sabato 18 aprile 2020

Neville Staple

Seguire la biografia di Neville Staple vuol dire scoprire “come un ritmo giamaicano datato, fuso con l’etica punk, ha potuto creare un sound personale che è uscito da Coventry per arrivare dappertutto alla fine degli anni settanta”. Nelle periferie inglesi, Neville Staple ci capita dalla Giamaica, ma ha un rapporto difficile con il padre, indurito dalle umiliazioni e dalla frustrazioni che devono subire gli immigrati nel Regno Unito. I contrasti sono sempre più duri finché, come ammette Neville Staple,  “passati i quindici anni, una lite feroce mi spinse a uscire di casa. Sarebbe dovuto succedere comunque, prima o poi. Eravamo entrambi rassegnati a vedere la schiena dell’altro. Mi ritrovai sul marciapiede fuori di casa, e nessuno mi chiedeva di rientrare. Era così. La fine della vita in famiglia. Non è una gran cosa lasciare il nido buttati fuori a calci in culo”. In quel momento Neville Staple diventa una “creatura della strada”, vive di espedienti, furti, fughe e sotterfugi, prima di trovare la musica. Dal canto suo precisa: “Non ero un delinquente, ma imparai da subito che in quei tempi brutali dovevi stabilire un tot di regole. Confini, potremmo dire”. Nel frattempo, con le sue radici caraibiche scopre i primi sound system e i locali notturni, con una predilezione dichiarata: “Il Locarno mi attirò a Coventry come una falena verso la luce. Ballare e scopare, per un giovane con gli ormoni che esplodevano formavano una combinazione vincente”. Un giorno apre una porta e trova gli Automatics che stanno suonando e che da lì in poi diventeranno gli Specials. Per Neville Staple comincia la metamorfosi da rude boy a musicista: comincerà come roadie, poi arriverà a cantare e a fare acrobazie sul palco, spinto dall’energia di quegli anni quando “il rock’n’roll era tornato, grazie al punk. Per me i Clash furono il miglior prodotto del punk e continuo ad amare la loro musica anche oggi. Questi ragazzi sono stati capaci di mixare punk e reggae in modi interessanti, ed era il reggae il sound verso cui andava la maggior parte della gioventù nera ai tempi”. Attraverso gli Specials, i Selecter, i Madness e tutta una logica in bianco e nero,“da una città senza speranze, ancora segnata dalle bombe di Hitler, è emerso un movimento musicale che ha avvolto l’Inghilterra mentre correva verso le esplosive rivolte del 1981”. Lo ska, insieme alla scelta grafica, associava una consapevolezza politica che aveva come sfondo una società decadente, classista e razzista e come, dice Neville Staple: “È questo il motivo per cui con la 2 Tone provammo a mettere insieme le due parti. In fondo eravamo tutti giovani della working class che cercavano di sfangarla, qualcuno bianco, qualcuno nero”. Lo ska divenne la colonna sonora di turbolenze e prese di posizione, di scontri e di solidarietà. Ricorda ancora Neville Staple: “Quando la violenza nelle strade iniziò a degenerare, cominciai a pensare che avremmo dovuto fare qualcosa per farla tornare sotto il nostro controllo. Se non avessimo buttato fuori gli skin saremmo stati sotto scacco. Non doveva succedere. Coventry era diventata una zona di guerra, con le gang che combattevano per il controllo della città, strada per strada. Se avessimo perso un centimetro, saremmo stati battuti. Visto che gli skin erano meglio organizzati e più aggressivi dovevamo rispondere alla stessa maniera. L’unica risposta adeguata era il sangue dei loro nasi e dei loro culi”. Il racconto è brioso e spontaneo, non privo di una certa irruenza, ma la ricostruzione è onesta e  attenta all’impatto sociale della musica negli anni conflittuali vissuti dagli Specials, fino alla trasformazione dei gusti e alle successive ondate di generazioni ska, sia nel Regno Unito, sia in America che nel resto del mondo, anche in tempi recenti  (“La nostra musica si adattava alla perfezione al nuovo clima. I testi parlavano senza fronzoli di quello che stava accadendo nelle strade”). Inoltre, Neville Staple confessa in pubblico amanti e relazioni, e il fatto di voler godersela (in contrasto negli Specials con Jerry Dammers, su posizioni etiche molto più rigide) lui che è cresciuto poverissimo e affamato nelle strade, ma i proventi dell’industria discografica gli permettono anche di mantenere i figli sparsi qua e là e di ritrovare la madre in Giamaica, ricordando più di tutto che “gli Specials mi salvarono da una vita da criminale”. Grezzo, ruvido, e rude boy fino in fondo, ma sincero come pochi.

mercoledì 15 aprile 2020

Matthew Ruddick

In Funny Valentine non c’è soltanto la vita di Chet Baker, che pure basterebbe da sola a riempire un tomo di proporzioni bibliche: con lui, Matthew Ruddick introduce e accompagna mezzo secolo di jazz life, con tutti gli estremi, le scoperte, le follie e le deviazioni. È un pianeta a parte con un suo fascino, decadente e pericoloso, ma avvolgente. Ma, anche lì, incredibilmente, Chet Baker resta uno straordinario outsider. È come se, per tutta la vita, abbia combattuto per liberarsi, per uscire da una prigione. Un’impressione condivisa da Hal Galper che ricordava: “Chet (Baker) era un musicista romantico, nonostante neanche una cellula del suo corpo lo fosse”. Uno scontro schizofrenico in cui l’assunzione di eroina è stato un palliativo,  diventando a sua volta un labirinto fatale. All’interno di questo schema, in gran parte inevitabile, il lavoro di Matthew Ruddick è meticoloso senza essere pedante (come spesso capita quando dietro un autore c’è anche un appassionato fan): è una narrazione dei fatti precisa e documentata e dal punto di vista musicale si mantiene su una linea accessibile, senza scadere in complicate analisi o dissertazioni musicologiche. In più, Matthew Ruddick sa di non essere il primo arrivato e infatti riprende con una certa generosità la biografia di James Gavin Chet Baker. La lunga notte di un mito, così come l’autobiografia, Come se avessi le ali, cedendo volentieri il passo ad altre voci, compresa quella di Jack Montrose che diceva: “Chet era unico, ed era abbastanza diverso dal resto delle persone che popolavano quel mondo. Non aveva alcun interesse per il business, né per quello che si lasciava alle spalle, anche in quel momento. Non sapeva neanche lui come aveva fatto ad avere successo. Non si preoccupava di nulla. Non credo fosse in grado di gestire il successo, non era in grado di gestire nulla”. In effetti, la storia sfiora sempre i contorni noir: dalla mancata sparatoria con Herb Alpert all’astio di Miles Davis, fino al quel giornale italiano che lo chiamava “il veleno del jazz”, Funny Valentine parte da lontano perché Matthew Ruddick ricostruisce i contrasti famigliari con il padre alla fonte del disagio di una vita ma poi in qualche modo la musica vince, sempre d’istinto, sempre a orecchio perché come esattamente come ha vissuto, Chet Baker ha suonato. In questo Matthew Rudnick vede ancora giusto quando scrive: “Credo ci sia qualcosa di addirittura eroico nel modo in cui Chet Baker rimase fedele ai suoi principi musicali, senza lasciarsi influenzare dalle disavventure o dai problemi della vita privata”. Gli aneddoti si sprecano. Intanto Chet Baker ricorda il suo maestro: “Bird mi trattava come fossi suo figlio. Solo oggi riesco a capire quanto disponibile e comprensivo sapesse essere. Suonava solo i brani che io conoscevo meglio ed evitava i tempi velocissimi che pure gli piacevano un sacco”. Poi dall’incontro con Gerry Mulligan, descritto in modo approfondito, attraverso le notti di Parigi e lungo la caccia a quei momenti magici, Chet Baker condensa la sua splendida ossessione così: “Quando suoni, cerca le note dorate, non quelle blu”. La legge del contrappasso prevede un malinconico epitaffio tratto dalla melodia di Everything Happens To Me dove Chet Baker canta: “Prenoto per giocare al golf, e puoi scommettere qualunque cosa che verrà a piovere. Do una festa a casa e l’inquilino del piano di sopra si lamenta. La mia vita sarà tutto un raffreddore e un perdere treni. Capita tutto a me”. Ma qualcuno, rispondendo a William Claxton, aveva capito quello che aveva dentro: “Puro semplice… Voglio dire, quel giovanotto ha suonato in modo puro e semplice, capisci cosa intendo? Qualcosa, in lui e nel suo modo di suonare, era puro e semplice, e l’ho avvertito subito, dopo pochi secondi. Lui era quello giusto”. Firmato: Charlie Parker.

martedì 14 aprile 2020

Mary Shelley

Secondo la valutazione Stephen King, Frankenstein è “un dramma shakespeariano” e la definizione ha un suo senso nel riagganciarsi con Il moderno Prometeo che aveva generato Mary Shelley. Osservando un po’ meglio, in Frankenstein, il dilemma, in realtà, più che drammatico o melodrammatico, è filosofico perché mette a confronto, nella cornice delle montagne svizzere e poi fino alle distese artiche, il creatore e la sua creatura, ed è difficile distinguere le deformità delle ambizioni dal suo risultato che, alla fine, non è né umano né scientifico. Questa contrapposizione alimenta i due poli magnetici fondamentali del romanzo di Mary Shelley: la tormentata natura dell’essere partorito in laboratorio alla disperata ricerca di compagnia (e di una compagna, soprattutto) mette in risalto in Victor Frankenstein le contraddizioni legate all’ansia e all’ossessione della scoperta. Quello che Mary Shelley chiamava “il mio seminario di sordida creazione” non solo corrisponde in tutte le sue parti al tormento del patchwork di resti umani e il rapporto con il suo creatore, ma insinua la domanda: chi è il vero mostro? La sofferenza è comune ad entrambi perché così sono odio e vendetta, ma se l’esperimento di Victor Frankenstein si aggira in cerca di risposte ai bisogni primari, uomini e donne sono intrappolati in una trama insondabile perché “se i nostri impulsi si limitassero a fame, sete e desiderio, saremmo pressoché liberi; invece ogni refolo di vento, ogni parola detta a caso o la scena che quella parola evoca in noi ci tocca nel profondo”. L’inseguimento lungo un tracciato tutto europeo, da Londra all’Italia,  dalla Scozia all’Irlanda fornisce un fondale maestoso e affascinante ai contrasti tra Frankenstein e il suo essere che sono costanti, tanto da trasformarsi in una sorta di ineluttabile avvitamento che li stringe  a un solo, disperato destino. Da un punto di vista stilistico per Frankenstein è ancora validissima l’analisi  di Muriel Spark che diceva, tra l’altro: “Ciò che vorrei chiarire non è tanto la bellezza della prosa di Mary Shelley, quanto la particolarità del suo stile nel momento in cui si combinano la sua prosa utilitaristica con un argomento complesso. Nel caso di Frankenstein, questa combinazione contribuì notevolmente al suo carattere innovativo e al suo successo come romanzo. L’orrore prodotto dalla narrativa gotica si disperdeva in vapore, mentre i nitidi profili di Frankenstein intensificavano l’elemento orrorifico fino al più alto grado della nequizia”. Questa è l’essenza di Frankenstein, che ha assunto la forma di un classico perché a distanza di secoli i crudi interrogativi che pone sono ancora validi, a partire dalle questioni irrisolte tra le promesse della ricerca scientifica e tecnologica e i suoi limiti che, come abbiamo imparato, presto o tardi si manifestano, e presentano il conto. Il carattere ambivalente di Frankenstein riguarda anche la forma della storia in sé, e la fonte da cui sgorga, che si riflette nella constatazione di Mary Shelley quando scrive che “l’invenzione, bisogna ammetterlo umilmente, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos. L’invenzione sta tutta nell’abilità di cogliere le potenzialità di un argomento e nelle capacità di dare corpo e forma alle idee che suggerisce”. Prometeo sarebbe d’accordo, e forse anche Shakespeare.

sabato 4 aprile 2020

Sadeq Hedayat

Stretto tra le pareti di una stanza, consumato dal suo stesso delirio (alimentato dall’oppio), un modesto artigiano di una cittadina iraniana lotta contro le visioni, gli incubi e un’incombente oscurità. Attorno a lui aleggia un’aria cupa e malata, frutto di una distorsione che lo costringe ad aggrapparsi alla scrittura in un disperato tentativo di non perdersi nel vuoto. Il preambolo che introduce La civetta cieca è reiterato più volte: “Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”, dice il protagonista, e subito dopo ribadisce: “Sono costretto a scrivere ogni cosa per assicurarmi di non star confondendo realtà e immaginazione. Devo spiegare tutto alla mia ombra proiettata sul muro”. Passo dopo passo, la sua disintegrazione si fa palpabile e la trama del racconto di Sadeq Hedayat ricorda da vicino quei versi di Edgar Allan Poe che dicevano: “Se la speranza è sfuggita, in una notte, o in un giorno, in una visione, o nel nulla, è forse per questo meno perduta? Tutto quel che vediamo o sembriamo è un sogno in un sogno soltanto”. La dimensione onirica, carburata dalla droga, si somma e si sovrappone a un malsano flusso di coscienza in cui scorrono flebili ricordi dell’infanzia e improvvisi lampi d’ira, che si attorcigliano alla percezione della realtà che comprende l’immagine di un patibolo e del boia pronto a compiere il suo dovere. Eppure, nel lungo monologo la confessione si fa via via più definita, a partire dal momento in cui il protagonista manifesta la sua condizione: “La solitudine e l’isolamento che si erano addensati in me erano notti senza fine, pesanti e dense, come quelle notti dove l’oscurità permane fitta e vischiosa, in attesa di calare sulle città inabitate ma gravide di sogni indecenti e vendicativi”. Gran parte dei furiosi propositi sono dedicati alla moglie: La civetta cieca è la metamorfosi di un suicidio che si tramuta in omicidio, seguendo una curva dettata da una spirale particolarmente complessa che sottintende il mistero più grande, quello della mente umana. Tra gli autori preferiti di Sadeq Hedayat, Franz Kafka chiedeva in uno dei suo aforismi: “Puoi forse conoscere qualcosa che non sia illusione? Poiché se l’illusione venisse distrutta, dovresti stornare gli occhi o diventeresti una statua di sale”. La civetta cieca sembra rispondergli perché se “la vita stessa è una storia dal principio alla fine”, la sua percezione è soggetta a variabili che raramente si possono controllare, prima tra tutte la cortina di parole che ci assedia e ci toglie il respiro. Sarà per questo che in raro momento di lucidità, l’uomo prigioniero di se stesso dice: “Ho sempre pensato che il silenzio fosse superiore a ogni altra cosa, e che l’uomo dovrebbe imitare l’airone, trascorrendo le giornate librandosi ad ali spiegate sulle coste marine, o standosene accovacciato senza emettere alcun suono”. È soltanto un breve istante, poi l’ossessione lo travolge ancora, e ancora: “Mi svegliai in un nuovo mondo i cui confini, usi e costumi mi parvero assolutamente familiari. Tanto che mi trovavo più a mio agio lì che non nel mondo in cui avevo vissuto fino a ora. Pareva un riflesso della mia vita reale, un altro mondo, ma così vicino e così in sintonia con me da farmi pensare di essere nel mio elemento originale. Ero rimasto in un universo antico che mi era più congeniale e affine”. Un fragile equilibrio si spezza e un macabro ritornello comincia a filtrare lungo il declivio finale: la scrittura di Sadeq Hedayat è densa, ipnotica, a tratti impenetrabile, come se pagasse dazio all’angoscia di una dissoluzione e con il coraggio dei grandi artisti, quelli che sanno guardare attraverso uno specchio nero, senza timore di quello che scopriranno.

giovedì 2 aprile 2020

Bernardo Atxaga

Essendo nato nei Paesi Baschi, Bernardo Atxaga ha sperimentato il concetto di confine ben oltre la sua dimensione geografica. È una forma mentale che evidentemente trova una disposizione ideale Dall’altra parte della frontiera, e non solo per la logica territoriale, che comunque è molto sfumata. Diceva infatti nella prefazione a Obabakoak: “Scrivo in una lingua strana. Le sue forme verbali, la struttura delle sue proposizioni relative, le voci con le quali designa le cose antiche, i fiumi, le piante, gli uccelli, non hanno sorelle in nessun luogo della terra”. Si capisce perché quella di Bernardo Atxaga è una scrittura immaginifica che si moltiplica in rappresentazioni e divagazioni eccentriche a partire da piccoli ritratti, quasi impressionistici, per alzare lo sguardo in direzioni più ampie, come se seguisse solo l’istinto per le parole, per il loro assembramento, noncurante degli idiomi e delle forme. Bisognerebbe cominciare dal Poema Polaroid sulla morte di John Lennon, una lunga orazione che occupa la parte centrale di Dall’altra parte della frontiera, e che riporta a quel giorno maledetto. Nella ricostruzione di “quando John Lennon muore per un autografo”, Bernardo Atxaga alterna più di un registro e la colloca idealmente a conclusione di una Cronaca parziale degli anni settanta perché “poi arrivarono vagoni pieni di silenzio”, e basta un verso per raccontare quello che anni di analisi storiche non sono riusciti a decifrare. Lo scenario che Atxaga trova Dall’altra parte della frontiera, è quello che emerge con La città: “E un po’ più in là, le luci della stazione, gli ubriachi, il giallo fosforescente degli spazzini, un altro ponte, le prostitute, tutto questo finisce. Vicino al parco, i tassisti parlano del pugile morto, che è morto come muoiono la ribeca e i cantanti di strada. Il tempo è un broccato fragile, fatto di tramonti sempre cupi”. La sua è una poesia fatta di osservazione, di un’attenzione acuta che sa leggere ben oltre l’immediato come Atxaga spiegava in Un traduttore a Parigi: “Se qualcuno ignora l’immensa maggioranza delle cose che formano la realtà per concentrarsi su una sola, questa diventa brillante, ma brillante come lo sono gli occhi di un serpente, con una luce che non permette di vedere nient’altro”. L’intensità è proprio quella e conferma la sensazione di movimento che viene celebrata così in Poema d’inverno: “E tu guardasti verso quel cielo, per dire: se avessi le ali, anch’io mi spingerei in cerca di terre nuove, anch’io pianterei le mie tende in una spiaggia piena di bandiere gialle; forse allora il tempo lavorerebbe meglio, forse allora dimenticherei per sempre le mura e la gente di questa città”. C’è una logica per cui il volo è ancora, e di più, lo strumento con cui Bernardo Atxaga elenca le 37 domande al mio unico contatto dall’altra parte della frontiera: “Mi hanno detto che per gli uccelli non c’è altro destino che il vento, e che ci sono navi che non raggiungono mai un porto. Quando voi parlate del destino, a cosa vi riferite esattamente? Ai vantaggi di un lavoro sicuro? Forse a ciò che si mangia cucinato all’arancia? Non pregate mai per le carovane del deserto? Sono molti, siete molti voi abitanti dall’altra parte della frontiera? Questa gente che vedo tutti i giorni per la strada, vive là?”. È una domanda più che legittima per chi è in cerca di “una patria concreta” e invece è costretto ad assoggettarsi a una terra di nessuno, quella che Atxaga delinea così in Canzoni V (Desolatio): “Dice il mio dizionario che la parola desolazione proviene dal latino desolatio, genitivo desolationis; e che fu nel milleseicentoundici che qualcuno la scrisse per la prima volta dopo aver affilato la penna di un’oca bianca. Dice anche che solitudine, rovina e distruzione sono i suoi significati principali. Ma niente dice il dizionario del cuore della gente che cammina per la strada; niente dice di noi, niente dice dei cortili del carcere o della caserma”. Eppure, forse per colmare quei vuoti o per giustificare le esigenze della poesia, Atxaga sostiene di nuovo che “abbiamo bisogno di un dizionario”, e, a ben guardare, suona inevitabile quando sappiamo di essere ormai Dall’altra parte della frontiera.