picabia: “Parlavamo in silenzio e la nostra conversazione era tra le più interessanti che si possano immaginare; altre parole, pronunciate e ordinate per essere udite, non avrebbero mai potuto ottenere l’effetto di tale silenzio”. O pensavano rivolti a dimensioni parallele dove le contraddizioni erano l’aria da respirare come scriveva George Antheil: “L’inutile è bello perché meno reale dell’utile, che permane a lungo; invece il meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale, si ferma dov’è, rimane quello che è, vive libero e indipendente”. Tutto ciò (e molto altro: dagli odradek al suicidio, dall’Europa tra le due guerre mondiali alla boîte en valise di Marchel Duchamp) non avrebbe senso confinato all’interno della cosiddetta normalità, ma anche nei contorni di un’utopia. Per identificare, anche da un punto di vista geografico, la “letteratura portatile” degli shandy ci viene in soccorso l’epigrafe di Paul Valéry che ha il compito (assolto con formula piena) di riassumere, introdurre e accendere la Storia abbreviata della letteratura portatile raccontata da Enrique Vila-Matas: “L’infinito, mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo esiste solamente sulla carta”. Le dimensioni, contano, eccome, la parafrasi di Enrique Vila-Matas parte dalla “storia portatile della letteratura abbreviata” di Tristan Tzara, nei cui piccoli libri era nascosta una magia (perché “miniaturizzare significa anche occultare”) che Marchel Duchamp ha rivelato così: “Ciò che viene ridotto diviene in un certo modo libero di significato. La sua piccolezza è allo stesso tempo un tutto e un frammento. L’amore per il minuscolo è un’emozione infantile”. Da lì Enrique Vila-Matas conduce alla ricostruzione dei legami e dei dialoghi di una compagnia internazionale dove è centrale l’intersecarsi di suggestioni, amicizie, scambi e confronti in cui hanno avuto ruoli da protagonisti, tra gli altri, anche Francis Scott Fitzgerald, Georgia O’Keefe e Walter Benjamin, convenuti e congiurati nel nome dell’arte e dell’allegria.

venerdì 1 dicembre 2017

Jenni Fagan

Entrare in Pellegrini del sole è come penetrare in un igloo ricoperto da più livelli di neve e di ghiaccio che si sono sedimentati uno sopra l’altro. La parte superficiale dell’involucro è un romanzo distopico e apocalittico che ipotizza un’incombente glaciazione. L’ipotesi accredita già Jenni Fagan in una dimensione più oculata rispetto agli strilli del riscaldamento del pianeta, perché come varie fonti scientifiche concordano, quella è soltanto la causa, gli effetti rimangono imprevedibili. Tra questi, il rischio di una nuova era glaciale, che dipenda o meno dalla sconsideratezza del genere umano, era paventata parecchi anni fa da Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel 1983, nel suo Ballando nudi nel campo della mente, che rimane una lettura tanto provocatoria quanto intelligente. Ammesso lo scenario, che tra l’altro ha tutte le sue valenze metaforiche in funzione dell’isolamento, della solitudine e del critico bollettino meteorologico dei rapporti umani, sotto e dentro la coltre di gelo si snoda una contorta saga famigliare costruita attorno a una serie di formidabili personaggi femminili (Gunn, Constance, Vivienne e Stella). L’epicentro su cui siedono i Pellegrini del sole, è proprio la storia di Stella. Stella è diversa, è incastrata in un albero genealogico che serpeggia da una lontana isola scozzese fino a Londra, irto di segreti e misteri. Nel villaggio di roulotte e camper dove si è rifugiata con la madre, Constance, vivono “come se tutto ciò che un tempo era in ordine fosse andato in malora, così velocemente che nessuno riusciva a reggere il passo”. Non a caso campano campano riciclando, restaurando e rivendendo mobili che trovano nella discarica. Per inciso, viene da pensare che il vero problema dell’umanità sia lo spreco, piuttosto che le variazioni climatiche. Quando nella stralunata comunità di Clachan Falls, in cima alla Scozia, arriva Dylan McRae, la sfida della mera sopravvivenza è complicata dallo sciogliersi degli equilibri. Dylan (attenzione al nome) proviene da Londra dove ha ereditato il fallimento di un cinema d’essai, il Babylon, gestito dalla madre e dalla nonna (tra i registi programmati con maggior regolarità, Werner Herzog), entrambe scomparse in rapida successione. Se il cinema è un lascito di Gunn (la nonna), da Vivienne (la madre) riceve una roulotte a Clachan Falls ed eccolo lì, tra i Pellegrini del sole. Dylan è alto, introverso, riservato e colto, tutte qualità che servono fino a un certo punto quando “il mondo è un luogo incantato fatto tutto di ghiaccio”. Con il termometro che ormai non sa più cosa indicare spostarsi diventa sempre un rischio perché l’ipotermia fa perdere l’orientamento. Restare chiusi in casa, nei caravan dove lo spazio è razionato, porta a impazzire. Rimane soltanto una drastica riduzione all’essenziale delle funzioni vitali: provare a restare al caldo dentro strati di vestiti e coperte, farsi venire i calli a furia di spaccare legna, ascoltare gli aggiornamenti nella speranza di intercettare una buona notizia che non arriva. La costruzione di Jenni Fagan è semplice e progressiva: si limita a seguire i suoi protagonisti nella faticosa lotta per la sopravvivenza, eppure nel linguaggio dissemina un sacco di strambe e colorite associazioni dylaniane (nel senso di Bob Dylan) che forniscono tono e fragranza al racconto. Pur essendo declinato al femminile, in Pellegrini del sole, l’elemento maschile è catalizzatore di tutte le svolte: alla ricerca di se stessa, Stella trova un importante interlocutore in Dylan, che a sua volta diventerà presto un amico (e qualcosa di più) anche per Constance. In qualche modo bisogna pur inventarsi un modus vivendi, ed ecco che Stella diventa Stella e Constance accetta Dylan che si ingegna a distillare gin. Sarebbe bello pensare che vissero felici e contenti, ma il passato incombe e con meno cinquanta a pochi giorni dalla primavera, il futuro è tutto da scrivere.

venerdì 24 novembre 2017

Vikram Seth

Colpito al cuore dalle liriche di Puškin, Vikram Seth abbandona un’avviata carriera da economista per lanciarsi in un’impresa di 590 sonetti in rima ispirati a San Francisco, alla guerra fredda e a una vita intrisa di poesia. La sfida era dichiarata, sfrontata e ambiziosa fin dall’inizio. Raccontare in versi, in una lunga ballata, l’attualità del mondo così come lo vediamo con la sua moltitudine di voci, di simboli, di idee per aria, di connessioni che non uniscono e di parole che non dicono. Golden Gate doveva essere un romanzo in forma di poema, chissà, forse un omaggio senza timori alla gloriosa epopea di Walt Whitman, oltre che al dichiarato colpo di fulmine con Puškin. Con l’intenzione di abbracciare il possibile e l’impossibile, partendo dalle origini primordiali, quando Vikram Seth dice: “Cos’è in fondo l’origine del mondo? Un tic-tac nel silenzio dello spazio”. In corso d’opera, sospinto dall’innegabile ricchezza di un vocabolario e da una spiccata sensibilità ritmica, Golden Gate deve aver proprio invertito la sua polarità. Prendendo la mano a Vikram Seth è diventato qualcosa di molto simile a un poema in forma di romanzo perché la frammentazione delle sue stanze ha riflettuto, più che interpretato, il caos del nostro mondo, dove morale e legge spesso non combaciano (“Ci sono delle occasioni in cui morale e legge civile sono in conflitto. Anche se l’unica legge ufficiale è quella del diritto. Se rispondiamo alla nostra coscienza e non vogliamo distruzione e violenza e né che degli ordigni intelligenti colpiscano degli umani innocenti, ci vuole una chiosa alla citazione. Una corretta analisi filologica deve comprendere l’intera logica del testo”), la guerra è onnipresente (“La nostra nazione ha creduto a lungo che la guerra era uno sport”) e il dubbio è l’unica certezza (“Non c’è salvezza e non c’è vittoria. Non c’è difesa, non c’è alcun confine. Non ci sono limiti, non c’è storia”). Prosa o poesia, l’originalità e la temerarietà di Vikram Seth non sono in discussione perché Golden Gate è una rotta trafficata e rocambolesca attorno ad un’idea cosmopolita, un clamoroso laboratorio linguistico, che purtroppo è rimasto tale. Dovessero contare più le premesse dei risultati concreti, Golden Gate vincerebbe ancora oggi il premio Pulitzer. Essendo rimasto un caso, eclatante ma pur sempre un caso, rimane sospeso e incompiuto tra la certezza di una frattura epocale (“Noi/Loro. La scoraggiante visione che sottintende questa ribellione. L’ipocrita superficialità non estirperà il seme del peccato, e non guarirà questo caos dannato”) e una sincera curiosità che Vikram Seth, con una domanda sacrosanta (e rivelatoria), sintetizza così: “Se il desiderio lacera il tuo cuore, come può quello che hai letto qua e là, cose risalenti a secoli fa, convincerti che è fasullo l’amore che provi, e che questa tiritera di dogmi, cavalli e carri, è vera?”. Così viviamo oggi, e anche se nell’infinita ballata di Vikram Seth la domanda rimarrà senza risposta, la sfida è vinta, ai punti.

giovedì 23 novembre 2017

Geoff Dyer

Un’altra formidabile giornata per mare è un reportage insolito anche per Geoff Dyer, scrittore curioso e mai spaventato dal trovarsi disorientato o fuori luogo. Solo che una portaerei americana in servizio nel ventunesimo secolo è un luogo irto di ostacoli, una struttura metallica sospesa tra mare e cielo, inattaccabile e incomprensibile ai più. Si capisce subito che Geoff Dyer, arrivato sulla USS George Bush inseguendo un sogno infantile, non è nel suo elemento: brancola (letteralmente) nel buio e si aggira a fatica negli spazi angusti della nave che, per quanto enorme, non consente alcuna libertà di movimento, essendo “un labirinto tridimensionale di passaggi, scali e portelli”. Il processo di ambientazione prevede molta pazienza e la sopportazione dei limiti delle imposizioni della vita militare e delle particolari condizioni della routine a bordo. Geoff Dyer ammette: “Ho passato il resto del tempo sulla portaerei a schivare e scansarmi o, più esattamente, a scansarmi e chinarmi”. La portaerei è un’altra galassia. E’isolata, autoreferente, claustrofobica, anche se è una città che galleggia nell’oceano. Quello che succede è solo lì, nel presente e nell’immediato annunciato ogni mattina proprio dallo slogan Un’altra formidabile giornata per mare. E’ sempre in emergenza perché ospita mostruosità tecnologiche e tonnellate d’acciaio sempre in movimento e, va da sé, è una polveriera. E’ difficile viverci dentro, perché gli spazi sono limitati e dove non sono limitati sono i posti più pericolosi del mondo, il deposito delle armi, l’hangar e soprattutto il ponte di volo, dato che “non solo la portaerei era un altro mondo: il ponte di volo era un mondo a parte rispetto al resto delle portaerei. E tutto quanto succedeva negli altri punti della portaerei aveva un significato e un’importanza solo rispetto a quello che succedeva lì. Tolti il ponte di volo e gli aerei non restava che una nave enorme”. Come sia finito e cosa ci faccia Geoff Dyer sulla portaerei non è chiaro, neanche quando prova a spiegarlo nel dettaglio: “Da piccolo ho amato la guerra e i soldati. Da studente, ormai libero da quell’infatuazione sanissima, la mia vita ha cominciato a prendere il contrario di una piega militare nel senso che, grazie a una combinazione di ambizione passiva e di fortuna, sono diventato, come dicono gli adulti, capo di me stesso. Liberato dalla catena di comando dell’ufficio, ho acquisito uno strano genere di autodisciplina, del tutto simile all’autoindulgenza, che è diventa una seconda natura. Ma nei pomeriggi in cui non riuscivo a scrivere e nelle sere in cui non sentivo nessun obbligo a provarci, ho letto sempre di più sulle forze armate, accrescendo il fascino per un mondo che era l’esatto opposto del mio”. La portaerei diventa un’occasione per parlare di se stesso attraverso un filtro singolare, “un regno di poesia accessibile solo a chi ha una visione del mondo basata sulla tecnologia, il sapere e il calcolo anziché sulla meraviglia stupefatta”. Geoff Dyer, per quanto impacciato, se la cava con una congrua dose di ironia e questo traspare benissimo nella parte conclusiva delle sue Cronache da una portaerei, quando ormai sta per ripartire: “Insomma, eccomi lì, un turista con il taccuino, un antropologo marino i cui dati si mischiavano in modo così totale e distorto agli strumenti per procurarseli che probabilmente non avevano alcun valore come dati ma solo come ricordo o come raccolta di istantanee di una vacanza senza macchina fotografica”. Il suo bilancio è onesto e sincero nel valutare Un’altra formidabile giornata per mare: in fondo è un coraggioso tentativo di comprendere una realtà complicata e spigolosa, ma i risultati conseguenti, tutto sommato gradevoli e interessanti, sono anche abbastanza relativi.

mercoledì 22 novembre 2017

Jean Echenoz

Uno dei più importanti architetti francesi, Jean Nouvel, sostiene che “un edificio deve saper comunicare le inquietudini di un’epoca”. Una definizione che collima alla perfezione con L’occupazione del suolo: il ritratto di Sylvie Fabre, un enorme murale pubblicitario esposto al vento, alla pioggia, agli elementi naturali (e non) è quasi un’opera di landscape art che deve assorbire quell’aria, quel clima, quell’atmosfera, in cui “per negligenza o per volontà, si lasciava deperire lo spazio”. E’ tutto quello che rimane di lei al padre e al figlio Paul e quando la costruzione di un nuovo palazzo va a coprire il dipinto, i tentativi di restargli vicino, di vederla ancora, determinano anche la consapevolezza di ciò che non si vedrà più perché come diceva un altro grande architetto, Bernard Tschumi, “un oggetto di architettura non è architettonico perché seduce o perché adempie a qualche punizione pratica, ma perché mette in moto l’inconscio e le operazioni di seduzione”. L’occupazione del suolo in sé non è meno attraente dell’immagine dipinta sul muro, ma è il contesto di Parigi e della sua evoluzione a determinare i movimenti principali, le scosse che arrivano a mostrare nuovi profili e nello stesso tempo a oscurarne altrettanti. Il segreto, neppure tanto invisibile nel minuscolo capolavoro di Jean Echenoz, sta proprio nel trascrivere le emozioni dello sguardo per quelle variazioni architettoniche. La sensazione sembra quella descritta negli stessi anni da Jean Vautrin: “Ecco cosa ho visto, ma nessuno è obbligato a crederci”. E’ un punto ben preciso sulla mappa. L’occupazione del suolo, è delimitata da quai de Valmy che corre lungo il canale Saint-Martin, il santo dei traslochi, e lì, sul suo fondo “si trovavano troppo poche armi del delitto, gli unici scheletri erano armature di sedie di ferro, carcasse di ciclomotori. Per il resto, solo cerchioni e pneumatici scompagnati, marmitte, manubri; la proporzione di bottiglie vuote sembrava normale, in compenso la quantità di carrelli di ipermercati rivali era sconcertante”. La vocazione del cantiere è innata perché la via, in origine, quai de Louis XVIII, si sviluppa proprio per la costruzione del canale, a cui è legata in modo indissolubile. In quegli anni Parigi è tutta un cantiere verso il futuro, un’onda lunga partita dal Beaubourg e culminata nella costruzione dell’Institut du Monde Arabe, della Villette e della Cité des Sciences et dell’Industrie, ma come scriveva Edmond Jabès, contemporaneo a Jean Echenoz, “la tua città è un miraggio. La terra, rispetto all'universo, un uccello perduto, dalle ali troppo fragili per sfidare, sola, l’ignoto. Cammina su questo pianeta così maneggevole che un niente lo fa girare. Dove sei? Caduto nella trappola del reale e dell’inverosimile. Cercando l’uscita”. Padre e figlio restano impigliati proprio lì: quando di Sylvie Fabre rimane soltanto la pubblicità di un profumo, non sfugge il simbolismo, anche se Jean Echenoz la tratta con gentilezza. L’icona prende vita non per le necessità del commercio, ma per la nostalgia, per il vuoto che ha lasciato e che ha fatto implodere i legami famigliari. Il pellegrinaggio davanti alle inarrivabili dimensioni di Sylvie Fabre è il tema costante di un racconto che ha il ritmo della ballata di uno chansonnier, ma con un sottofondo minimalista di rumori e distorsioni impercettibili, che disturba quel tanto che è giusto. La declinazione dei tempi è enigmatica e l’uso del condizionale un’incongruenza perfetta nello stile perché rende benissimo l’idea di un tempo transitorio, dove L’occupazione del suolo genera distorsioni significative nella percezione dei luoghi perché “basta un oggetto per avviare una catena, se ne trova sempre uno che sigilla ciò che lo precede, colora ciò che seguirà, così, al normografo, l’avviso del permesso di costruzione. Poi è tutto molto rapido, qualcuno probabilmente si è venduto l’anima assieme allo spazio, c’è il buco”. Sì, L’occupazione del suolo è la dimostrazione che in poche parole (una trentina di splendide pagine) si può dire tutto.

lunedì 20 novembre 2017

J. G. Ballard

Cocaine Nights è un romanzo importante e, per certi versi indispensabile, perché è l’unico, negli ultimi anni, ad esplorare in modo così esplicito ed incisivo il nostro futuro. La fantascienza non c’entra nulla: anche se non si sono indicazioni specifiche, Cocaine Nights è proiettato in un tempo che vede l’oggi come passato prossimo e in un luogo, la spagnola Costa del Sol, che per la sua vicinanza a Gibilterra, vale soprattutto quale paesaggio metaforico, un’ambigua zona di confine. L’atmosfera generale, la zuppa in cui J. G. Ballard intinge le sue intuizioni, è quella di una comunità che dispone di quantità illimitate di tempo libero, prospettiva che più di un sociologo si sentirebbe di controfirmare: la televisione non è più sufficiente, la noia è sempre in agguato, la voglia di vivere (e quindi: di consumare) potrebbe venir meno con danni irrimediabili all’industria dell’intrattenimento, del turismo, dello spettacolo, della pubblicità. Non ci sono in gioco soltanto incalcolabili interessi economici, ma anche tutta la complessa rete di rapporti, valori, tradizioni e convenzioni, idiosincrasie e contraddizioni che fin qui hanno retto quelle strutture (politiche, industriali, commerciali) che nessuna rivoluzione è riuscita né a capire né, di conseguenza, a rovesciare. Nelle propaggini di Cocaine Nights J. G. Ballard scopre una sorta di accelerazione di questa decadenza, un impulso all’autodistruzione per tedio che ha nella bucolica enclave di villaggi turistici e campi da tennis,della Costa del Sol ha il suo humus ideale. La risposta, per mantenere lo status quo, è paradossale, ma comprensibile: trasgressione. Sesso, droga, soldi sono gli stimoli adatti e cominciano a incuriosire sempre di più la popolazione della Costa del Sol mentre le inevitabili controindicazioni (microdelinquenza, tossicodipendenza, truffe e derivati) diventano altrettante fonti di guadagno: sistemi di sorveglianza, cliniche private, casinò, riciclo di denaro. Cocaine Nights è molto lucido nel rivelare una perversa idea di ingegneria sociale: il suo caos stratificato, il suo progettare una vitalità con l’ambiguo supporto di vandalismi, furti, danni e aggressioni, cresce dove “il crimine e la creatività vanno di pari passo, e l’hanno sempre fatto. Maggior è il senso del crimine, maggiore è la coscienza civica e più ricca la civiltà. Non c’è nient’altro che faccia da collante in una comunità”. Una percezione confermata altrimenti anche da Don DeLillo: “Considero la violenza contemporanea una specie di risposta sardonica alla promessa di appagamento consumistico. Uomini che non possono uscire dalle loro minuscole stanze e devono organizzare la loro disperazione e la loro solitudine, devono cercare un destino per disperazione e solitudine e spesso finiscono per farlo con mezzi violenti. Vedo questa disperazione nei pacchetti dai colori sgargianti e nella felicità del consumatore e in tutte le promesse che la vita del consumo ci fa giorno per giorno e minuto per minuto ovunque andiamo”. Capace di trasformare un’esile trama noir in un’acuta osservazione del presente, dove tra crimine e vittime le distanze si sono affievolite, con Cocaine Nights J. G. Ballard tocca molti nervi scoperti e, fin dall’incipit (strepitoso) ricorda che quella frontiera l’abbiamo passata tanto tempo fa.

venerdì 17 novembre 2017

Derek Raymond

Nella personale vicenda di Derek Raymond, eccellente scrittore e straordinario outsider, Quando cala la nebbia rossa ha un valore e un sapore del tutto particolari perché è l’ultimo romanzo a cui ha lavorato e che aveva finito soltanto qualche mese prima della sua scomparsa. Un finale di partita convulso in cui si ritrova tutto il disastrato paesaggio umano caro a Derek Raymond, a partire dagli sbirri della Factory e dal loro universo senza speranza. L’aspetto poliziesco, nonostante l’intensità della trama che coinvolge i servizi segreti di mezzo mondo, tutti i bassifondi della polizia e dell’umanità londinese, scivola episodio dopo episodio, battuta dopo battuta (e ci sono dialoghi che bruciano come la canna di un revolver) in secondo piano, come se fosse una traccia da cui partire piuttosto che un punto d’arrivo. Tutto comincia con un furto che tanto banale non è trattandosi di un blocco di passaporti britannici nuovi di zecca. Il loro valore, piuttosto elevato, non è niente confronto al vaso di Pandora che il furto scoperchia e da cui salta fuori una congregazione internazionale di spie sulle tracce di un intero arsenale, ivi comprese un paio di testate nucleari. Sarà un piccolo delinquente, uno dei tipici perdenti tratteggiati da Derek Raymond, a dover trovare il bandolo dell’apocalittica matassa. A parte un collegamento immediato con Aprile è il più crudele dei mesi, la firma di Derek Raymond è una sorta di garanzia assoluta: una scrittura tagliente, spietata, a tratti persino dolorosa che mette il genere umano di fronte alla sua disperazione, visto che “se si venisse a sapere come stanno le cose, correrebbero tutti a nascondersi nei bunker, sempre che ce ne siano”. Senza mezzi termini, senza alcuna concessione ed è proprio quest’onestà il tratto principale del suo stile, tra l’altro lirico e preciso, che consente di toccare con mano la disperazione di Gust, ovvero del protagonista di Quando cala la nebbia rossa. Delinquente tanto infinitesimale e irrilevante quanto irriducibile, Gust dovrebbe diventare il perfetto capro espiatorio di un complotto stratificato, le cui finalità, come in ogni complotto che si rispetti, sembrano non aver data di scadenza. Gust è la vittima sacrificale che va bene a tutti perché non conta nulla, se sbaglia respiro finisce di nuovo in galera ed è già bruciato in partenza. Per il ruolo che gli è stato assegnato, non serve altro, ma, come ha insegnato qualcuno, essere perdenti è un lavoro a tempo pieno, e allora Gust si ribella cercando di salvare il futuro del mondo soltanto perché, intanto, deve salvarsi il suo, di destino. E’ un loser che non ha nulla da perdere e provoca una reazione a catena in cui Derek Raymond sembra persino divertirsi a posare le statuine dei suoi presepi: psicopatici, disillusi, folli, coraggiosi, tragici esseri umani che si trovano a fare sempre le stesse, identiche mosse da una parte o dall’altra di una trincea chiamata vita e che Quando cala la nebbia rossa possono soltanto immaginare di limitare i danni. Il suo mondo, per l’ultima volta.

giovedì 16 novembre 2017

Ricardo Piglia

Partendo dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che la lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà. Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché “chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale” e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”. Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un po’ più fortunato.

mercoledì 15 novembre 2017

Árni Thórarinsson

Essendo un’isola, l’Islanda è un ecosistema chiuso e concluso su se stesso e si riflette nella vita dei suoi abitanti. Nello stesso tempo, nonostante la distanza, l’Islanda non è dissimile dal resto del continente europeo alle prese con crisi economiche, speculazioni, violenze, abusi. I problemi di ogni altra nazione di questo mondo. Anche a nord del paese, le tensioni risentono di tutti questi elementi, in contrasto con la vita al rallentatore e i ritmi bucolici. Einar, giornalista della capitale islandese viene spedito ad Akureyri, una cittadina settentrionale che non raggiunge i ventimila abitanti, dove un vento appena più forte della brezza sarebbe già una notizia. Retrocesso a cronista di provincia, Einar pare sempre all’ultima spiaggia nei suoi rapporti: con il giornale, con la figlia (si intuisce una separazione, alle spalle), con la solitudine, con l’alcol (a cui deve rinunciare) e con la sigaretta, che consuma sempre come se fosse l’ultimo desiderio del condannato. Messo così, è normale che affronti tutti gli ostacoli con riluttanza. Mentre cerca un modus vivendi con un insopportabile caporedattore centrale votato alla carriera e uno locale con cui non si capisce, ad Akureyri tre persone muoiono in circostanze non proprio naturali: una donna affoga durante una stupida discesa di rafting con i colleghi per rafforzare lo spirito aziendale, una ragazza si suicida e uno studente, appassionato attore e aspirante regista, viene trovato carbonizzato. La trasferta comincia a farsi movimentata: Einar trova un appiglio su cui concentrarsi, un posto dove stare e da cui elaborare strategie di sopravvivenza. E’ un osservatore meticoloso, distaccato, un investigatore istintivo e maniacale, solo che ci mette un bel po’ ad arrivare la punto giusto. Lento e caparbio, ha la tendenza a cercare e a ricostruire l’intero quadro: le vittime, i colpevoli, il contesto, i moventi, i precedenti, gli innocenti. Sono tutti importanti, nello stesso modo, solo che è difficile spiegarlo e a Einar non sfugge la confusione: “Tendenze sessuali, etnia, razza, pelle, nazionalità, culto. Quando sono in ballo questioni del genere, la gente spesso confonde le questioni secondarie con quelle principali. Qualsiasi siano i motivi”. L’omicidio, in particolare, genera una moltitudine di scintille anche nella sonnolenta Akureyri ma l’unico disposto a seguirle sembra essere Einar, animato dall’istinto e dalla necessità di sentirsi ancora vivo e utile. Una condizione che Hannes, il suo direttore editoriale, ammette così: “Forse il tuo dubbio, a guardar bene, è se tutti noi apparteniamo davvero a questa società. A volte ne dubito anch’io. Ne dubito profondamente. Ma non possiamo fingere che non esista”. Il tempo della strega è un romanzo sornione, con un andamento indolente consono al tran tran di Einar, però sotto la finta pelle della black comedy, i toni ironici (se non proprio comici, a tratti) scoprono le incrostazioni spontanee del ventunesimo secolo, che sono uguali a tutte le latitudini: fusioni aziendali che sono fallimenti mascherati, bancarotte figlie di ruberie continue, l’attrito tra tradizioni religiose e radici pagane, lo sfruttamento indiscriminato del territorio e le contorsioni politiche, la noia dei giovani e l’assuefazione degli adulti. Senza pretese moralistiche e con molto garbo perché Árni Thórarinsson ed Einar si somigliano molto, sanno che per vivere in Islanda, come in ogni altro luogo, serve accontentarsi un po’.

giovedì 9 novembre 2017

Eshkol Nevo

Mentre la Francia vince i campionati mondiali di calcio del 1998 con una squadra cosmopolita e variopinta, quattro amici decidono, un po’ per gioco, un po’ per sfida, di cominciare una bizzarra partita con il destino. In foglietti piegati e riposti con cura, infilano i loro desideri più profondi che vorrebbero vedere realizzati entro e non oltre un termine ben preciso, ovvero la successiva edizione dei mondiali. Se l’idea parte nella condivisione della certezza che “noi tutti sentiamo di appartenere a qualcosa solo quando siamo insieme”, l’aver fissato una destinazione nella realtà implica soltanto una precisione sulla carta dei calendari, ipotetica almeno quanto la natura dei desideri. La scadenza, ogni quattro anni, è uno spartiacque temporale, un confine invisibile e ideale tra speranze e promesse, tra l’evoluzione delle personalità, l’incidenza dell’età, degli imprevisti e delle probabilità. Quello che resta è il dato concreto, e inalienabile, con cui è partito l’azzardo: ormai scritti, i desideri resteranno lì, incidendo una linea assoluta che rende il gioco inventato dagli amici davanti alla televisione un rischio permanente, e inquietante. Zinedine Zidane alza la coppa del mondo e arrivederci a quattro anni dopo. Eshkol Nevo manovra con una certa abilità l’incrocio tra le personalità di Ofir, Churchill, Amichai e Yuval (a cui vanno aggiunte Ilana, Maria e Yaar) finché i desideri si realizzano, ma con una “simmetria” (che è poi quella del titolo) sfasata rispetto alle intenzioni, secondo trame imprevedibili, segnando la vita, i legami e le storie degli amici. D’altra parte c’è una precisione divinatoria se un gioco nato per caso e per scherzo davanti alla televisione diventa un rituale rivelatorio, a cui i quattro amici torneranno spesso a fare riferimento. Come se gli servisse a comprendere che i desideri erano tutti giusti, ma al posto sbagliato, mentre le tracce delle loro vite venivano segnate, anno dopo anno, da quella che Eshkol Nevo chiama “incostanza dei sentimenti”. Come era facile intuire, la partita è persa fin dall’inizio. La difficoltà di far coincidere i legami e i rapporti con i propri desideri non è l’unica che devono affrontare i quattro amici. Si devono destreggiare anche con le proprie famiglie, con una vita quotidiana fatta di guerra e di violenza, con città evanescenti e notti surreali. Si devono confrontare anche con le fragili intersezioni di un’amicizia con l’altra, dove, come capita regolarmente nella realtà, il tradimento, l’assuefazione, il sospetto e la confusione prolificano in modo esponenziale. “Se è tutto sbagliato da cima a fondo, che almeno si tratti di un errore maestoso” scrive Eshkol Nevo e, senza forzare i toni, anzi piuttosto con garbo, misura e discrezione, conduce il romanzo in porto. Solo che sua “simmetria” più che geometrica deve essere stata matematica. Il segnale che giunge è che, pur di giungere alla stessa somma, quell’insieme, che è poi il “desiderio” più importante, vale la pena scambiare i ruoli, magari in attesa dei prossimi mondiali. 

mercoledì 8 novembre 2017

Paulina Chiziane

David, dirigente d’azienda nel Mozambico rivoluzionario, sente che il suo posto è a rischio e ricorre alla magia per preservarlo, sapendo che “nessuno sale in alto con la carità” e che “il potere obbliga l’uomo a scendere nel sudiciume più profondo”. Gli avvisi di indovini e fattucchiere che consulta non servono a frenare la maniacale ambizione di David che, innescando una serie di eventi incontrollabili, lo condurrà lui e la sua famiglia, a partire dalla moglie Vera, a scoprire il proprio destino. Magia bianca e nera, conflitti sociali e guerre civili: Paulina Chiziane sviluppa circostanze di un’intensità inusitata senza nascondere le proprie sensazioni, i propri giudizi (“Lo spargimento di sangue è premeditato, pianificato, con un’intenzione benefica e un nobile progetto. Le vite sono capelli, dicono i guerrieri. Se ne tagliano pochi e ne nascono molti, più forti e più sani. Ci sono ogni giorno meno scuole, meno lavoro, meno pioggia, più fuoco, più sole, più armi. Ci sono più morti che vivi, ma ancora non è arrivata la fine del mondo, la vita trionferà, per la gloria del vincitore. Il campione di questa guerra costruirà il maestoso palazzo imperiale con ossa umane come se ne vanno in giro a tonnellate nei boschi”) e imprimendo alla trama, alla storia un ritmo travolgente. Anche i personaggi, a partire dal protagonista, David, sono combattuti e ben definiti (“Ogni vincitore viene vinto dai suoi crimini. La terra non sarà mai proprietà degli uomini”) con una percezione che è sempre provocazione, come fa notare Lourenço: “Sono un eroe. Agli eroi è permesso uccidere in nome di qualsiasi utopia: democrazia, libertà, indipendenza. Io non ho ucciso nessuno, ho rubato nel nome di una realtà molto concreta. Le mie tasche. Sono di gran lunga il più santo degli eroi. Ho le mani pulite. Sono la persona più innocente di questo mondo”. La storia, sospesa tra un’intricato trama di tradizioni e magia e un acuto realismo, è avvincente. Paulina Chiziane sembra condensare con Il settimo giuramento secoli e secoli di tradizioni africane, ma anche l’influsso delle culture europee, imposizioni coloniali e rivoluzioni comprese. La composizione potrebbe sembrare ardita e caotica, solo che la voce di Paulina Chiziane è forte, senza remore, rende alla perfezione le motivazioni che portano David verso Il settimo giuramento e le sue inevitabili conseguenze: “Morale vuol dire essere deboli, piccoli, inferiori. Immorale vuol dire odiare, rompere gli equilibri. Risvegliare. Far vibrare. Vivere. Vuol dire fare la guerra. Vincere la guerra. Vuol dire trasformare i più deboli in polvere e nulla. Senza odio né tirannia non sarebbero state costruite le piramidi d’Egitto, né le strade, né i ponti, né le ferrovie, né i monasteri, e anche l’America non si sarebbe sviluppata a costo del sudore dei neri. Le trasformazioni hanno bisogno di un movimento, figlio dell’odio”. L’adesione che Il settimo giuramento richiede è quella. Il prezzo da pagare va scoperto in fondo a un romanzo intenso e suggestivo, a tratti crudele e spietato, sempre sorprendente.

lunedì 6 novembre 2017

Omar Cabezas

E’ giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà per uno studente universitario, che si rende necessario perché la montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica, della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro. La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco, della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi, accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora, finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena. Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro, prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero. Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu, rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.

domenica 5 novembre 2017

Ian McEwan

C’è una scena, all’inizio, un po’ surreale: una mongolfiera in difficoltà, un gruppo di uomini coinvolti all’improvviso dalla casualità e nello stesso destino, lo sfondo bucolico della campagna inglese. Sembra “l’avanzo di un ricordo”: la mongolfiera è simbolo di una certa leggerezza e un dei protagonisti si accorge che “come il personaggio di un sogno vivevo al tempo stesso in prima e in terza persona. Agivo, e mi vedevo agire. Avevo dei pensieri, e li vedevo su di uno schermo. E come in un sogno, le mie reazioni emotive erano inesistenti o inadeguate”. Nel movimento corale una domanda rimane sospesa nell’aria, proprio come la mongolfiera: “Verso che cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in fondo”. Nell’incipit, Ian McEwan sfoggia uno dei suoi migliori esercizi di stile e costruisce il momento con precisione geometrica, rivisitandolo da più angolazioni e senza trascurare il minimo dettaglio, sapendo che “viviamo avvolti dentro una nebbia percettiva in parte condivisa, ma inaffidabile, e i nostri dati sensoriali ci arrivano distorti dal prisma di desideri e convinzioni che alterano persino i ricordi”. E’ in uno di quei particolari che, affiorando nitidi, scatenano il motivo di fondo che anima L’amore fatale: Joe Rose si ritrova ad essere l’oggetto del desiderio di Jed Parry, un allucinato di primissima categoria, la cui mente è offuscata una patologia erotica che associa religione e amore. Ne segue una vera e propria persecuzione che mette in dubbio la vita stessa di Joe Rose (giornalista scientifico con non poche contraddizioni nascoste) e della compagna, Clarissa, fino al convulso finale, non privo di colpi scena (appendici comprese). Qualcuno ha voluto vedere in L’amore fatale una testimonianza delle nevrosi spirituali moderne, a partire dalla new age, ma niente di tutto ciò ha una ragione d’essere perché l’acqua in cui galleggia Ian McEwan è quella delle nostre ossessioni quotidiane, delle paure e delle idiosincrasie di tutti i giorni, che in sintesi sono riassunte così: “L’oggettività spietata, specie riguardo a noi stessi, è sempre stata una strategia sociale funesta. Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se stessi. Nel corso delle generazioni, il successo ci ha selezionato lasciandoci inciso nei geni, però, il solco profondo del nostro peggiore difetto: se qualcosa non risponde ai nostri difetti siamo portati a negarne l’esistenza. Credere coincide col vedere”. Ian McEwan legge L’amore fatale, più che scriverlo, lo dipana con grande maestria, come se il romanzo fosse già esistito in origine, non frutto di un’elaborazione. L’unico calcolo di Ian McEwan riguarda la prospettiva, il punto di vista, come se il lettore dovesse vedere più che leggere, di conseguenza è consentita una partecipazione a distanza, anche se Ian McEwan non trascura nulla e non lascia niente al caso. Per certi versi, L’amore fatale è opposto e strettamente complementare a L’informazione di Martin Amis: entrambi colgono, da prospettive differenti, alcune delle inquietudini più significative dei nostri tempi, con uno stile letterario destinato ad assumersi, come scriverebbe John Keats, un’ombra di grandezza. L’autore dell’Hyperion non è estraneo a L’amore fatale perché oltre ad essere al centro degli studi di Clarissa (professione: docente universitario) viene regolarmente citato nei tratti salienti del romanzo, come se fosse una chiave di volta per l’interpretazione delle intuizioni di Ian McEwan. Un verso dell’Hyperion stesso sembra dare un’indicazione molto interessante in merito: “Il poeta e il sognatore sono distinti, diversi, meri opposti, antipodi. L’uno riversa un balsamo sul mondo, l’altro lo inquieta”. A Ian McEwan, quale che sia la categoria di appartenenza, per inquietare il mondo basta osservarlo e descriverlo minuziosamente, con precisione matematica, con uno stile che ha pochi eguali tra i suoi contemporanei e con quelle intuizioni pazzesche che rendono grande e unico un libro come L’amore fatale

martedì 31 ottobre 2017

Derek Raymond

Interni ed esterni di una famiglia aristocratica inglese negli anni sessanta: una decadenza inarrestabile che si trascina in un folle e amaro vortice di solitudine, disperazione e distruzione: anche se non è uno degli episodi della Factory, la saga per cui è diventato giustamente famoso, Atti privati in luoghi pubblici è a pieno titolo un romanzo degno della visione narrativa di Derek Raymond, che qui si applica a mondi che ha conosciuto in prima persona, ovvero quelli dell’aristocrazia e della pornografia. L’associazione autobiografica deve aver avuto un peso specifico non relativo, vista l’acidità con cui viene trasmessa dallo stesso Derek Raymond. Tutto si svolge all’ombra della Swingin’ London, un momento che, messi da parte miti e leggende, viene inquadrato così: “L’ottanta per cento della popolazione britannica stava mollo nell'ignoranza e nella miseria, nell’infelicità, nell’anno di grazia 1967, semplicemente perché il denaro non arrivava nelle loro tasche, o perché non avevano il tempo di fare buon uso di quello che guadagnavano, o le due cose insieme”. E’ quello il contesto in cui un manipolo di rampolli di buonissima famiglia si lascia andare alle deviazioni rispetto all’ipocrisia imperante, senza accorgersi di essere finiti nell’inevitabile cul de sac. Viper e Mendip si sono scelti un ramo aziendale insolito e piuttosto torbido (tengono insieme una serie di sexy shop) e, se non altro, tutto sommato almeno un senso degli affari l’hanno mantenuto. Le sorelle (e loro cugine) Lydia e Beatrice invece hanno manifestato tutto il loro dissenso verso le tradizioni, i riti e i codici della famiglia. Lydia si è dedicata alla più completa dissoluzione del corpo e della mente (“La noia, se ne rendeva conto, in lei occupava il posto di tutte le passioni. La noia era al contempo rabbia, gioia, amore, piacere dei sensi, in lei”), passando dai film pornografici alla prostituzione; Beatrice si è rinchiusa in soffitta a studiare Marx ed Engels, sommo sfregio all’aristocrazia famigliare, insieme al fatto (ancora più grave) che si degna di pranzare e cenare soltanto con la servitù. Una serie di eventi li porteranno tutti quanti (una bella compagnia, tutto sommato) nella ricca villa di famiglia. Nello scenario della bucolica campagna inglese, tra scenate irripetibili (“L’avidità era il loro comune terreno d'intesa. L’arroganza il loro comune linguaggio”), clamorosi colpi di scena e un intero catalogo di follie si consumerà, per intero, il dramma di un declino squallido, travolgente e spietato. Gli Atti privati in luoghi pubblici sono fotografati in modo molto lucido e convincente da Derek Raymond. Domina, incontrastato, il suo tratto spigoloso, tagliente che non concede nulla ai suoi personaggi se non una lunga, cupa e atroce discesa negli inferi che si sono creati. Nessun luogo comune, nessuna pietà e nessun effetto speciale: a Derek Raymond basta e avanza la sua geniale idiosincrasia verso il genere umano per arrivare fino in fondo. Senza scampo, senza via d’uscita.

lunedì 30 ottobre 2017

J. G. Ballard

In un grattacielo smisurato e proiettato tanto nel cielo quanto nel futuro, i rapporti tra i condomini regrediscono fino a tornare alle esigenze primordiali della sopravvivenza: aggressività, autodifesa, caccia all’uomo. Lo sviluppo è lineare almeno quanto la struttura verticale del grattacielo, “un’immensa macchina progettata per servire non la collettività degli inquilini, ma il residente individuale e isolato”. Metafora di tutta la nostra vita quotidiana, straordinaria visione di un futuro che è già presente, nel condominio di J. G. Ballard le classi sociali sono divise dai piani e dagli ascensori, ma ad un certo punto tutto ciò che dovrebbe essere garantire l’individualità e la privacy nella vita comune diventa un territorio di scontri brutali, che nascono dalle esigenze più elementari: la tutela del territorio e dei piccoli, la fame e altri appetiti (quelli sessuali, principalmente), la sopravvivenza tout court. La riduzione del tessuto sociale ai limiti dell’animalesco non è tutto, perché l’ombra del condominio svela l’ipocrisia, l’indifferenza, l’abulia visto “nonostante l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di tali accadimenti. La routine della vita continuava come prima, si andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che fare con l’ennesima incursione aerea”. Il condominio, con la sua brutale architettura di quaranta piani per mille appartamenti è verticale verso l’alto ed è anche un precipizio. Diventa un incubo claustrofobico, teso e snervante che introduce il lettore in un’atmosfera ambigua e inquietante perché il caos del condominio è il nostro (nuovo) ordine quotidiano, uno stillicidio di violenze piccole e grandi di cui, proprio come gli inquilini di J. G. Ballard, non riusciamo a tener conto. La “sfida alla realtà delle cose” è tutta dell’avvicinarsi ala cronaca quotidiana. Mentre Il condominio, con il progredire della storia, comincia una vita tutta sua e diventa un soggetto indipendente, lo specifico tipo di violenza che pervade i suoi abitanti è qualcosa di inedito e incontrollabile. Lo spunto, polemico se si vuole, del condominio è proprio lì, più che nella cupissima trama: è l’incapacità di vedere quello che ormai non si può più nascondere, è la forza dell’abitudine che impedisce di fiutare il peggio, è la stratificazione (sociale, politica, umana) che ad un certo punto, questione di tempo, collassa. Nell’intimo, nelle soggettività più che nella collettività, come fa notare Ballard, senza ipocrisie: “E’ un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato felice di primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale... Una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani”. Il condominio è un grande romanzo perché racconta, da dentro, dall’intestino, le ultime metamorfosi di una civiltà decadente, la nostra, e di un’umanità che, nonostante l’evoluzione della specie, è ferma ai suoi istinti animaleschi. Attualissimo, e sempre sorprendente, è l’istantanea di un futuro già esaurito.