venerdì 31 dicembre 2021

Clarissa Goenawan

All’inizio l’atmosfera è quella di un noir d’altri tempi: la pioggia, la notte, una donna sola, un omicidio avvolto nel mistero. Non manca nessuno dei cliché, ma Clarissa Goenawan non introduce l’ennesimo investigatore e ben presto le necessità poliziesche di Rainbirds saranno ridotte al minimo sindacale. Attorno alla fine Keiko Ishida che aveva lasciato Tokyo per Akakawa si sviluppa un vortice di legami avviluppati da ricordi, segreti, sotterfugi. Per Ren Ishida, la morte della sorella apre un varco personale inaspettato, ma in qualche modo ineludibile: “È bello essere giovani, tutto sembra possibile. Quando si invecchia ci si dimentica com’era sognare. Prima di rendertene conto, un giorno ti svegli e ti guardi allo specchio, chiedendoti chi sia l’uomo di mezza età che hai davanti”. Succede mentre si trasferisce ad Akakawa per le esequie della sorella, ed è lì che Ren Ishida diventa un po’ il catalizzatore di storie che si scoprono incastonate una dentro l’altra, seguendo quello che è il collante di Rainbirds, una catena di profili femminili che si impone sulla e nella storia. Madre, figlia, amante, moglie: tutte le figure si distribuiscono a strati nel racconto di Clarissa Goenawan, ognuna con il suo peso. Scorrono le intemperanze di Seven Stars, l’abulia della signora Katou, l’accortezza di Izumi, l’assenza di Nae e, di nuovo, il ricordo di Keiko che scrive: “L’amore arriva quando meno te lo aspetti. Ecco perché in inglese si dice cadere nell’amore. Non si può imparare a cadere, né si può pianificare di farlo. Capita di cadere e basta”. L’omicidio di Keiko diventa relativo per quanto sia la scintilla da cui scaturisce tutto: per Ren, il rapporto con la sorella è una ferita, e il romanzo è costruito da intricati codici, come se tutti avessero qualcosa da nascondere o da rivelare. Clarissa Goenawan con un tatto semplice e raffinato nello stesso tempo, sa mostrare i gesti, il cibo, gli angoli e le sfumature, lasciando alle singole voci dei personaggi il compito di spiegare l’evoluzione delle circostanze. È così che Rainbirds è un romanzo che si muove in una zona sfumata tra i sogni e la realtà: l’intreccio della trama si svolge su più piani che si sovrappongono e si alternano con il ricorso al flashback e alle diverse dimensioni temporali, comprese le numerose parentesi, a partire da quella con Jin e Anzu, che si rivelerà importante nel determinare lo svolgersi finale. Le porte si aprono su segreti e deviazioni famigliari: le consuetudini e le tradizioni giapponesi, descritte in ogni dettaglio, con una grazia amanuense, si scontrano con una solitudine atavica, compressa nella gentilezza e nelle formalità, e fluttuante tra una casa vuota e quella dopo. È un labirinto e tale andrebbe considerato, compreso il rischio di perdersi. Se serve una chiave di volta va cercata in un passaggio di Salman Rushdie, visto che I figli della mezzanotte è uno dei libri citati da Clarissa Goenawan attraverso i suoi personaggi: “La realtà è un fatto di prospettive; quanto più te ne allontani, tanto più il passato ti pare concreto e plausibile, ma come t’avvicini al presente, esso ti sembra inevitabilmente sempre più incredibile”. Succede così in Rainbirds, e si tratta di svoltare un angolo dopo dopo l’altro, assecondando i cicli, le sequenze, i temi ricorrenti proprio come nel jazz. Una passione che in qualche modo delimita la personalità di Keiko e i contorni del romanzo dato che comincia con Billie Holiday e finisce con My Favorite Things di John Coltrane, per cui va tenuto conto dell’imprevisto, dell’improvviso e dell’eccentrico, ma, più di tutto, del mood che riesce a creare. Un ottimo esordio.

martedì 28 dicembre 2021

J. G. Ballard

Già nell’incipit c’è materiale a sufficienza per far impazzire un esperto di numerologia: 32 omicidi, 13 ragazzi scomparsi, un primo videotape di 28 minuti, ma soprattutto è il 1988, l’apogeo dell’era Thatcher, un riferimento da annotare, per il momento, perché per Ballard è relativo, almeno fino alla fine. O, meglio: è soltanto un effetto politico ed economico di cause più profonde, e radicate nell’alienazione suburbana. La misteriosa e violentissima strage avviene infatti nella rigorosa cornice del Pangbourne Village, un’esclusiva enclave nella campagna inglese, protetta da recinti, cani da guardia e da un reticolo di videocamere. L’ossessione di Ballard per l’architettura monotematica dei quartieri residenziali e per l’M4, l’autostrada che dalla City porta all’aeroporto di Heathrow, espande le profezie orwelliane, con La fattoria degli animali richiamata in modo implicito ed esplicito. L’eccidio, corredato da precedenti reali, Charles Manson su tutti, ha una sua particolare logica perché “i proprietari delle sue eleganti palazzine erano stati infatti spediti all’altro mondo con il minor danno possibile per le loro abitazioni, come se quei segni tangibili del loro successo professionale e della loro posizione sociale fossero i loro beni più concreti e duraturi”. Convocato sulla scena del crimine, Richard Greville, ufficialmente consulente psichiatrico della polizia metropolitana, e il sergente Payne si avvia come Dante con Virgilio in un moderno girone infernale dove è stato raggiunta una dimensione in cui “i concetti di colpa e di responsabilità non hanno più alcun significato”. La separazione meccanica, a base di cemento e filo spinato, dal resto del mondo sottintende “uno stato molto simile alla deprivazione sensoriale”, un luogo privato e riservato dove “l’emotività era considerata una debolezza, sia negli adulti sia nei giovani”. Se la ricostruzione degli omicidi si fa via via più credibile, e Un gioco da bambini sa essere davvero disturbante nella descrizione dei metodi, dei tempi e dell’azione in generale, resta da appurare il movente, ed è qui che Ballard, attraverso l’analisi di Richard Greville cerca di comprendere e delineare i confini del vuoto pneumatico in cui è maturato: “Al Pangbourne Village, pensai, il tempo poteva scorrere sia in avanti che all’indietro. I suoi abitanti avevano cancellato sia il passato che il futuro e malgrado tutte le loro attività vivevano in un ben organizzato e monotono mondo senza tempo. In un certo senso, i ragazzi avevano ricaricato gli orologi della vita reale”. Il complesso di Edipo e altre ipotesi psicologiche sono da accantonare. Tra tutti gli incubi ballardiani, Un gioco da bambini offre uno squarcio su una società dove ogni questione morale è sospesa, qualsiasi attrito è assorbito da ambizioni, speculazioni e proiezioni che, al massimo, possono tollerare la noia. Da lì in poi è soltanto un conto alla rovescia, prima dell’esplosione, che pare più inevitabile che prevedibile. Un gioco da bambini resta “un atroce paradosso”, e nel tempo, anche l’assunto principale che “in una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia” si è capovolto, dato che l’assurdità del Pangbourne Village si è rivelata endemica, propagandosi senza incontrare alcuna resistenza.

mercoledì 1 dicembre 2021

Tahar Ben Jelloun

Per Tahar Ben Jelloun la poesia è antecedente agli sviluppi della prosa e Stelle velate è una raccolta che rappresenta un’ottima introduzione e insieme una valida antologia della sua creazione poetica. Anche perché il senso della scrittura è uno degli argomenti ricorrenti di Stelle Velate, fin da dove Tahar Ben Jelloun ammette: “Scrivo per non aver più volto. Scrivo per dire la differenza. La differenza che mi avvicina a tutti quelli che non sono io, quelli che compongono la folla che mi assedia e mi tradisce. Non scrivo per loro, ma dentro di loro, e con loro. Mi getto nel corteo della loro alienazione. Mi precipito sullo schermo della loro solitudine. La parola tagliente”. La lotta è dichiarata, e imprevedibile nei suoi risultati, non di meno viene intrapresa con grande spontaneità: “Incomincio il gesto in una memoria furibonda e do inizio allo spoglio. Apro la pagina delle mie debolezze, delle mie insufficienze, delle mie illusioni e del mio errore. Scopro la vergogna”. La gamma delle interazioni parte da quando “il verbo si coagula in pugni alzati” e si articola fluttuando di verso in verso, con Tahar Ben Jelloun che dice: “Mi affido all’equivoco oscillare delle parole, nella nudità dei loro limiti, e affronto ciò che resta. Poca cosa. Mi resta la sopravvivenza della parola legata e consumata”. Il rapporto con la pagina che gli si apre davanti è tormentato, ma ineludibile e allora si chiede, ancora: “Perché la nostra storia è disseminata di disfatte? È forse la rovina delle parole? Una polvere bianca cade sul viso, è un po’ di cielo che ci chiude gli occhi”. Nella luce delle Stelle velate e nelle “città vedove della vita” ci sono “uomini sotto sudario di silenzio” che cercano una via, un luogo, una destinazione. Il disorientamento e lo smarrimento sono costanti che si ritrovano in La mia patria è un volto (“Fai la tua dimora nella parola trattenuta, sulla riva di una frase. Non essere impaziente. Guarda l’erba dei vocaboli. L’infante calerà la felce del crepuscolo”) e in Notizie dal paese (“Al mio paese non si fa prestito, si spartisce. Un piatto restituito non è mai vuoto: del pane, qualche fava o un po’ di sale”). Sono i motivi principali della partenza che si manifesta in Contagiato dal deserto: “La nudità è una sera d’estate, una fiamma custodita tra le nostre mani, un fiume solitario di cui siamo origine e sorgente”. Il pellegrinaggio comincia così, con le sembianze di una fuga: “E noi, espulsi dal vento, aneliamo al nulla, al deserto assoluto, esilio estremo, per sempre separati da coloro che hanno offeso e affamato l’uomo e noi”. È un cammino arduo e faticoso (“È questo il deserto. Un dolore riportato in città o in un villaggio di montagna”) che incontra domande angoscianti (“È una tempesta o è il ritratto della nostra disfatta che si disegna tra le nuvole? Vinti lo siamo da noi stessi ed è l’abisso ciò che ci attende”). Il viaggio è particolarmente impegnativo, anche nel suo sviluppo metaforico (“Ci siamo persi. Lo siamo da tanto tempo. Le nostre guide ci camminano sulle spalle. Sono sempre armate. Non sanno né cantare né danzare ma scrivono poemi di circostanza e discorsi opachi. Sputano sulle facce anonime, come festini dei tempi antichi”) e nella concretezza dei versi di Tahar Ben Jelloun (“Camminiamo spogliati non per virtù ma per necessità, le nostre cose ci inseguono e ci irridono, la nostra storia è carica come una vecchia mula. La bestia ci precede pesante e millenaria”) che portano, in fondo, all’amara constatazione: “Arriviamo sempre in ritardo per vivere, ma per morire dicono che siamo pronti”. Le Stelle velate spiccano poi in Chiaroscuro, dove Tahar Ben Jelloun dove sembra quasi concludere con toni elegiaci: “Dei nostri ricordi archiviati, imperlati di desideri, abbiamo fatto l’unico asilo. Linfa amara dell’albero malato, che trasportiamo nelle valige, l’esilio con mani nude e fredde ci avvolge sotto il cielo bianco dell’insonnia. Il paese tira la pelle sul nostro volto la solca di percorsi ingrati. Il nostro paese ci sta sulla fronte: ogni ruga è un fiume che irriga la nostra memoria”. Da conservare con cura.