Nell’Iran
attuale, Sudabeh è figlia di una famiglia benestante, che crede sia
giusto trovare per lei un marito allo stesso livello. I pensieri di
Subadeh però sono occupati da un altro amore, distante, per censo e
per formazione, dalle sue abitudini. Travolta dal tormento tra la
passione e l’intenzione di non deludere i genitori, la ragazza si
rivolge a una zia saggia e comprensiva, Mahbubeh, che l’accoglie
aprendo un vecchio scrigno di ricordi. “Quando sei innamorata lasci
che le cose vadano e vengano come vogliono, lasci che il mondo vada
sottosopra oppure no: che importanza ha?”, le dice la zia e a quel
punto è già chiaro che La scelta di Subadeh è solo il
prologo alla storia di Mahbubeh che, in un altro Iran, quello dello
Shah, ha vissuto pene e fatiche d’amore simili e parallele a quelle
della nipote. In un trionfo di giardini profumati, pranzi ricchi di
sapori, dialoghi coloriti e allegorici, Mahbubeh racconta come ha
schivato tutti i matrimoni combinati dalla famiglia, perché
innamorata di Rahim, il garzone del falegname del quartiere. La vita
con Rahim (e un’antipatica e invadente suocera) invece del
“paradiso in terra” si rivelerà impossibile (e brutale), tanto è
vero che, per Mahbubeh, il massimo della felicità “se di felicità
si può parlare, si manifestava con un sorriso amaro”. La
separazione tra i sogni a occhi aperti dell’infatuazione, la
passione della rivolta di Mahbubeh contro le imposizioni e la dura
realtà genera un corposo romanzo, dove i personaggi femminili
imperano in tutte le direzioni. Il senso del melodramma con cui
Fattaneh Haj Seyed Javadi sfoggia una scrittura florida e
affascinante non le impedisce di collocare La scelta di Mahbubeh
nel contesto delle trasformazioni e delle contraddizioni dell’Iran
del ventesimo secolo, consentendo al lettore di farsi trasportare
dalle atmosfere avvolgenti del romanzo perché poi, come dice
Nazanin, la madre di Mahbubeh, “la bellezza è negli occhi di chi
la possiede”. Non è l’unica iperbole: tutta La scelta di
Sudabeh è costellata di versi poetici, metafore, un florilegio
linguistico che riflette l’intensa tradizione della narrativa
dell’Iran, dove, come ha raccontato la stessa Fattaneh Haj Seyed
Javadi, “la letteratura è all’ordine del giorno e anche le
persone con un grado di istruzione relativo amano esprimersi
attraverso versi e proverbi”. I contrasti sono resi con un
meticoloso lavoro di intarsio attorno ai “legami di sangue” e
alle trame che coinvolgono famiglie e parentele, così come con
minuziosa descrizione della vita quotidiana in una cittadina
dell’Iran. Dalle colorite espressioni per descrivere lo svolgersi
delle stagioni al labirinto di dettagli di tradizioni, regole e
usanze, per non dire dei dialoghi forbiti e cesellati battuta per
battuta La scelta di Sudabeh è un fuoco d’artificio senza
fine che non nasconde, nelle pieghe dei tormenti di Mahbubeh, un
velo di nostalgia per altri tempi, quando erano “tutti felici,
ognuno a modo proprio, ognuno con i propri pensieri e i propri
desideri”. Un romanzo da scoprire lasciandosi guidare dalla mano
sicura di Fattaneh Haj Seyed Javadi in un panorama, sì, molto
diverso e distante, ma dove le scelte e i loro effetti pesano come in
ogni altra parte del mondo.
sabato 30 dicembre 2017
martedì 19 dicembre 2017
Dubravka Ugrešić
Scriveva
Josip Osti, lo straordinario poeta del Libro
dei morti di Sarajevo: “Non
chiedere se questa guerra è realtà, o un ricordo del passato”. Il
tempo nei Balcani ha sempre avuto un valore storico biunivoco.
Bisogna ricordare per esistere. Bisogna dimenticare per sopravvivere.
Solo in apparenza è una contraddizione: la frammentazione politica,
territoriale e umana che ha generato la migrazione e l’esilio di
interi popoli, a partire dai loro intellettuali, Dubravka Ugrešić
compresa, nasce proprio dalla rottura di quel difficile, se non
impossibile, equilibrio tra memoria ed oblio. Lo sforzo in Il
museo della resa incondizionata è
apprezzabile perché rende alla perfezione il momento del collasso
visto che Dubravka Ugrešić è una scrittrice con il gusto maniacale
del particolare, del dettaglio, dell’infinitesimale e nel suo
essere straniera riesce veramente a vedere “l’oscurità del
mondo”, come la definisce Joseph Brodskij. Madre, figlia, amiche,
donne: i ricordi si intrecciano partendo da un’immagine scolorita e
seguendo i percorsi di un esilio infinito dato che “la vita non è
altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album
esiste. Quello che nell’album manca, non è nemmeno accaduto”. La
conclusione a cui giunge Dubravka Ugrešić è che “la creazione
della realtà è l’attività della vera letteratura” e la
responsabilità di supplire a ciò che manca è implicita nella
connotazione che determina Il museo
della resa incondizionata. Compresa
l’apologia del dilettante, un passaggio quanto mai utile per
comprendere la predisposizione (molto istintiva) di Dubravka Ugrešić:
“Il vantaggio del dilettantismo rispetto al professionismo
(chiamiamolo così in mancanza di un termine migliore), o addirittura
la differenza tra i due, è contenuta in un determinato punto di
dolore indefinito, dolore che l’opera amatoriale, come le
percezioni extrasensoriali, può centrare suscitando di conseguenza
un’identica sensazione nell’osservatore o nel lettore. Le
sontuose strategie della cosiddetta opera d’arte raramente centrano
tale punto. Il punto di dolore è meta casuale solo dei beati
dilettanti, meta che unicamente loro, senza nemmeno sapere di che si
tratti, riescono a centrare”. Allora è un’immagine,
un’istantanea, il tentativo di fissare un attimo, anche
nell’infinita terra di nessuno dell’esilio europeo: “E d’un
tratto mi venne in mente che a Lisbona avevo comprato un biglietto
della lotteria e vinto un raro premio: la momentanea sensazione che
niente, in realtà, è perduto, che perciò non c’è motivo di
lamentarsi, che tutto esiste da qualche parte, così come noi
esistiamo sparpagliati in ogni dove, che tutto da qualche parte si
somma, che tutto è collegato”. Se bastasse una piccola epifania,
sarebbe tutto risolto: il limite intrinseco è che Il
museo della resa incondizionata si
attorciglia attorno alle immagini, ai ricordi, persino ai sogni (“Il
sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal
presente e dal futuro”) e tutto ciò è insieme metafora e
realtà dell’esilio, che diventa una gabbia decadente, e a tratti
anche autoreferenziale. Un libro, sì, “prezioso”, come ha detto
qualcuno, ed è vero come scrive Predrag Matvejević
nell’introduzione, che “la letteratura non ha l’obbligo di dare
giudizi”, ma avrebbe anche tutte le potenzialità per ripristinare
l’equilibrio tra oblio e memoria che qui,
nelle floride pagine di Dubravka Ugrešić, si perdono attorno ad una
fotografia ingiallita, un ricordo che non serve più.
domenica 17 dicembre 2017
Ryszard Kapuściński
Dalle alture
del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a
Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive,
racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature
e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli
incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai
risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage
risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era
postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di
essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non
soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e
militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le
pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto
attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione
della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di
irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere
universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni.
Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte
centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a
meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano
dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La
Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre
fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra
metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica,
è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In
quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i
politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare,
stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di
silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della
morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto
che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha
ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è
colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha
paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle
torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle
connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato
umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti
non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra
palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si
permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla
terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”.
Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito
da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il
bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel
raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni
si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire
desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano
comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più
semplicemente, chiunque pensi”.
Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte.
sabato 16 dicembre 2017
Ben Watt
Ricoverato
d’urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt, musicista
inglese noto ai più per la collaborazione con la moglie Tracey Thorn
negli Everything But The Girl, si deve confrontare con gli orizzonti
della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di
variabili specifiche. A prima vista, il suo “caso speciale” non
sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e
perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è
tutto colpa di un “modo di vivere privo di senso”. D’altra
parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il
personale medico riesce a scoprire è un “disordine
multisistemico”, definizione tanto elaborata quanto vaga.
Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più
intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell’osservare
la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri,
Ben Watt ricorda: “Mi sembrava di essere una creatura in
metamorfosi, che passa dalla vita sott’acqua a quella sulla
terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se
navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del
tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì
bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso
tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i
successivi venti minuti o giù di lì”. Ci vogliono diverse
settimane prima che gli venga diagnosticata “una malattia
autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto
raro che colpiva individui con trascorsi d’asma e febbre da fieno i
cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano
dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione
antigenica”. Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche
(all’intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale
tutta l’estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il
diario dettagliato e puntiglioso della degenza, quando doveva
combattere con tutta la terminologia scientifica, le preoccupanti
visioni del futuro e lo spasmodico desiderio di “essere in qualche
campo all’aperto in estate, col cielo sopra la mia testa, e Tracey
(Thorn) che mi correva davanti, fuori dal tempo reale”. Con grazia,
a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra
fragilità, di solito nascosta da “un differente ritmo che si
svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo,
una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel
nostro cranio per tutte le ore di veglia”. Costretto a spogliarsi
(metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e
per esteso a tutti i “pazienti”, resta un’unica protezione
nell’elogio della normalità fino a quando un senso non giunge
“dalla solitudine e dalla calma, dall’accettazione,
dall’adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se
stessi”. Al libro manca soltanto il lieto fine: dopo essersi
ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività
discografiche, pubblicando tra l’altro uno dei suoi album più
belli in assoluto, Fever Dream.
venerdì 15 dicembre 2017
Panos Karnezis
Durante
una campagna bellica del 1922, una brigata dell’esercito greco
cerca di sopravvivere, impigliata in una guerra senza senso, se mai
la guerra in sé ne avrà uno, in rotta nel nulla del deserto
ottomano. Incalzata dal nemico e dai suoi spettri, la ritirata
diventa Il labirinto in cui si confondono i suoi protagonisti.
Un comandante morfinomane e consumato dai rimorsi, misteriosi
provocatori marxisti che si nascondono tra gli ufficiali, un
cappellano sornione e sbandato e tutti i soldati che cercano di
sopravvivere un giorno dopo l’altro. Il percorso, quasi biblico nel
suo svolgersi contro la fame, la polvere, il destino, porta
lentamente alla disgregazione dell’organizzazione militare, ma
anche della più intima e semplice delle speranze, ovvero quello di
lasciare il fronte ancora interi. L’orizzonte psicologico in cui ci
si perde con Il labirinto è proprio lì e Panos Karnezis
riesce a sviluppare con meticolosa precisione la vita quotidiana di
soldati sconfitti e sofferenti, che si regge su pratiche semplici e
dirette: “Quando vengono meno il valore, il patriottismo e la fede
religiosa, è la disciplina a offrire un po’ di consolazione,
dimostrando che nel mondo esiste ancora qualche forma di ordine. E
basta così poco per raggiungere certi risultati: una lucidatina a un
paio di stivali infangati, la sostituzione di alcuni bottoni
mancanti, una spallina strappata ricucita e sistemata di nuovo al
posto giusto”. Come si vedrà, attraversando Il labirinto,
non sempre quelle attenzioni sono sufficienti, soprattutto quando i
soldati si ritrovano, in un piccola città dell’Anatolia, a
confrontarsi con tutto quello che pensavano di aver dimenticato. Il
contatto con una parvenza di civiltà scatena reazioni impreviste e
acuisce tutte le fratture che serpeggiano nella brigata, il cui
destino è andare oltre, verso il mare, l’ultima tappa per tornare
a casa sani e salvi. L’abilità, non comune, di Panos Karnezis non
è solo nel ricreare le dolorose (a volte, tragiche) condizioni
quotidiane, ma anche la complessità sul piano emotivo della
composita umanità della brigata. C’è anche qualcosa in più. Se
l’atmosfera generale, dal deserto a quel nemico che non arriva mai,
rimanda facilmente a Dino Buzzati, nell’asprezza che Il
labirinto si porta dietro non mancano di giungere appunti che si
legano chiaramente con l’attualità, dalla disinformazione nei
gironi della sconfitta (“Dal momento in cui le cose hanno
cominciato a volgere al peggio, si sono messi a ripubblicare i vecchi
articoli cambiando i nomi e le date”) a una visione non casuale
della storia, dei suoi cicli e del suo tempo (“La storia si misura
con i secoli: non con quanto è accaduto ieri”). Come se il 1922
non fosse così lontano, perché la guerra non cambia mai e, nella
sua fuga, la brigata assorbe e rispecchia tutto un mondo brullo e
arido come la steppa anatolica. Con questo, Il labirinto non
manca di momenti grotteschi e (molto) divertenti, piccoli abbagli
luminosi di un viaggio tormentato, drammatico nella sua consistenza
ed epico nello svolgersi.
giovedì 14 dicembre 2017
Ian McEwan
Il
funerale di Molly Lane è soltanto un’occasione per mettere in
scena l’impossibile congruenza delle pubbliche relazioni. La
conoscevano tutti, soltanto che il tempo ha scarnificato gli esili
fili che annodavano le vite. Nel caso di John Julian Garmony, gli
anni passati sono coincisi con la carriera: è ministro
spregiudicato e ambiguo, e , a breve termine, ha un luminoso futuro
politico davanti. Gli altri amici, convenuti già nell’incipit di
Amsterdam, sono Clive, compositore e direttore d’orchestra,
e Vernon, direttore di un giornale bisognoso di cure, strategie e
lettori. La dipartita di Molly lascia trasparire molte cicatrici e,
nelle pieghe del suo lascito, compaiono a sorpresa alcune foto
(molto) imbarazzanti di Julian. Vernon deve decidere se pubblicarle
oppure lasciarle nell’oscurità. Senza dubbio, quelle immagini
hanno il potere di stroncare ogni velleità di Julian, ma nel dubbio
Vernon coinvolge anche Clive e a quel punto il conflitto di Amsterdam
diventa evidente perché “sappiamo così poco gli uni degli altri.
Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio
fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi
presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una
rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del
tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo
schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero,
dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente”. Non c’è
dubbio che, anche in Amsterdam, Ian McEwan abbia assemblato la
decadenza dei costumi, l’intreccio linguistico, e l’immaginario
stesso di una nazione e, insieme, di un’idea di vita sociale. Fin
dall’inizio, è un tentativo di ripetere le geometrie di L’amore
fatale, un romanzo che gli è contemporaneo e parallelo:
atmosfere, temi e persino i personaggi sembrano gli stessi, sempre
trascinati dai loro dilemmi, sempre coinvolti nelle distorsioni tra
pubblico e privato, nella biunivocità di rapporti che tendono a
confondere la trama con il pensiero, i dialoghi con le descrizioni,
l’ambiente con il paesaggio, il comico con il grottesco. Il
paradosso è che l’abilità di Ian McEwan è proprio questa e, in
Amsterdam, ne è consapevole al punto di rivelare senza pudore
la chiave di volta, quando scrive: “La comunicazione scritta
concede ampio spazio al fraintendimento. Basta spostare l’enfasi di
quanto si legge da un termine a un altro per modificare un messaggio.
La stessa parola del resto può avere più di un significato: rifiuto
può indicare l’atto di dire no a qualcosa che si ritiene
sbagliato, ma può essere anche un avanzo, un sinonimo di
spazzatura”. Amsterdam sembra davvero muoversi e giocare
dentro questa compiaciuta certezza e proprio dove Ian McEwan offriva
immagini rapide, brucianti, immediate, qui sembra crogiolarsi
nell’eccezionale qualità della scrittura, ormai conclamata. Ne
esce un romanzo costruito con mestiere, raffinato e seducente, ma che
lascia molti interrogativi irrisolti e che sembra suggerire, più che
chiarire, appuntare, più che descrivere, inventare, più che
definire. E’ giusto così, in fondo, perché Ian McEwan gioca
spesso con il lettore sul filo del rasoio, solo che in Amsterdam
forse ha barato un po’.
mercoledì 13 dicembre 2017
Levi Henriksen
Ormai
abbandonata ogni velleità di scoprire una musica davvero autentica,
il produttore discografico Jim Gystad rimane folgorato
dall’esibizione di un trio vocale nel corso del battesimo del
figlio di un amico. Lo stupore è tanto e tale che confessa al suo
ospite: “Ricordi come ci sentivamo quando da ragazzi scoprivamo
qualcosa di diverso? La prima volta che abbiamo ascoltato un nuovo
artista, o letto un libro, o guardato un film, o baciato una
ragazza... Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti è
capitato di sentirti così?”, e la domanda rimane sospesa
nell’aria, dando il via al romanzo che Levi Henriksen (classe 1964)
accorda sui toni agrodolci della commedia. La leggerezza di Norwegian
Blues però non è mai banale perché, sempre con garbo e ironia,
lascia emergere più di una possibilità di approfondimento. Intanto,
i cantanti che hanno emozionato Jim Gystad sono una famiglia, i
Thorsen, composta dalle sorelle, Tamar/Tulla (il secondo nome cela
un’altra storia che scorre parallela a Norwegian Blues) e
Maria, e dal fratello Timothy. Nella loro carriera hanno soltanto
interpretato inni religiosi, spesso con arrangiamenti fantasiosi ed
eccentrici, ma sempre rispettosi e adeguati alle circostanze. In
gioventù hanno inciso e pubblicato dozzine di dischi e sono stati
acclamati in tour negli Stati Uniti, ma, arrivati a una certa età,
si sono ritirati nella campagna norvegese e non vogliono nemmeno
sentire nominare per sbaglio l’industria discografica. Non hanno
tutti i torti (anzi), perché come dice il protagonista di Norwegian
Blues, “la gente non vuole la realtà. Vuole un reality show
dal cast accuratamente selezionato”. Ammaliato dalle loro armonie,
Jim Gystad abbandona la città e parte all’inseguimento dei
Thorsen, con l’idea di convincerli a tornare in studio di
registrazione per siglare un ultimo capolavoro, e per assecondare il
“bisogno di recuperare la vera essenza della musica. La sensazione
di produrre qualcosa che riesce davvero a toccare l’animo delle
persone”. La rocambolesca avventura lascia affiorare un paesaggio e
un’umanità, quelli della Norvegia, che non sono molto diversi dal
resto del mondo: lo sfruttamento insensato del territorio, l’avidità
e la superficialità sono gli ostacoli con cui deve confrontarsi Jim
Gystad, più della consolidata ritrosia dei Thorsen. Con l’evolversi
della storia, nella seconda parte di Norwegian Blues, Levi
Henrikesn sposta l’attenzione dall’ossessione per la musica,
verso gli affetti, i legami, i sentimenti, la famiglia e, non ultima,
la casa. Jim Gystad sarà costretto a scegliere proprio tra modi
diversi di intendere, sia la vita che la musica. Compreso il finale
(a sorpresa), Norwegian Blues lascia intendere che la tanto
agognata autenticità non è un elemento delle strategie di marketing
o una rarità destinata agli studi antropologici e, in effetti, non è
nemmeno un traguardo definitivo. E’ il riflesso naturale di valori
vissuti e difesi fino in fondo. Per dirlo con i Thorsen, “la musica
parla di quello che succede dalla vita in su, non più in basso”.
Una piccola fiaba moderna.
martedì 12 dicembre 2017
Derek Raymond
E’
difficile fare il sergente alla A14 (che non è un’autostrada, ma
la sezione Casi Irrisolti della polizia di Chelsea) quando si ha una
moglie pazza ricoverata in un manicomio perché ha ucciso la figlia,
non si sopportano i propri superiori (“La mia non è mancanza di
rispetto, ma di pazienza. Il mio guaio è che non riesco a sopportare
gli idioti. Mi preoccupo della giustizia, non dei gradi”) ma
soprattutto, non si cerca la giustizia, ma la verità. Una sottile
distinzione che, in Aprile è il più crudele dei mesi, viene
sviscerata da Derek Raymond con un’aderenza totale al suo
protagonista: il noir non è inteso soltanto come ambientazione,
atmosfera, stile o genere, ma è proprio un modo per vedere la vita,
o il dramma della vita. “Dove vado io, là vanno i fantasmi. Io
vado là dove si trova il male”, dice il tormentato sergente della
A14 ed è un riflesso spontaneo che si traduce in quello che sostiene
lo stesso Derek Raymond ovvero che “la funzione del romanzo noir è
di impedire alle persone di dimenticare l'orrore che regna”. Questa
dura e nobile definizione (è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve
pur fare) trova una sua logica in Aprile è il più crudele dei
mesi. Al nostro sergente della A14 viene recapitato un caso che
comincia da quello che rimane di un cadavere: cinque sacchetti di
plastica che contengono, adeguatamente sezionato e bollito, un corpo
umano. La prima reazione è, a sua volta, un tentativo di individuare
un senso, difficile se non impossibile da trovare davanti a quello
scempio: “Cominciai a immedesimarmi nell’assassino. Pensavo: sono
pazzo. Sì, ma dobbiamo tutti sforzarci di sembrare normali”. Da
quel macabro ritrovamento si dipana un intreccio che comprende
malavitosi della peggior specie, agenti segreti e doppiogiochisti di
professione, politici corrotti e tutta una fauna ambigua che è
sempre pronta a tirare il grilletto. Dal canto suo, Derek Raymond non
spreca una riga, una parola. I personaggi sono chiari, evidenti, dai
contorni netti e precisi, a partire dall’autoritratto del sergente
dell’A14: “Le mie indagini le conduco a modo mio, è il grande
vantaggio di lavorare da solo. E se la cosa non garba ai miei
superiori, possono pure cacciarmi. Probabilmente l’avrebbero già
fatto, solo che non sono così facile da rimpiazzare”. I dialoghi
hanno la forza bruciante di chi sa gestire la scrittura con
naturalezza (“Perché te la stai prendendo come me? Perché hai
abitudini pericolose e sei stato dentro per omicidio. Hai strangolato
un uomo, e ti sto controllando com’è prassi, ma anche perché la
tua faccia potrebbe essere proprio il pezzo mancante del puzzle di
una nuova indagine che sto svolgendo”) e senza tanti patemi
stilistici. La storia è una rete infinita di intrighi dove le
psicologie sono determinanti almeno quanto i paesaggi perché Londra
e i sobborghi sono (come in tutti i suoi romanzi) uno scenario
perfetto e tenebroso. Aprile è il più crudele dei mesi è un
ottimo biglietto da visita per un autore che ha il merito di aver
elevato il noir, o di essersi abbassato fino a sporcarsi le mani: in
entrambi i casi, un bel coraggio.
sabato 9 dicembre 2017
John Berger
Le
ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che
riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si
tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci,
lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger
ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura
(“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e
ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di
più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in
quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del
capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri
negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa
tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione
incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi,
precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni
(“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di
parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e
sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria
e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La
soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di
noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una
bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo
riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la
confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il
suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie
Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni
riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di
indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa,
in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili,
sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è
molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma
della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle
osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith,
Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits,
dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come
un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta
(“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione
immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo
acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi
passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così
soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire,
quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori
impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene
lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi
accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è
proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a
confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci
sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a
farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che
come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di
una) da non dimenticare.
sabato 2 dicembre 2017
Enrique Vila-Matas
Spiegare
un complotto non è facile. Figurarsi spiegarne uno che non aveva
scopi, se non quello di trovare una forma all’illusione che, a ben
vedere, è già una sorta di cospirazione. Avanziamo a piccoli passi,
e cominciamo dall’inizio quando Tristan Tzara ispira, come lo
descrive l’alchimista Aleister Crowley “un genere letterario che,
secondo lui, è caratterizzato dal fatto di non avere un sistema da
proporre, ma solo un’arte di vivere. In un certo senso, più che
letteratura è vita”. Ecco la pietra angolare del tempio della
società shandy che tradotta e aggiornata si risolve nell’ordine
del giorno che prevede per tutti i (segreti) congiurati “spirito
innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi,
nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio
doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte
dell’insolenza”. E’ un programma vasto e criptico da
affrontare, con punti di criticità assoluta già nella sua
conclusione (“E’ bene considerare che l’insolenza, quando si
manifesta, lo fa sempre in relazione agli altri, attraverso un
movimento che tiene conto intensamente dell’altro”) e che nel
mondo in cui vige ancora una maledetta realtà appariva una chimera.
Gli stessi shandy tendevano a soluzioni di comunicazione improprie
come quella usata da Francis Picabia: “Parlavamo in silenzio e la
nostra conversazione era tra le più interessanti che si possano
immaginare; altre parole, pronunciate e ordinate per essere udite,
non avrebbero mai potuto ottenere l’effetto di tale silenzio”. O
pensavano rivolti a dimensioni parallele dove le contraddizioni erano
l’aria da respirare come scriveva George Antheil: “L’inutile è
bello perché meno reale dell’utile, che permane a lungo; invece il
meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale, si ferma dov’è,
rimane quello che è, vive libero e indipendente”. Tutto ciò (e
molto altro: dagli odradek al suicidio, dall’Europa tra le due
guerre mondiali alla boîte en valise di Marchel Duchamp) non avrebbe
senso confinato all’interno della cosiddetta normalità, ma anche
nei contorni di un’utopia. Per identificare, anche da un punto di
vista geografico, la “letteratura portatile” degli shandy ci
viene in soccorso l’epigrafe di Paul Valéry che ha il compito
(assolto con formula piena) di riassumere, introdurre e accendere la
Storia abbreviata della letteratura
portatile raccontata da Enrique Vila-Matas: “L’infinito,
mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo
esiste solamente sulla carta”. Le dimensioni, contano, eccome, la
parafrasi di Enrique Vila-Matas parte dalla “storia portatile della
letteratura abbreviata” di Tristan Tzara, nei cui piccoli libri era
nascosta una magia (perché “miniaturizzare significa anche
occultare”) che Marchel Duchamp ha rivelato così: “Ciò che
viene ridotto diviene in un certo modo libero di significato. La sua
piccolezza è allo stesso tempo un tutto e un frammento. L’amore
per il minuscolo è un’emozione infantile”. Da lì Enrique
Vila-Matas conduce alla ricostruzione dei legami e dei dialoghi di
una compagnia internazionale dove è centrale l’intersecarsi di
suggestioni, amicizie, scambi e confronti in cui hanno avuto ruoli da
protagonisti, tra gli altri, anche Francis Scott Fitzgerald, Georgia
O’Keefe e Walter Benjamin, convenuti e congiurati nel nome
dell’arte e dell’allegria.
venerdì 1 dicembre 2017
Jenni Fagan
Entrare in Pellegrini del
sole è come penetrare in un igloo ricoperto da più livelli di neve
e di ghiaccio che si sono sedimentati uno sopra l’altro. La parte
superficiale dell’involucro è un romanzo distopico e apocalittico
che ipotizza un’incombente glaciazione. L’ipotesi accredita già
Jenni Fagan in una dimensione più oculata rispetto agli strilli del
riscaldamento del pianeta, perché come varie fonti scientifiche
concordano, quella è soltanto la causa, gli effetti rimangono
imprevedibili. Tra questi, il rischio di una nuova era glaciale, che
dipenda o meno dalla sconsideratezza del genere umano, era paventata
parecchi anni fa da Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel
1983, nel suo Ballando nudi nel campo della mente, che rimane una
lettura tanto provocatoria quanto intelligente. Ammesso lo scenario,
che tra l’altro ha tutte le sue valenze metaforiche in funzione
dell’isolamento, della solitudine e del critico bollettino
meteorologico dei rapporti umani, sotto e dentro la coltre di gelo si
snoda una contorta saga famigliare costruita attorno a una serie di
formidabili personaggi femminili (Gunn, Constance, Vivienne e
Stella). L’epicentro su cui siedono i Pellegrini del sole, è
proprio la storia di Stella. Stella è diversa, è incastrata in un
albero genealogico che serpeggia da una lontana isola scozzese fino a
Londra, irto di segreti e misteri. Nel villaggio di roulotte e camper
dove si è rifugiata con la madre, Constance, vivono “come se tutto
ciò che un tempo era in ordine fosse andato in malora, così
velocemente che nessuno riusciva a reggere il passo”. Non a caso
campano campano riciclando, restaurando e rivendendo mobili che
trovano nella discarica. Per inciso, viene da pensare che il vero
problema dell’umanità sia lo spreco, piuttosto che le variazioni
climatiche. Quando nella stralunata comunità di Clachan Falls, in
cima alla Scozia, arriva Dylan McRae, la sfida della mera
sopravvivenza è complicata dallo sciogliersi degli equilibri. Dylan
(attenzione al nome) proviene da Londra dove ha ereditato il
fallimento di un cinema d’essai, il Babylon, gestito dalla madre e
dalla nonna (tra i registi programmati con maggior regolarità,
Werner Herzog), entrambe scomparse in rapida successione. Se il
cinema è un lascito di Gunn (la nonna), da Vivienne (la madre)
riceve una roulotte a Clachan Falls ed eccolo lì, tra i Pellegrini
del sole. Dylan è alto, introverso, riservato e colto, tutte qualità
che servono fino a un certo punto quando “il mondo è un luogo
incantato fatto tutto di ghiaccio”. Con il termometro che ormai non
sa più cosa indicare spostarsi diventa sempre un rischio perché
l’ipotermia fa perdere l’orientamento. Restare chiusi in casa,
nei caravan dove lo spazio è razionato, porta a impazzire. Rimane
soltanto una drastica riduzione all’essenziale delle funzioni
vitali: provare a restare al caldo dentro strati di vestiti e
coperte, farsi venire i calli a furia di spaccare legna, ascoltare
gli aggiornamenti nella speranza di intercettare una buona notizia
che non arriva. La costruzione di Jenni Fagan è semplice e
progressiva: si limita a seguire i suoi protagonisti nella faticosa
lotta per la sopravvivenza, eppure nel linguaggio dissemina un sacco
di strambe e colorite associazioni dylaniane (nel senso di Bob Dylan)
che forniscono tono e fragranza al racconto. Pur essendo declinato al
femminile, in Pellegrini del sole, l’elemento maschile è
catalizzatore di tutte le svolte: alla ricerca di se stessa, Stella
trova un importante interlocutore in Dylan, che a sua volta diventerà
presto un amico (e qualcosa di più) anche per Constance. In qualche
modo bisogna pur inventarsi un modus vivendi, ed ecco che Stella
diventa Stella e Constance accetta Dylan che si ingegna a distillare
gin. Sarebbe bello pensare che vissero felici e contenti, ma il
passato incombe e con meno cinquanta a pochi giorni dalla primavera,
il futuro è tutto da scrivere.
venerdì 24 novembre 2017
Vikram Seth
Colpito al cuore dalle liriche di Puškin, Vikram Seth abbandona un’avviata carriera da economista per lanciarsi in un’impresa di 590 sonetti in rima ispirati a San Francisco, alla guerra fredda e a una vita intrisa di poesia. La sfida era dichiarata, sfrontata e ambiziosa fin dall’inizio. Raccontare in versi, in una lunga ballata, l’attualità del mondo così come lo vediamo con la sua moltitudine di voci, di simboli, di idee per aria, di connessioni che non uniscono e di parole che non dicono. Golden Gate doveva essere un romanzo in forma di poema, chissà, forse un omaggio senza timori alla gloriosa epopea di Walt Whitman, oltre che al dichiarato colpo di fulmine con Puškin. Con l’intenzione di abbracciare il possibile e l’impossibile, partendo dalle origini primordiali, quando Vikram Seth dice: “Cos’è in fondo l’origine del mondo? Un tic-tac nel silenzio dello spazio”. In corso d’opera, sospinto dall’innegabile ricchezza di un vocabolario e da una spiccata sensibilità ritmica, Golden Gate deve aver proprio invertito la sua polarità. Prendendo la mano a Vikram Seth è diventato qualcosa di molto simile a un poema in forma di romanzo perché la frammentazione delle sue stanze ha riflettuto, più che interpretato, il caos del nostro mondo, dove morale e legge spesso non combaciano (“Ci sono delle occasioni in cui morale e legge civile sono in conflitto. Anche se l’unica legge ufficiale è quella del diritto. Se rispondiamo alla nostra coscienza e non vogliamo distruzione e violenza e né che degli ordigni intelligenti colpiscano degli umani innocenti, ci vuole una chiosa alla citazione. Una corretta analisi filologica deve comprendere l’intera logica del testo”), la guerra è onnipresente (“La nostra nazione ha creduto a lungo che la guerra era uno sport”) e il dubbio è l’unica certezza (“Non c’è salvezza e non c’è vittoria. Non c’è difesa, non c’è alcun confine. Non ci sono limiti, non c’è storia”). Prosa o poesia, l’originalità e la temerarietà di Vikram Seth non sono in discussione perché Golden Gate è una rotta trafficata e rocambolesca attorno ad un’idea cosmopolita, un clamoroso laboratorio linguistico, che purtroppo è rimasto tale. Dovessero contare più le premesse dei risultati concreti, Golden Gate vincerebbe ancora oggi il premio Pulitzer. Essendo rimasto un caso, eclatante ma pur sempre un caso, rimane sospeso e incompiuto tra la certezza di una frattura epocale (“Noi/Loro. La scoraggiante visione che sottintende questa ribellione. L’ipocrita superficialità non estirperà il seme del peccato, e non guarirà questo caos dannato”) e una sincera curiosità che Vikram Seth, con una domanda sacrosanta (e rivelatoria), sintetizza così: “Se il desiderio lacera il tuo cuore, come può quello che hai letto qua e là, cose risalenti a secoli fa, convincerti che è fasullo l’amore che provi, e che questa tiritera di dogmi, cavalli e carri, è vera?”. Così viviamo oggi, e anche se nell’infinita ballata di Vikram Seth la domanda rimarrà senza risposta, la sfida è vinta, ai punti.
giovedì 23 novembre 2017
Geoff Dyer
Un’altra
formidabile giornata per mare è un reportage insolito anche per
Geoff Dyer, scrittore curioso e mai spaventato dal trovarsi
disorientato o fuori luogo. Solo che una portaerei americana in
servizio nel ventunesimo secolo è un luogo irto di ostacoli, una
struttura metallica sospesa tra mare e cielo, inattaccabile e
incomprensibile ai più. Si capisce subito che Geoff Dyer, arrivato
sulla USS George Bush inseguendo un sogno infantile, non è
nel suo elemento: brancola (letteralmente) nel buio e si aggira a
fatica negli spazi angusti della nave che, per quanto enorme, non
consente alcuna libertà di movimento, essendo “un labirinto
tridimensionale di passaggi, scali e portelli”. Il processo di
ambientazione prevede molta pazienza e la sopportazione dei limiti
delle imposizioni della vita militare e delle particolari condizioni
della routine a bordo. Geoff Dyer ammette: “Ho passato il resto del
tempo sulla portaerei a schivare e scansarmi o, più esattamente, a
scansarmi e chinarmi”. La portaerei è un’altra galassia.
E’isolata, autoreferente, claustrofobica, anche se è una città
che galleggia nell’oceano. Quello che succede è solo lì, nel
presente e nell’immediato annunciato ogni mattina proprio dallo
slogan Un’altra formidabile giornata per mare. E’ sempre
in emergenza perché ospita mostruosità tecnologiche e tonnellate
d’acciaio sempre in movimento e, va da sé, è una polveriera. E’
difficile viverci dentro, perché gli spazi sono limitati e dove non
sono limitati sono i posti più pericolosi del mondo, il deposito
delle armi, l’hangar e soprattutto il ponte di volo, dato che “non
solo la portaerei era un altro mondo: il ponte di volo era un mondo a
parte rispetto al resto delle portaerei. E tutto quanto succedeva
negli altri punti della portaerei aveva un significato e
un’importanza solo rispetto a quello che succedeva lì. Tolti il
ponte di volo e gli aerei non restava che una nave enorme”. Come
sia finito e cosa ci faccia Geoff Dyer sulla portaerei non è chiaro,
neanche quando prova a spiegarlo nel dettaglio: “Da piccolo ho
amato la guerra e i soldati. Da studente, ormai libero da
quell’infatuazione sanissima, la mia vita ha cominciato a prendere
il contrario di una piega militare nel senso che, grazie a una
combinazione di ambizione passiva e di fortuna, sono diventato, come
dicono gli adulti, capo di me stesso. Liberato dalla catena di
comando dell’ufficio, ho acquisito uno strano genere di
autodisciplina, del tutto simile all’autoindulgenza, che è diventa
una seconda natura. Ma nei pomeriggi in cui non riuscivo a scrivere e
nelle sere in cui non sentivo nessun obbligo a provarci, ho letto
sempre di più sulle forze armate, accrescendo il fascino per un
mondo che era l’esatto opposto del mio”. La portaerei diventa
un’occasione per parlare di se stesso attraverso un filtro
singolare, “un regno di poesia accessibile solo a chi ha una
visione del mondo basata sulla tecnologia, il sapere e il calcolo
anziché sulla meraviglia stupefatta”. Geoff Dyer, per quanto
impacciato, se la cava con una congrua dose di ironia e questo
traspare benissimo nella parte conclusiva delle sue Cronache da
una portaerei, quando ormai sta per ripartire: “Insomma, eccomi
lì, un turista con il taccuino, un antropologo marino i cui dati si
mischiavano in modo così totale e distorto agli strumenti per
procurarseli che probabilmente non avevano alcun valore come dati ma
solo come ricordo o come raccolta di istantanee di una vacanza senza
macchina fotografica”. Il suo bilancio è onesto e sincero nel
valutare Un’altra formidabile giornata per mare: in fondo è
un coraggioso tentativo di comprendere una realtà complicata e
spigolosa, ma i risultati conseguenti, tutto sommato gradevoli e
interessanti, sono anche abbastanza relativi.
mercoledì 22 novembre 2017
Jean Echenoz
Uno
dei più importanti architetti francesi, Jean Nouvel, sostiene che
“un edificio deve saper comunicare le inquietudini di un’epoca”.
Una definizione che collima alla perfezione con L’occupazione
del suolo: il
ritratto di Sylvie Fabre, un enorme murale pubblicitario esposto al
vento, alla pioggia, agli elementi naturali (e non) è quasi un’opera
di landscape art che deve assorbire quell’aria, quel clima,
quell’atmosfera, in cui “per negligenza o per volontà, si
lasciava deperire lo spazio”. E’ tutto quello che rimane di lei
al padre e al figlio Paul e quando la costruzione di un
nuovo palazzo va a coprire il dipinto, i tentativi di restargli
vicino, di vederla ancora, determinano anche la consapevolezza di ciò
che non si vedrà più perché come diceva un altro grande
architetto, Bernard
Tschumi, “un oggetto di architettura non è architettonico perché
seduce o perché adempie a qualche punizione pratica, ma perché
mette in moto l’inconscio e le operazioni di seduzione”.
L’occupazione
del suolo
in sé non è meno attraente dell’immagine dipinta sul muro, ma è
il contesto di Parigi e della sua evoluzione a determinare i
movimenti principali, le scosse che arrivano a mostrare nuovi profili
e nello stesso tempo a oscurarne altrettanti. Il segreto, neppure
tanto invisibile nel minuscolo capolavoro di Jean Echenoz, sta
proprio nel trascrivere le emozioni dello sguardo per quelle
variazioni architettoniche. La sensazione sembra quella
descritta negli stessi anni da Jean Vautrin: “Ecco cosa ho visto,
ma nessuno è obbligato a crederci”. E’ un punto ben preciso
sulla mappa. L’occupazione del suolo, è delimitata da quai
de Valmy che corre lungo il canale Saint-Martin, il santo dei
traslochi, e lì, sul suo fondo “si
trovavano troppo poche armi del delitto, gli unici scheletri erano
armature di sedie di ferro, carcasse di ciclomotori. Per il resto,
solo cerchioni e pneumatici scompagnati, marmitte, manubri; la
proporzione di bottiglie vuote sembrava normale, in compenso la
quantità di carrelli di ipermercati rivali era sconcertante”.
La vocazione del cantiere è innata perché la via, in origine, quai
de Louis XVIII, si sviluppa proprio per la costruzione del canale, a
cui è legata in modo indissolubile. In quegli anni Parigi è tutta
un cantiere verso il futuro, un’onda lunga partita dal Beaubourg e
culminata nella costruzione dell’Institut du Monde Arabe, della
Villette e della Cité des Sciences et dell’Industrie, ma come
scriveva Edmond Jabès, contemporaneo a Jean Echenoz, “la tua città
è un miraggio. La terra, rispetto all'universo, un uccello perduto,
dalle ali troppo fragili per sfidare, sola, l’ignoto. Cammina su
questo pianeta così maneggevole che un niente lo fa girare. Dove
sei? Caduto nella trappola del reale e dell’inverosimile. Cercando
l’uscita”. Padre e figlio restano impigliati proprio lì: quando
di Sylvie Fabre rimane soltanto la pubblicità di un profumo, non
sfugge il simbolismo, anche se Jean Echenoz la tratta con gentilezza.
L’icona prende vita non per le necessità del commercio, ma per la
nostalgia, per il vuoto che ha lasciato e che ha fatto implodere i
legami famigliari. Il pellegrinaggio davanti alle inarrivabili
dimensioni di Sylvie Fabre è il tema costante di un racconto che ha
il ritmo della ballata di uno chansonnier, ma con un sottofondo
minimalista di rumori e distorsioni impercettibili, che disturba quel
tanto che è giusto. La declinazione dei tempi è enigmatica e l’uso
del condizionale un’incongruenza perfetta nello stile perché rende
benissimo l’idea di un tempo transitorio, dove L’occupazione
del suolo genera distorsioni significative nella percezione dei
luoghi perché “basta un oggetto per avviare una catena, se ne
trova sempre uno che sigilla ciò che lo precede, colora ciò che
seguirà, così, al normografo, l’avviso del permesso di
costruzione. Poi è tutto molto rapido, qualcuno probabilmente si è
venduto l’anima assieme allo spazio, c’è il buco”. Sì,
L’occupazione del suolo è la dimostrazione che in poche
parole (una trentina di splendide pagine) si può dire tutto.
lunedì 20 novembre 2017
J. G. Ballard
Cocaine
Nights è un romanzo importante e, per certi versi
indispensabile, perché è l’unico, negli ultimi anni, ad esplorare
in modo così esplicito ed incisivo il nostro futuro. La fantascienza
non c’entra nulla: anche se non si sono indicazioni specifiche,
Cocaine Nights è proiettato in un tempo che vede l’oggi
come passato prossimo e in un luogo, la spagnola Costa del Sol, che
per la sua vicinanza a Gibilterra, vale soprattutto quale paesaggio
metaforico, un’ambigua zona di confine. L’atmosfera generale, la
zuppa in cui J. G. Ballard intinge le sue intuizioni, è quella di
una comunità che dispone di quantità illimitate di tempo libero,
prospettiva che più di un sociologo si sentirebbe di controfirmare:
la televisione non è più sufficiente, la noia è sempre in agguato,
la voglia di vivere (e quindi: di consumare) potrebbe venir meno con
danni irrimediabili all’industria dell’intrattenimento, del
turismo, dello spettacolo, della pubblicità. Non ci sono in gioco
soltanto incalcolabili interessi economici, ma anche tutta la
complessa rete di rapporti, valori, tradizioni e convenzioni,
idiosincrasie e contraddizioni che fin qui hanno retto quelle
strutture (politiche, industriali, commerciali) che nessuna
rivoluzione è riuscita né a capire né, di conseguenza, a
rovesciare. Nelle propaggini di Cocaine Nights J. G. Ballard
scopre una sorta di accelerazione di questa decadenza, un impulso
all’autodistruzione per tedio che ha nella bucolica enclave di
villaggi turistici e campi da tennis,della Costa del Sol ha il suo
humus ideale. La risposta, per mantenere lo status quo, è
paradossale, ma comprensibile: trasgressione. Sesso, droga, soldi
sono gli stimoli adatti e cominciano a incuriosire sempre di più la
popolazione della Costa del Sol mentre le inevitabili
controindicazioni (microdelinquenza, tossicodipendenza, truffe e
derivati) diventano altrettante fonti di guadagno: sistemi di
sorveglianza, cliniche private, casinò, riciclo di denaro. Cocaine
Nights è molto lucido nel rivelare una perversa idea di
ingegneria sociale: il suo caos stratificato, il suo progettare una
vitalità con l’ambiguo supporto di vandalismi, furti, danni e
aggressioni, cresce dove “il crimine e la creatività vanno di pari
passo, e l’hanno sempre fatto. Maggior è il senso del crimine,
maggiore è la coscienza civica e più ricca la civiltà. Non c’è
nient’altro che faccia da collante in una comunità”. Una
percezione confermata altrimenti anche da Don DeLillo: “Considero
la violenza contemporanea una specie di risposta sardonica alla
promessa di appagamento consumistico. Uomini che non possono uscire
dalle loro minuscole stanze e devono organizzare la loro disperazione
e la loro solitudine, devono cercare un destino per disperazione e
solitudine e spesso finiscono per farlo con mezzi violenti. Vedo
questa disperazione nei pacchetti dai colori sgargianti e nella
felicità del consumatore e in tutte le promesse che la vita del
consumo ci fa giorno per giorno e minuto per minuto ovunque andiamo”.
Capace di trasformare un’esile trama noir in un’acuta
osservazione del presente, dove tra crimine e vittime le distanze si
sono affievolite, con Cocaine Nights J. G. Ballard tocca molti
nervi scoperti e, fin dall’incipit (strepitoso) ricorda che quella
frontiera l’abbiamo passata tanto tempo fa.
venerdì 17 novembre 2017
Derek Raymond
Nella
personale vicenda di Derek Raymond, eccellente scrittore e
straordinario outsider, Quando cala la nebbia rossa ha un
valore e un sapore del tutto particolari perché è l’ultimo
romanzo a cui ha lavorato e che aveva finito soltanto qualche mese
prima della sua scomparsa. Un finale di partita convulso in cui si
ritrova tutto il disastrato paesaggio umano caro a Derek Raymond, a
partire dagli sbirri della Factory e dal loro universo senza
speranza. L’aspetto poliziesco, nonostante l’intensità della
trama che coinvolge i servizi segreti di mezzo mondo, tutti i
bassifondi della polizia e dell’umanità londinese, scivola
episodio dopo episodio, battuta dopo battuta (e ci sono dialoghi che
bruciano come la canna di un revolver) in secondo piano, come se
fosse una traccia da cui partire piuttosto che un punto d’arrivo.
Tutto comincia con un furto che tanto banale non è trattandosi di un
blocco di passaporti britannici nuovi di zecca. Il loro valore,
piuttosto elevato, non è niente confronto al vaso di Pandora che il
furto scoperchia e da cui salta fuori una congregazione
internazionale di spie sulle tracce di un intero arsenale, ivi
comprese un paio di testate nucleari. Sarà un piccolo delinquente,
uno dei tipici perdenti tratteggiati da Derek Raymond, a dover
trovare il bandolo dell’apocalittica matassa. A parte un
collegamento immediato con Aprile è il più crudele dei mesi,
la firma di Derek Raymond è una sorta di garanzia assoluta: una
scrittura tagliente, spietata, a tratti persino dolorosa che mette il
genere umano di fronte alla sua disperazione, visto che “se si
venisse a sapere come stanno le cose, correrebbero tutti a
nascondersi nei bunker, sempre che ce ne siano”. Senza mezzi
termini, senza alcuna concessione ed è proprio quest’onestà il
tratto principale del suo stile, tra l’altro lirico e preciso, che
consente di toccare con mano la disperazione di Gust, ovvero del
protagonista di Quando cala la nebbia rossa. Delinquente tanto
infinitesimale e irrilevante quanto irriducibile, Gust dovrebbe
diventare il perfetto capro espiatorio di un complotto stratificato,
le cui finalità, come in ogni complotto che si rispetti, sembrano
non aver data di scadenza. Gust è la vittima sacrificale che va bene
a tutti perché non conta nulla, se sbaglia respiro finisce di nuovo
in galera ed è già bruciato in partenza. Per il ruolo che gli è
stato assegnato, non serve altro, ma, come ha insegnato qualcuno,
essere perdenti è un lavoro a tempo pieno, e allora Gust si ribella
cercando di salvare il futuro del mondo soltanto perché, intanto,
deve salvarsi il suo, di destino. E’ un loser che non ha nulla da
perdere e provoca una reazione a catena in cui Derek Raymond sembra
persino divertirsi a posare le statuine dei suoi presepi:
psicopatici, disillusi, folli, coraggiosi, tragici esseri umani che
si trovano a fare sempre le stesse, identiche mosse da una parte o
dall’altra di una trincea chiamata vita e che Quando cala la
nebbia rossa possono soltanto immaginare di limitare i danni. Il
suo mondo, per l’ultima volta.
giovedì 16 novembre 2017
Ricardo Piglia
Partendo
dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa
più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di
autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare
figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo
corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che “la
lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa
venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà.
Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio
dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il
sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione
è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti
immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca
nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che
legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena
di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un
thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è
proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif
Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando
dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il
destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo
essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che
non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che
vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o
poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai
libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste
sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come
in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si
ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima
solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché
“chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale”
e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il
mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di
costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è
triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste
tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in
quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora
si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da
Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che
Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un
modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va
costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima
bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro
universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per
meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto
accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un
libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico
nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”.
Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un
viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo
il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere
errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un
po’ più fortunato.
mercoledì 15 novembre 2017
Árni Thórarinsson
Essendo
un’isola, l’Islanda è un ecosistema chiuso e concluso su se
stesso e si riflette nella vita dei suoi abitanti. Nello stesso
tempo, nonostante la distanza, l’Islanda non è dissimile dal resto
del continente europeo alle prese con crisi economiche, speculazioni,
violenze, abusi. I problemi di ogni altra nazione di questo mondo.
Anche a nord del paese, le tensioni risentono di tutti questi
elementi, in contrasto con la vita al rallentatore e i ritmi
bucolici. Einar, giornalista della capitale islandese viene spedito
ad Akureyri, una cittadina settentrionale che non raggiunge i
ventimila abitanti, dove un vento appena più forte della brezza
sarebbe già una notizia. Retrocesso a cronista di provincia, Einar
pare sempre all’ultima spiaggia nei suoi rapporti: con il giornale,
con la figlia (si intuisce una separazione, alle spalle), con la
solitudine, con l’alcol (a cui deve rinunciare) e con la sigaretta,
che consuma sempre come se fosse l’ultimo desiderio del condannato.
Messo così, è normale che affronti tutti gli ostacoli con
riluttanza. Mentre cerca un modus vivendi con un insopportabile
caporedattore centrale votato alla carriera e uno locale con cui non
si capisce, ad Akureyri tre persone muoiono in circostanze non
proprio naturali: una donna affoga durante una stupida discesa di
rafting con i colleghi per rafforzare lo spirito aziendale, una
ragazza si suicida e uno studente, appassionato attore e aspirante
regista, viene trovato carbonizzato. La trasferta comincia a farsi
movimentata: Einar trova un appiglio su cui concentrarsi, un posto
dove stare e da cui elaborare strategie di sopravvivenza. E’ un
osservatore meticoloso, distaccato, un investigatore istintivo e
maniacale, solo che ci mette un bel po’ ad arrivare la punto
giusto. Lento e caparbio, ha la tendenza a cercare e a ricostruire
l’intero quadro: le vittime, i colpevoli, il contesto, i moventi, i
precedenti, gli innocenti. Sono tutti importanti, nello stesso modo,
solo che è difficile spiegarlo e a Einar non sfugge la confusione:
“Tendenze sessuali, etnia, razza, pelle, nazionalità, culto.
Quando sono in ballo questioni del genere, la gente spesso confonde
le questioni secondarie con quelle principali. Qualsiasi siano i
motivi”. L’omicidio, in particolare, genera una moltitudine di
scintille anche nella sonnolenta Akureyri ma l’unico disposto a
seguirle sembra essere Einar, animato dall’istinto e dalla
necessità di sentirsi ancora vivo e utile. Una condizione che
Hannes, il suo direttore editoriale, ammette così: “Forse il tuo
dubbio, a guardar bene, è se tutti noi apparteniamo davvero a questa
società. A volte ne dubito anch’io. Ne dubito profondamente. Ma
non possiamo fingere che non esista”. Il tempo della strega
è un romanzo sornione, con un andamento indolente consono al tran
tran di Einar, però sotto la finta pelle della black comedy, i toni
ironici (se non proprio comici, a tratti) scoprono le incrostazioni
spontanee del ventunesimo secolo, che sono uguali a tutte le
latitudini: fusioni aziendali che sono fallimenti mascherati,
bancarotte figlie di ruberie continue, l’attrito tra tradizioni
religiose e radici pagane, lo sfruttamento indiscriminato del
territorio e le contorsioni politiche, la noia dei giovani e
l’assuefazione degli adulti. Senza pretese moralistiche e con molto
garbo perché Árni Thórarinsson ed Einar si somigliano molto, sanno
che per vivere in Islanda, come in ogni altro luogo, serve
accontentarsi un po’.
giovedì 9 novembre 2017
Eshkol Nevo
Mentre la
Francia vince i campionati mondiali di calcio del 1998 con una
squadra cosmopolita e variopinta, quattro amici decidono, un po’
per gioco, un po’ per sfida, di cominciare una bizzarra partita con
il destino. In foglietti piegati e riposti con cura, infilano i loro
desideri più profondi che vorrebbero vedere realizzati entro e non
oltre un termine ben preciso, ovvero la successiva edizione dei
mondiali. Se l’idea parte nella condivisione della certezza che
“noi tutti sentiamo di appartenere a qualcosa solo quando siamo
insieme”, l’aver fissato una destinazione nella realtà implica
soltanto una precisione sulla carta dei calendari, ipotetica almeno
quanto la natura dei desideri. La scadenza, ogni quattro anni, è uno
spartiacque temporale, un confine invisibile e ideale tra speranze e
promesse, tra l’evoluzione delle personalità, l’incidenza
dell’età, degli imprevisti e delle probabilità. Quello che resta
è il dato concreto, e inalienabile, con cui è partito l’azzardo:
ormai scritti, i desideri resteranno lì, incidendo una linea
assoluta che rende il gioco inventato dagli amici davanti alla
televisione un rischio permanente, e inquietante. Zinedine Zidane
alza la coppa del mondo e arrivederci a quattro anni dopo. Eshkol
Nevo manovra con una certa abilità l’incrocio tra le personalità
di Ofir, Churchill, Amichai e Yuval (a cui vanno aggiunte Ilana,
Maria e Yaar) finché i desideri si realizzano, ma con una
“simmetria” (che è poi quella del titolo) sfasata rispetto alle
intenzioni, secondo trame imprevedibili, segnando la vita, i legami e
le storie degli amici. D’altra parte c’è una precisione
divinatoria se un gioco nato per caso e per scherzo davanti alla
televisione diventa un rituale rivelatorio, a cui i quattro amici
torneranno spesso a fare riferimento. Come se gli servisse a
comprendere che i desideri erano tutti giusti, ma al posto sbagliato,
mentre le tracce delle loro vite venivano segnate, anno dopo anno, da
quella che Eshkol Nevo chiama “incostanza dei sentimenti”. Come
era facile intuire, la partita è persa fin dall’inizio. La
difficoltà di far coincidere i legami e i rapporti con i propri
desideri non è l’unica che devono affrontare i quattro amici. Si
devono destreggiare anche con le proprie famiglie, con una vita
quotidiana fatta di guerra e di violenza, con città evanescenti e
notti surreali. Si devono confrontare anche con le fragili
intersezioni di un’amicizia con l’altra, dove, come capita
regolarmente nella realtà, il tradimento, l’assuefazione, il
sospetto e la confusione prolificano in modo esponenziale. “Se è
tutto sbagliato da cima a fondo, che almeno si tratti di un errore
maestoso” scrive Eshkol Nevo e, senza forzare i toni, anzi
piuttosto con garbo, misura e discrezione, conduce il romanzo in
porto. Solo che sua “simmetria” più che geometrica deve essere
stata matematica. Il segnale che giunge è che, pur di giungere alla
stessa somma, quell’insieme, che è poi il “desiderio” più
importante, vale la pena scambiare i ruoli, magari in attesa dei
prossimi mondiali.
mercoledì 8 novembre 2017
Paulina Chiziane
David,
dirigente d’azienda nel Mozambico rivoluzionario, sente che il suo
posto è a rischio e ricorre alla magia per preservarlo, sapendo che
“nessuno sale in alto con la carità” e che “il potere obbliga
l’uomo a scendere nel sudiciume più profondo”. Gli avvisi di
indovini e fattucchiere che consulta non servono a frenare la
maniacale ambizione di David che, innescando una serie di eventi
incontrollabili, lo condurrà lui e la sua famiglia, a partire dalla
moglie Vera, a scoprire il proprio destino. Magia bianca e nera,
conflitti sociali e guerre civili: Paulina Chiziane sviluppa
circostanze di un’intensità inusitata senza nascondere le proprie
sensazioni, i propri giudizi (“Lo spargimento di sangue è
premeditato, pianificato, con un’intenzione benefica e un nobile
progetto. Le vite sono capelli, dicono i guerrieri. Se ne tagliano
pochi e ne nascono molti, più forti e più sani. Ci sono ogni giorno
meno scuole, meno lavoro, meno pioggia, più fuoco, più sole, più
armi. Ci sono più morti che vivi, ma ancora non è arrivata la fine
del mondo, la vita trionferà, per la gloria del vincitore. Il
campione di questa guerra costruirà il maestoso palazzo imperiale
con ossa umane come se ne vanno in giro a tonnellate nei boschi”) e
imprimendo alla trama, alla storia un ritmo travolgente. Anche i
personaggi, a partire dal protagonista, David, sono combattuti e ben
definiti (“Ogni vincitore viene vinto dai suoi crimini. La terra
non sarà mai proprietà degli uomini”) con una percezione che è
sempre provocazione, come fa notare Lourenço: “Sono un eroe. Agli
eroi è permesso uccidere in nome di qualsiasi utopia: democrazia,
libertà, indipendenza. Io non ho ucciso nessuno, ho rubato nel nome
di una realtà molto concreta. Le mie tasche. Sono di gran lunga il
più santo degli eroi. Ho le mani pulite. Sono la persona più
innocente di questo mondo”. La storia,
sospesa tra un’intricato trama di tradizioni e magia e un acuto
realismo, è avvincente. Paulina Chiziane sembra condensare con Il
settimo giuramento secoli e secoli di
tradizioni africane, ma anche l’influsso delle culture europee,
imposizioni coloniali e rivoluzioni comprese. La composizione
potrebbe sembrare ardita e caotica, solo che la voce di Paulina
Chiziane è forte, senza remore, rende alla perfezione le motivazioni
che portano David verso Il settimo giuramento
e le sue inevitabili conseguenze: “Morale vuol dire essere deboli,
piccoli, inferiori. Immorale vuol dire odiare, rompere gli equilibri.
Risvegliare. Far vibrare. Vivere. Vuol dire fare la guerra. Vincere
la guerra. Vuol dire trasformare i più deboli in polvere e nulla.
Senza odio né tirannia non sarebbero state costruite le piramidi
d’Egitto, né le strade, né i ponti, né le ferrovie, né i
monasteri, e anche l’America non si sarebbe sviluppata a costo del
sudore dei neri. Le trasformazioni hanno bisogno di un movimento,
figlio dell’odio”. L’adesione che Il
settimo giuramento richiede è quella. Il
prezzo da pagare va scoperto in fondo a un romanzo intenso e
suggestivo, a tratti crudele e spietato, sempre sorprendente.
lunedì 6 novembre 2017
Omar Cabezas
E’
giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e
ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle
montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà
per uno studente universitario, che si rende necessario perché la
montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un
linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha
scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte
l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che
rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla
montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in
sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e
ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano
quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La
resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio
dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica,
della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è
un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre
sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire
alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano
carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di
latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel
fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita
di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di
tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la
pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro.
La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i
riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri
ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si
acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco,
della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a
scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue
descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il
classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma
emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era
solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi,
accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora,
finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa
prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa
apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta
pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa
inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove
lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa
è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il
futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi
sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena.
Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in
montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro,
prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero.
Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando
passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo
incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che
il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci
evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu,
rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.
domenica 5 novembre 2017
Ian McEwan
C’è
una scena, all’inizio, un po’ surreale: una mongolfiera in
difficoltà, un gruppo di uomini coinvolti all’improvviso dalla
casualità e nello stesso destino, lo sfondo bucolico della campagna
inglese. Sembra “l’avanzo di un ricordo”: la mongolfiera è
simbolo di una certa leggerezza e un dei protagonisti si accorge che
“come il personaggio di un sogno vivevo al tempo stesso in prima e
in terza persona. Agivo, e mi vedevo agire. Avevo dei pensieri, e li
vedevo su di uno schermo. E come in un sogno, le mie reazioni emotive
erano inesistenti o inadeguate”. Nel movimento corale una domanda
rimane sospesa nell’aria, proprio come la mongolfiera: “Verso che
cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in
fondo”. Nell’incipit, Ian McEwan sfoggia uno dei suoi migliori
esercizi di stile e costruisce il momento con precisione geometrica,
rivisitandolo da più angolazioni e senza trascurare il minimo
dettaglio, sapendo che “viviamo avvolti dentro una nebbia
percettiva in parte condivisa, ma inaffidabile, e i nostri dati
sensoriali ci arrivano distorti dal prisma di desideri e convinzioni
che alterano persino i ricordi”. E’ in uno di quei particolari
che, affiorando nitidi, scatenano il motivo di fondo che anima
L’amore fatale: Joe Rose si ritrova ad essere l’oggetto
del desiderio di Jed Parry, un allucinato di primissima categoria, la
cui mente è offuscata una patologia erotica che associa religione e
amore. Ne segue una vera e propria persecuzione che mette in dubbio
la vita stessa di Joe Rose (giornalista scientifico con non poche
contraddizioni nascoste) e della compagna, Clarissa, fino al convulso
finale, non privo di colpi scena (appendici comprese). Qualcuno ha
voluto vedere in L’amore fatale una testimonianza delle
nevrosi spirituali moderne, a partire dalla new age, ma niente di
tutto ciò ha una ragione d’essere perché l’acqua in cui
galleggia Ian McEwan è quella delle nostre ossessioni quotidiane,
delle paure e delle idiosincrasie di tutti i giorni, che in sintesi
sono riassunte così: “L’oggettività spietata, specie riguardo a
noi stessi, è sempre stata una strategia sociale funesta.
Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per
convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se
stessi. Nel corso delle generazioni, il successo ci ha selezionato
lasciandoci inciso nei geni, però, il solco profondo del nostro
peggiore difetto: se qualcosa non risponde ai nostri difetti siamo
portati a negarne l’esistenza. Credere coincide col vedere”. Ian
McEwan legge L’amore fatale, più che scriverlo, lo dipana
con grande maestria, come se il romanzo fosse già esistito in
origine, non frutto di un’elaborazione. L’unico calcolo di Ian
McEwan riguarda la prospettiva, il punto di vista, come se il lettore
dovesse vedere più che leggere, di conseguenza è consentita una
partecipazione a distanza, anche se Ian McEwan non trascura nulla e
non lascia niente al caso. Per certi versi, L’amore fatale è
opposto e strettamente complementare a L’informazione di
Martin Amis: entrambi colgono, da prospettive differenti, alcune
delle inquietudini più significative dei nostri tempi, con uno stile
letterario destinato ad assumersi, come scriverebbe John Keats,
un’ombra di grandezza. L’autore dell’Hyperion non è
estraneo a L’amore fatale perché oltre ad essere al centro
degli studi di Clarissa (professione: docente universitario) viene
regolarmente citato nei tratti salienti del romanzo, come se fosse
una chiave di volta per l’interpretazione delle intuizioni di Ian
McEwan. Un verso dell’Hyperion stesso sembra dare
un’indicazione molto interessante in merito: “Il poeta e il
sognatore sono distinti, diversi, meri opposti, antipodi. L’uno
riversa un balsamo sul mondo, l’altro lo inquieta”. A Ian McEwan,
quale che sia la categoria di appartenenza, per inquietare il mondo
basta osservarlo e descriverlo minuziosamente, con precisione
matematica, con uno stile che ha pochi eguali tra i suoi
contemporanei e con quelle intuizioni pazzesche che rendono grande e
unico un libro come L’amore fatale.
martedì 31 ottobre 2017
Derek Raymond
Interni
ed esterni di una famiglia aristocratica inglese negli anni sessanta:
una decadenza inarrestabile che si trascina in un folle e amaro
vortice di solitudine, disperazione e distruzione: anche se non è
uno degli episodi della Factory, la saga per cui è diventato
giustamente famoso, Atti privati in luoghi pubblici è a pieno
titolo un romanzo degno della visione narrativa di Derek Raymond, che
qui si applica a mondi che ha conosciuto in prima persona, ovvero
quelli dell’aristocrazia e della pornografia. L’associazione
autobiografica deve aver avuto un peso specifico non relativo, vista
l’acidità con cui viene trasmessa dallo stesso Derek Raymond.
Tutto si svolge all’ombra della Swingin’ London, un momento che,
messi da parte miti e leggende, viene inquadrato così: “L’ottanta
per cento della popolazione britannica stava mollo nell'ignoranza e
nella miseria, nell’infelicità, nell’anno di grazia 1967,
semplicemente perché il denaro non arrivava nelle loro tasche, o
perché non avevano il tempo di fare buon uso di quello che
guadagnavano, o le due cose insieme”. E’ quello il contesto in
cui un manipolo di rampolli di buonissima famiglia si lascia andare
alle deviazioni rispetto all’ipocrisia imperante, senza accorgersi
di essere finiti nell’inevitabile cul de sac. Viper e Mendip si
sono scelti un ramo aziendale insolito e piuttosto torbido (tengono
insieme una serie di sexy shop) e, se non altro, tutto sommato almeno
un senso degli affari l’hanno mantenuto. Le sorelle (e loro cugine)
Lydia e Beatrice invece hanno manifestato tutto il loro dissenso
verso le tradizioni, i riti e i codici della famiglia. Lydia si è
dedicata alla più completa dissoluzione del corpo e della mente (“La
noia, se ne rendeva conto, in lei occupava il posto di tutte le
passioni. La noia era al contempo rabbia, gioia, amore, piacere dei
sensi, in lei”), passando dai film pornografici alla prostituzione;
Beatrice si è rinchiusa in soffitta a studiare Marx ed Engels, sommo
sfregio all’aristocrazia famigliare, insieme al fatto (ancora più
grave) che si degna di pranzare e cenare soltanto con la servitù.
Una serie di eventi li porteranno tutti quanti (una bella compagnia,
tutto sommato) nella ricca villa di famiglia. Nello scenario della
bucolica campagna inglese, tra scenate irripetibili (“L’avidità
era il loro comune terreno d'intesa. L’arroganza il loro comune
linguaggio”), clamorosi colpi di scena e un intero catalogo di
follie si consumerà, per intero, il dramma di un declino squallido,
travolgente e spietato. Gli Atti privati in luoghi pubblici sono
fotografati in modo molto lucido e convincente da Derek Raymond.
Domina, incontrastato, il suo tratto spigoloso, tagliente che non
concede nulla ai suoi personaggi se non una lunga, cupa e atroce
discesa negli inferi che si sono creati. Nessun luogo comune, nessuna
pietà e nessun effetto speciale: a Derek Raymond basta e avanza la
sua geniale idiosincrasia verso il genere umano per arrivare fino in
fondo. Senza scampo, senza via d’uscita.
lunedì 30 ottobre 2017
J. G. Ballard
In un
grattacielo smisurato e proiettato tanto nel cielo quanto nel futuro,
i rapporti tra i condomini regrediscono fino a tornare alle esigenze
primordiali della sopravvivenza: aggressività, autodifesa, caccia
all’uomo. Lo sviluppo è lineare almeno quanto la struttura
verticale del grattacielo, “un’immensa macchina progettata per
servire non la collettività degli inquilini, ma il residente
individuale e isolato”. Metafora di tutta la nostra vita
quotidiana, straordinaria visione di un futuro che è già presente,
nel condominio di J. G. Ballard le classi sociali sono divise dai
piani e dagli ascensori, ma ad un certo punto tutto ciò che dovrebbe
essere garantire l’individualità e la privacy nella vita comune
diventa un territorio di scontri brutali, che nascono dalle esigenze
più elementari: la tutela del territorio e dei piccoli, la fame e
altri appetiti (quelli sessuali, principalmente), la sopravvivenza
tout court. La riduzione del tessuto sociale ai limiti
dell’animalesco non è tutto, perché l’ombra del condominio
svela l’ipocrisia, l’indifferenza, l’abulia visto “nonostante
l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di
tali accadimenti. La routine della vita continuava come prima, si
andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In
qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice
logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle
esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero
dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che
fare con l’ennesima incursione aerea”. Il
condominio, con la sua brutale architettura
di quaranta piani per mille appartamenti è verticale verso l’alto
ed è anche un precipizio. Diventa un incubo claustrofobico, teso e
snervante che introduce il lettore in un’atmosfera ambigua e
inquietante perché il caos del condominio è il nostro (nuovo)
ordine quotidiano, uno stillicidio di violenze piccole e grandi di
cui, proprio come gli inquilini di J. G. Ballard, non riusciamo a
tener conto. La “sfida alla realtà delle cose” è tutta
dell’avvicinarsi ala cronaca quotidiana. Mentre Il
condominio, con il progredire della storia,
comincia una vita tutta sua e diventa un soggetto indipendente, lo
specifico tipo di violenza che pervade i suoi abitanti è qualcosa di
inedito e incontrollabile. Lo spunto, polemico se si vuole, del
condominio è proprio lì, più che nella cupissima trama: è
l’incapacità di vedere quello che ormai non si può più
nascondere, è la forza dell’abitudine che impedisce di fiutare il
peggio, è la stratificazione (sociale, politica, umana) che ad un
certo punto, questione di tempo, collassa. Nell’intimo, nelle
soggettività più che nella collettività, come fa notare Ballard,
senza ipocrisie: “E’ un errore pensare che stiamo tutti
spostandoci verso uno stato felice di primitivismo. Qui il modello
non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé
post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da
un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione
per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale... Una miscela
ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare
i nostri antenati vittoriani”. Il condominio
è un grande romanzo perché racconta, da dentro, dall’intestino,
le ultime metamorfosi di una civiltà decadente, la nostra, e di
un’umanità che, nonostante l’evoluzione della specie, è ferma
ai suoi istinti animaleschi. Attualissimo, e sempre sorprendente, è
l’istantanea di un futuro già esaurito.
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