mercoledì 5 maggio 2021

Sadeq Hedayat

In uno dei tanti incontri che popolano L’ultimo sorriso, episodio centrale che illumina Il randagio e altri racconti, Sadeq Hedayat declina la sensazione “che la musica avesse conferito un’anima speciale alle immagini sul muro, che ora avevano preso vita”. Questo giocare con il chiaroscuro, che resta la sua dote principale e la cifra assoluta del suo capolavoro, La civetta cieca, si associa qui a una progenie di drammi umani. Sadeq Hedayat è un maestro nel dipanare gli equivoci che alimentano Vortice o Gerdab e Haji Morad, in cui i personaggi sono annodati da legami invisibili che inducono a eventi che pesano tragicamente sulla vita. Gli stessi protagonisti si muovono come spettri negli anfratti di quello che non viene detto. Ogni racconto ha un personaggio che deve affrontare il il sospetto, la vendetta, l’invidia (succede ad Abji Khanum), le faide (“Tutti a Shiraz sapevano che Dash Akol e Kaka Rostam erano così nemici che avrebbero sparato pure alle reciproche ombre”) e gli intrighi. I complotti politici che avvelenano L’ultimo sorriso, non sono meno di quelli sentimentali che poi vengono concentrati attorno alle formule del matrimonio dove l’ambiguità (maschile e femminile) ha modo di espandersi e di implodere. Esemplare, in questo senso, lo svolgimento di Muhallil o Il pluridivorziato, dove il ruolo di Robadeh, una sposa bambina, si fa via via imperioso e risolutivo. Nelle trame di Sadeq Hedayat le sorprese non mancano: quello che Il randagio e altri racconti condividono sono le atmosfere di un Iran preindustriale e cosmopolita, con la vita, privata e sociale, che si svolge tra il bazar e il quartiere, ma dove “non c’è più niente che sia benedetto dalla sorte”. Il tratto comune è un’estrema povertà, condensata nell’idea che “il nostro tempo è finito, come dicono le vecchie ciabatte, siamo vivi perché non abbiamo il sudario”. Una condizione vissuta con una dignità profonda, sorretta e articolata da una pletora di celebrazioni, riti e tradizioni. Una cultura risalente a “mille anni prima”, un retaggio solido e stratificato che è nello stesso tempo caposaldo e prigione, rifugio e castigo, tanto è vero che la scrittura di Sadeq Hedayat è permeata di proverbi e canzoni, è popolare e popolana nella rappresentazione ma anche estremamente raffinata, asciutta e rarefatta nel suo formularsi racconto dopo racconto. Con alcune eccezioni, che si svolgono altrove, rispetto all’Iran rurale e sperduto dei villaggi, come La bambola dietro la tenda, espressione simbolica e surreale di una condizione femminile tutta da esplorare e in cui “la vita stessa era illusoria, artificiale, priva di senso” e Il Don Giovanni di Karaj, testimonianza di un Capodanno danzante dove il protagonista scopre, già dal memorabile incipit, che “ci sono persone che diventano intime già dal primo incontro, o come dice il detto popolare, asola e bottone, e non si dimenticano più l’uno dell’altro fin dalla prima presentazione. Mentre altri, nonostante vengano presentati più volte e si incontrino spesso, si evitano accuratamente. Niente simpatia o compassione reciproca per loro. E se per caso si incrociano per strada, fingono di non essersi visti. Amicizia inspiegabile, inimicizia anche”. Ancora più estremo è Il randagio, una piccola parabola che vede un cane fuggire dal suo padrone, travolto dall’istinto, e finire in mezzo alla strada, con un’espressione emblematica e malinconica “qualcosa che si può cogliere solo nel muso di un cane randagio”. Manca un capitolo rispetto all’originale selezione che doveva comporre Il randagio e altri racconti perché Anna Vanzan, iranista e islamologa che già aveva tradotto La civetta cieca, è scomparsa alla fine del 2020 e qui, in perfetta simbiosi con le atmosfere di Sadeq Hedayat, insieme  all’assenza si celebra il ricordo.

lunedì 3 maggio 2021

Bruce Chatwin

L’Afghanistan come non l’avremmo più visto: nell’estate nel 1969, Bruce Chatwin lo attraversa inseguendo le tracce elleniche e la leggenda del tesoro di Fullol. Con lui c’è Peter Levi che descrive così il suo compagno di viaggio: “L’Afghanistan è abbastanza distante e straordinario e non si può essere così stupidi da viaggiare da soli. C’erano amici di cui desideravo fortemente la compagnia e attraverso i cui occhi avrei voluto vedere molto di più. Ma risulterà ovvio da ogni pagina di questo libro che sono stato estremamente fortunato a viaggiare con la compagnia che ebbi. Le migliori osservazioni in questo viaggio e le migliori battute vengono da questo compagno di viaggio; era lui ad essere interessato ai nomadi, che mi disse di leggere Basho, lui che aveva fatto tutte le ricerche giuste sui soggetti che interessavano me oltre che su quelli che lo riguardavano, lui che conosceva i nomi dei fiori e che capiva la storia dell’arte islamica. Questi sono veri e propri lussi; ma il mio compagno era perfino meglio nelle virtù quotidiane, senza le quali ci saremmo arresi subito, in un viaggio in cui uno deve essere instancabile, estremamente paziente, aperto, simpatico e con un talento speciale per la conversazione o il silenzio”. Più che alle mappe o alle speculazioni, Bruce Chatwin si affida a una sensibilità epidermica ma sincera: al cospetto dei sessantacinque metri del minareto di Jam (“Si eleva contro il cielo come un razzo per la luna a tre stadi e fu costruito con la stessa esatta aspirazione”), ammette che “non si può descrivere il senso di sorpresa e stupore di fronte a questa meraviglia”. Lo sguardo vaga senza sosta condivide “l’emozione delle grandi foreste di cedro”, collegando le bellezze della natura con un’idea di arte. Il 5 agosto annota: “Le montagne sono disposte in una quiete diagonale come in Leonardo” e, non a caso, si accorge che che i copricapi tradizionali sono simili a quelli rinascimentali. Sarà solo una coincidenza, ma poi Bruce Chatwin scopre davvero i resti di una civiltà straordinaria, risalente all’età del bronzo,  unico testimone di una ricchezza che le guerre hanno fatto sparire per sempre. Con il consueto entusiasmo, scrive alla moglie Elizabeth, chiedendole di raggiungerlo a Kabul: “Il libro dovrebbe prendere la forma di un diario di viaggio con diversioni sull’aspetto del paese, sulle montagne, gli alberi, e gli uccelli. I viaggiatori dai pellegrini buddisti ai grandi conquistatori, l’architettura, soprattutto islamica, e l’arte; la complicata etnografia, i traffici dai tempi antichi fino ad oggi”. Se quel volume resterà un bel proposito, confinato nei suoi taccuini, è proprio lì che Bruce Chatwin vede il suo futuro nella scrittura. Come scrive Franco La Cecla, curatore insieme a Maurizio Tosi del Viaggio in Afghanistan, “il vero personaggio è questo infaticabile lavoratore del mondo, questo macinatore di paesaggi, di letterature, quest’uomo che si applicava con passione ai luoghi come se fossero persone. E che lo faceva sapendo di non essere un letterato ma di volerlo diventare. Non sappiamo nemmeno oggi che tipo di letterato sia diventato. È insieme un archeologo mancato, un antropologo mancato, ma anche un letterato strano e le tre cose insieme formano un complesso che ci ha avvinto, volenti o nolenti. È la sua magnifica incompiutezza che ci ha affascinato. Quella che in questo viaggio di formazione, in questa soglia che lo fa passare dall’osservazione alla scrittura, emerge con tutta la sua freschezza e ingenuità. Soprattutto emerge una cosa che ci siamo dimenticati di dire: che nonostante tutte le spocchiosità degli accademici e dei letterati, Bruce Chatwin è bravo davvero (come archeologo, studioso di civiltà, come antropologo e viaggiatore e come scrittore e critico al tempo stesso), perché ha piegato i saperi alle sue passioni di eterno adolescente”. Ci manca Bruce Chatwin, ci manca l'Afghanistan, ci manca quel viaggio.