giovedì 20 giugno 2019

Bram Stoker

Dracula è portato alla proliferazione spontanea (chiedete a Stephen King che ne ha tratto Le notti di Salem) in tutte le direzioni (compresa quella evoluta di Richard Matheson in Io sono leggenda) e in ogni declinazione (per non dimenticare le innumerevoli riduzioni cinematografiche), ma con I poteri delle tenebre siamo in presenza di qualcosa di originale, e (nello stesso tempo) di diverso, frutto di una straordinaria metamorfosi, come se la sua storia vivesse di vita propria e si tramandasse in forme mutevoli e mimetiche. Prendendo spunto da una versione svedese, nel 1900 Valdimar Ásmundsson traduce (o meglio, interpreta) in islandese Dracula e lo pubblica a puntate sul giornale che dirige rendendolo Makt Myrkranna ovvero I poteri delle tenebre. Per quasi un secolo nessuno ha dubitato della sua versione: solo nel 1986 affiorano le prime varianti, grazie a Richard Dalby, che poi lo studioso e appassionato Hans de Roos seguirà, scoprendo le numerose differenze con l’originale e cominciando un complesso lavoro di ricostruzione. Ne è nato un progetto collettivo che ha coinvolto Dacre Stoker, pronipote dell’autore di Dracula (che scrisse una prefazione alla traduzione islandese), John Edgar Browning che si occupa della postfazione e un team di una ventina di persone per due lingue (inglese, islandese) che si è occupato di versioni e revisioni (e all’elenco vanno aggiunti i due traduttori per l’italiano, Maura Parolini e Matteo Curtoni). Se il principio fondante è comune a entrambi i libri (come dice Harker, “ci sono cose molto peggiori nei boschi, quando è buio come adesso”) Dracula diventa quindi una saga letteraria ed editoriale (ampiamente descritta negli interventi) affascinante quanto quella dei vampiri. Le discendenze e le ascendenze di Vlad Ţepeş Dracul alias Dracula formano un trattato etnografico con i Carpazi nel centro di una cultura cosmopolita. Non è un’annotazione relativa: come scrive Claudio Magris in Danubio “tutta la storia transilvana è un intarsio complicatissimo di contrasti, incroci, scontri, alleanze e rovesciamenti d’alleanze nazionali” e sono aspetti, a partire dalle caratteristiche del luogo e del territorio, che vengono messi in rilievo nella scrupolosa rilettura di Dracula. Ma c’è di più, perché come dice ancora Claudio Magris “questo crogiolo di popoli e dissidi favoriva anche, come accade talora nei territori misti di frontiera, la consapevolezza di un’appartenenza comune, di un’identità particolare, intessuta di contrasti ma inconfondibile in questa conflittuale peculiarità, propria ad ognuna delle componenti in conflitto”. La figura di Dracula viene accentuata lungo un profilo più articolato e i “fili invisibili” che si annodano attraverso I poteri delle tenebre, portano lontano e saldano le origini mitteleuropee con le saghe nordiche. A prima vista, l’intreccio pare azzardato, eppure è molto più vitale di quanto possa apparire. Senza dimenticare le origini (irlandesi) di Bram Stoker, va ricordato che la Transilvania (come tutta l’Europa) è stata terra di passaggio e di conquista delle tribù norrene. Non a caso nella genealogia di Dracula, il suo diretto capostipite è Attila, il condottiero degli unni “giunti dall’Islanda”, ribaltando così i ruoli con il vero Vlad Ţepeş Dracul, che i barbari li combatté con gusto non meno sanguinario del suo romanzesco epigone. Il lavoro di annotazione (a piè di pagina scorre, a tutti gli effetti, un altro libro) mette in evidenza un’infinità di dettagli districandosi tra le variazioni “di tutti i mondi e gli spazi” e le sfumature “di cose vicine e lontane” (come vogliono le declinazioni islandesi). È un rebus linguistico dove l’incontro (e lo scontro) con Dracula, stando ancora alla formula islandese, “non è come giocare con gli agnelli” e le continue allusioni e i doppi sensi accentuano i tratti dei personaggi e le deviazioni dall’originale che i curatori hanno voluto segnalare passo per passo, costruendo un erudito apparato che comprende Darwin e Freud, Napoleone e Marx, i moti e le rivolte, il progresso scientifico e lo spiritismo. Un vaso di Pandora inesauribile, come se Dracula si fosse propagato per vie letterarie, piuttosto che sanguigne: per come è stato rivisto e costruito, I poteri delle tenebre non è una versione apocrifa (anzi, gode della complicità di Bram Stoker), ma piuttosto l’evoluzione della specie. È il romanzo, la sua esegesi e il suo viaggio nello spazio e nel tempo. Imperdibile.

giovedì 13 giugno 2019

Chris Salewicz

La sequenza elencata in copertina è tale che l’idea di una maledizione o di un destino già scritto è così forte da aver generato uno dei tanti luoghi comuni su cui si reggono miti e leggende del rock’n’roll. Al Club 27 sono iscritte d’ufficio quelle personalità, irruenti e geniali, che sono arrivate troppo presto alla fine dei loro giorni (compiuti i 27 anni) e, come scrive Chris Salewicz, sono rimaste “giovani per sempre”. I nomi evocano già un’infinita aneddotica e le connessioni del Club 27 vengono riportate alla luce da Chris Salewicz con un metodo molto semplice, raccontando le singole storie che, per quanto note, vengono accostate in un confronto senza aggiunte particolari, come se fossero in grado di evidenziare da sole i motivi per cui possono restare nella medesima cornice. La discriminante dell’età potrebbe non essere l’unica. Notando la frequenza delle J viene da pensare ad altre coincidenze a cui Chris Salewicz dedica il giusto (poco) tempo. È più attento a far notare quanto abbiano pesato le disfunzioni famigliari, la promiscuità, l’abuso di sostanze stupefacenti e, più di tutto, la pressione costante di un’industria cinica e ingorda che prospera sul culto della personalità, viva o morta che sia. Le singole vicende sono toccate con umanità perché affiorano (con la giusta compensazione di una certa dose di compassione) la solitudine, l’incoscienza, la disperazione che avvolge il talento geniale, la vocazione a senso unico, forse una fiducia estrema e incondizionata nell’inspirazione e nei propri mezzi. Ma spesso l’arte è un appiglio fragile nelle onde spietate di un naufragio conclamato e non è sufficiente, o almeno così si evince dall’impietosa analisi di Chris Salewicz. Ci sono misure diverse: Jim Morrison diventato il nemico pubblico numero uno, Robert Johnson inseguito dalle sue ombre e dalle sue leggende, Amy Winehouse travolta da un vortice di follia, Janis Joplin distrutta dal Southern Comfort, Kurt Cobain incastrato in un mondo troppo grande e troppo triste per lui, Jimi Hendrix in viaggio verso un altro universo. Non è il solo: ognuno di loro era in cerca di qualcosa che, sulla terra, non riusciva a trovare, ed erano tutti dolorosamente fragili. John Lennon (giusto a proposito di J e finali tragici) diceva di Brian Jones: “Soffriva davvero tanto. Però ai primi tempi era uno a posto, era giovane e bello. Purtroppo era una di quelle persone che si disintegrano davanti agli occhi”, e questo vale probabilmente per tutti gli aderenti al Club 27. D’altra parte l’ineffabile Mick Jagger lo vedeva come “un giovane estremamente spaventato” e certo il milieu dei Rolling Stones nella Swinging London non era il più salubre degli ambienti per chiunque, figurarsi per una persona un po’ disturbata. Del resto le dinamiche interne di una rock’n’roll band, spesso incomprensibili, non sono la cura migliore per certi disturbi e in questo i Nirvana o gli Stones o l’Experience non differiscono tra loro e sono amplificate dalle soprattutto le pressioni del mercato (basta pensare a Jim Morrison e ai Doors che hanno fatto di tutto e di più in pochissimi anni). Sono le circostanze incendiarie in cui ogni “enfant terrible” ha dovuto lottare per e contro la propria unicità, che Chris Salewicz identifica, più di tutti, con Jimi Hendrix che “era diverso da tutti gli altri, un rumore sontuoso che sfidava ogni concetto di musica elettrificata”. Diventa chiaro come il rock’n’roll fantascientifico di Jimi Hendrix fosse una via di fuga da un coacervo di condizioni invivibili e l’interrogativo di Mikal Gilmore a proposito di Jim Morrison vale per tutti i soci del Club 27: “La vera domanda non è tanto se possiamo trovare un qualche valore nell’arte di Jim Morrison nonostante la sua vita sprecata. Invece è: possiamo separare le due cose? E se non possiamo, che cosa possiamo ricavarne?”, e la risposta resta là, nel vento, dove nemmeno una conversazioni tra fantasmi riesce ad acciuffarla.

giovedì 6 giugno 2019

José Eduardo Agualusa

Il motivo ufficiale delle rivolte che incendiano Rio de Janeiro, a partire dalle sue favelas, è antico come l’uomo, come il mondo: la lotta per la sopravvivenza che, in un Brasile attanagliato dalle proprie contraddizioni, si tramuta in una guerra tra ricchi e poveri. Lo schema, che presuppone anche una rigorosa divisione morale, viene scardinato da José Eduardo Agualusa in Quando Zumbi prese Rio perché lascia i suoi inequivocabili personaggi liberi di attraversare le linee che dovrebbero separare e, invece, sembrano soltanto differenti percorsi di una nazione in cerca di un'identità. Non è semplice perché al crogiolo di etnie e di razze (come ha detto lo stesso autore: “Il luogo di nascita è sempre casuale. La nostra nazionalità riguarda il nostro percorso, si costruisce attraverso il nostro cammino. È la nostra lingua che ci permette di far parte di uno spazio molto più vasto. Mi rifiuto di appartenere ad un unico spazio”) e alle fratture tra le classi sociali che, insieme, compongono la miscela che accende anche la scrittura di Josè Eduardo Agualusa, si sovrappongono rivendicazioni politiche e umanissime, ma anche le ambiguità di chi per finanziare le rivolte, per comprare le armi alla rivoluzione, si dedica al narcotraffico o si allea con vecchi mercenari. Linee d’ombra che vengono attraversate spesso, e in più direzioni. I destini delle persone sono vincolati agli stessi luoghi, come se non ci fosse una via di fuga, come se i conflitti non fossero un deterrente sufficiente per schivare il pericolo, la violenza, la distruzione. Un  legame indissolubile che le rivolte alimentano e condizionano all’infinito perché, come dicono i personaggi di Quando Zumbi prese Rio, “torniamo sempre ai vecchi posti dove abbiamo amato la vita. E solo allora capiamo che non torneranno mai le cose che ci sono state care. L’amore è semplice, e il tempo divora le cose semplici”. L’ammissione è un po’ il fulcro del romanzo, dove Josè Eduardo Agualusa sa rendere perfettamente le atmosfere in cui maturano le rivolte delle favelas di Rio grazie ai suoi picareschi personaggi (che ogni lettore gradirà scoprire da sé), a una visione d’insieme cinematografica, ma anche alla capacità di rendere intellegibili gli intrighi, i doppi giochi, le ambizioni e i sotterfugi che nel suo ipotetico Brasile sono una malattia tropicale così diffusa e incurabile da essere comune a tutti. Come dice uno di loro: “Io vorrei essere semplice come le rane negli stagni”, ma, sembra di capire, nel Brasile di José Eduardo Agualusa, così come in quello reale, è solo un sogno innocente. La verità è molto più crudele e la Rio che si prende Zumbi è, come avrebbe detto Joseph Conrad, “una visione di un’enorme città. Una mostruosa città più popolosa di alcuni continenti che nella sua potenza di mano dell'uomo era quasi indifferente ai corrucci e ai sorrisi del cielo. Così grande che c’era abbastanza spazio per ogni passione, varietà per ogni scenario, e buio per seppellirvi milioni di vite”.