giovedì 25 novembre 2021

Edmond Jabès

Un incontro, una città, e un libro. È abbastanza, è tutto. Quello di Edmond Jabès è un monologo e nello stesso tempo un dialogo, un gioco di specchi nel confronto con l’altro e con se stesso (e/o tutti e due), partendo dalla coscienza che “lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. L’esilio a Parigi (“Questa città non è la mia città. Vado errando, all’altro capo di me stesso, ai confini aridi, i più devastanti dell’essere, dove i sogni mi abbandonarono; ai confini di un’esistenza trascritta, della quale il vocabolo fu da sempre l’intercessore. Ciò che si disperde è ciò che si rivela; ciò che si dissolve e si annulla è ciò che ha cessato di ingannare il libro”) è la meta pro tempore, l’unica certezza è che “nomade o marinaio, sempre, tra lo straniero e lo straniero vi è, mare o deserto, uno spazio delimitato dalla vertigine alla quale entrambi soccombono. Viaggio nel viaggio”. In quell’invisibile e persistente frontiera Edmond Jabès riesce a individuare uno spazio universale, praticamente infinito, quando dice: “La tua città è un miraggio. La terra, rispetto all’universo, un uccello perduto, dalle ali troppo fragili per sfidare, sola, l’ignoto. Cammina su questo pianeta così maneggevole che un niente lo fa girare. Dove sei? Caduto nella trappola del reale e dell’inverosimile. Cercando l’uscita”. La mia maestra è da cercare nelle limitate possibilità della scrittura (“Vedo una parola che si avanza verso il mare. Non è la parola cielo, né la parola terra; non è neppure la parola sale o seme, ma la parola niente, ma la parola nulla. E dico a me stesso che sale, seme, terra e cielo sono in questo vocabolo”), motivo per cui “ogni libro è un libro di bordo”. La riflessione filosofica che permea la visione Edmond Jabès è reiterata nella forma scorticata della poesia che ribadisce i concetti limandoli e aggiustandoli, e così inoltrandosi ad affrontare la differenza dell’altro, che non è materia di nazionalità o di etnia (“Allo straniero non domandare il luogo di nascita, ma il luogo d’avvenire”), si trova a sentirsi a sua volta “straniero, per essere stato solo l’oggetto di una lettura di se stesso e per continuare a leggersi in solitudine le parole lette”. Inevitabile e inaspettato, l’ospite si rifugia nella “pagina del libro con i suoi margini, bramata dimora. Le parole vi si ammucchiano, con le loro torce in fiamme, tizzoni d’alleanza” e così Edmond Jabès non ha più timore a rivelare che “lo scrittore è lo straniero per eccellenza. Messo dovunque al bando, si rifugia nel libro da dove la parola lo espellerà. Ogni volta è a un nuovo libro che egli dovrà, provvisoriamente, la propria salvezza”. Di fronte allo straniero si aprono solo “luoghi scritti. Il sentiero polveroso è il seguito”, e la scoperta prosegue nel contrasto tra il silenzio (“Essere se stessi significa essere soli. Abituarsi a questa solitudine. Crescere, operare, in senso alle proprie naturali contraddizioni”) e una muta partecipazione perché “autore e lettore sono impegnati, allo stesso titolo, nell’avvenire del libro, che non è più l’avvenire del libro, ma il loro avvenire. Ciò che resta sempre da scrivere e da leggere apre loro il cammino”. Nel reiterare le sue asserzioni Edmond Jabès pare accertarsi con cura che “la pausa di una parola, il tempo della sua lettura” siano rispettati di volta in volta, volendo condividere la responsabilità del pensiero e il potere salvifico che si cela tra le pagine, che poi è quello di “aprire la propria solitudine a quella dell’altro, come si apre un libro; chiarore contro chiarore per festeggiare il mattino. In questa fase, la responsabilità ha un nome: gratitudine”. Straniero, straordinario: questo libro non finisce mai.

venerdì 12 novembre 2021

Colin Wilson

Nel 1956, Colin Wilson tirò un sasso contro lo specchio per celebrare l’essenza dell’outsider, “un uomo per il quale il mondo, per come lo vede la maggior parte delle persone, è una menzogna e un inganno”. The Outsider esplorava le connessioni tra “un senso di alienazione dalla società” e “una questione di disciplina individuale” che nell’articolarsi di sensibilità e ossessioni, sperimentazioni e osservazioni, nutre e sospinge  “un sentimento violento di pura affermazione”. L’identità dell’outsider, con l’istintiva necessità di manifestarsi a un livello più ampio e verso orizzonti inesplorati, lo posiziona verso “maggiori possibilità spirituali” ed è qui, in estrema e provvisoria sintesi, che si intravede la natura della simbiosi tra Religione e ribellione. Un anno dopo, il sasso lanciato con The Outsider Colin Wilson mostra il reticolo delle spaccature e delle crepe di quel riflesso in frantumi: il disprezzo per la futilità della vita, il rifiuto della limitata gamma di opzioni proposte e/o imposte dalla civiltà moderna, quel rumore di fondo che “non concede tempo per la pace e la contemplazione”, costituiscono il carburante spontaneo della ribellione. La religione, che deve necessariamente comporsi di “mito, dogma, rituale” è relativa ed è intesa in un senso molto più ampio dell’articolazione dell’espressione della fede in forme istituzionali o spontanee. Per Wilson e per la disposizione in sé dell’outsider  sono più importanti la poesia (“Ogni poeta sa che il valore reale di un uomo è determinato dalla profondità della sua esperienza emotiva. Sono quelle intuizioni profonde del suo stesso essere che danno veramente all’uomo il dominio su se stesso e su tutto il mondo”, la filosofia (“Il segno della grandezza è sempre l’intuizione, non la logica, ma la nostra civiltà purtroppo ha fatto una distinzione immaginaria tra le due cose, che si chiama filosofia”) e la letteratura. Con queste premesse, Colin Wilson si addentra in altrettanti ritratti, bio-bibliografici e critici, di Böhme, Pascal, Wittgenstein, Kierkegaard, Swedenborg, Whitehead, Ferrar, Newman, Law e, forse più di tutti, Bernard Shaw. Sono loro gli outsider per eccellenza, ma nel suo estendersi, Religione e ribellione ospita l’inferno e il paradiso secondo Rilke, Rimbaud e Verlaine, Joyce e Beckett, Elliot e Blake, Fitzgerald e Hemingway e infine Dostoevskij a ricordare che “tutte le creature viventi vivono principalmente per istinto e l’uomo non fa eccezione. Ma quando una civiltà raggiunge la sua fase di declino, l’istinto di salvezza non è sufficiente: l’intuizione ha bisogno della punta di diamante di uno sforzo intellettuale conscio”. Nella ricchezza della sua esposizione, più che sostenere e illustrare la tesi e le cause dell’outsider, Colin Wilson si abbandona a raccontarne le gesta, le idee, le illusioni e le visioni, in fondo seguendo una sola convinzione, dichiarata in modo molto chiaro ed esplicito fin dall’inizio: “Credo che gli esseri umani sperimentino una gamma di stati mentali ristretta quanto i tre tasti centrali di un pianoforte, mentre sono convinto che la gamma di possibili stati mentali sia ampia quanto l’intera tastiera, e l’unico scopo e compito dell’uomo sia di estendere la propria percezione dalle solite tre o quattro note all’intera tastiera”. Una metafora perfetta che da sola riassume tutta l’erudita esperienza di Religione e ribellione.

giovedì 11 novembre 2021

J. G. Ballard

Molte visioni di Ballard partono o arrivano dalla linea che tracciava La mostra delle atrocità nel 1970, a cominciare da Crash che è una sua diretta estrapolazione. È una rivelazione che scoperchia e azzera molti luoghi comuni di quegli anni, visto che “sotto la superficie scorrevano correnti più cupe. La ferocia della guerra del Vietnam, il senso di una colpevolezza pubblica che aleggiava sull’assassinio di Kennedy, le perdite umane nella scena delle droghe pesanti, il pervicace tentativo della cultura dell’intrattenimento di ricacciarci nell’infanzia”. La radiografia dei tempi è impietosa: Ballard è un voyeur con un quoziente intellettivo allucinante, capace di disquisire senza sosta di chirurgia plastica e stardom system, di quasar e di architetture autostradali, del Vietnam e della terza guerra mondiale, dei quadri di Max Ernst e delle sculture di George Segal in un solo flusso feroce e inafferrabile perché come scrive William Burroughs nella prefazione: “La linea di demarcazione fra paesaggio interno e paesaggio esterno è crollata”. L’apocalittico cut-up ballardiano si rivolge a un’era ormai trapassata, ma che si tramanda come un suono dello spazio interstellare, profondo e infinito. Si capisce la costruzione casuale, ma matematica: come ha detto lo stesso Ballard in I miracoli della vita, era “un approccio frammentato come il mondo che il libro descriveva” e comprende schegge, sovrapposizioni, istantanee, libere associazioni e le fughe mentali dei protagonisti, nonché le “catastrofi psichiche” di un’intera dimensione collettiva. In quest’ottica il culto della personalità diventa uno degli snodi fondamentali che La mostra delle atrocità attraversa: “Si è verificata una sorta di banalizzazione della celebrità: oggi la fama che ci viene offerta è istantanea, pronta per l’uso, e ha il potere nutritivo di una zuppa in scatola. Le serigrafie di Warhol mostrano questo processo in atto. I suoi ritratti di Marilyn Monroe e di Jackie Kennedy sottraggono alla vita di queste donne disperate la loro tragedia, e la sua tavolozza lucida e brillante le restituisce al mondo innocente dei libri colorati per bambini”. La soverchiante prepotenza delle immagini conduce direttamente al ruolo del corpo umano che La mostra delle atrocità viviseziona in continuazione e con convinzione fino all’infinitesimale dettaglio anatomico, anche se in realtà a Ballard basta molto meno per spiegare come “nell’epoca postwarholiana un singolo gesto, accavallare le gambe, per esempio, può diventare più significativo di tutte le pagine di Guerra e pace. Secondo le coordinate del ventesimo secolo la crocifissione, per esempio, verrebbe rimessa in scena come un autodisastro concettuale”. La conseguenza immediata è un’interpretazione del sesso (“il linguaggio più negoziabile di tutti”) che riconduce a un contesto più ampio, meno banale dell’erotismo patinato e dell’ossessività della pornografia, dove Ballard afferma: “Senza speranza di fronte al nuovo, ma delusi da tutto quello che non ci è familiare, noi ricolonizziamo tanto il passato che il futuro. La stessa tendenza si coglie nei rapporti personali, nel modo in cui ci aspettiamo che la gente confezioni se stessa, le proprie emozioni e la propria sessualità in forme attraenti e di richiamo immediato”. Nella sua stessa struttura La mostra delle atrocità è una provocazione, incluso il sottotesto delle note, quasi un’ulteriore deviazione di percorso: del resto se “la forma non rivela più la funzione”, non resta che guardare attoniti ai “disastri mimetizzati”, alla geografia degli incubi urbani, al vorticare di elicotteri impazziti e alle linee oblique dei terrapieni dei cavalcavia. Ogni cosa connessa da tagli e innesti che rivelano tutto un futuro, perché come ha detto lo stesso Ballard, “se La mostra delle atrocità fu uno spettacolo di fuochi d’artificio in un ossario, Crash fu l’incursione di mille bombardieri sulla città”. Dirompente.

lunedì 8 novembre 2021

Neil Gaiman

Ha ragioni da vendere Neil Gaiman quando sostiene che “la narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, oppure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là dalla storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza”. In quel ciclo infinito, American Gods è un viaggio americano “in bilico tra diorama e incubo” e nella mitologia di uomini e dèi che lo popola i rapporti sono mutevoli e fragili, come un pulviscolo che si disperde tra sogni, visioni e allucinazioni, mentre un paesaggio multiforme scorre un istante dopo l’altro, come uno schermo su cui proiettare storie e miti. In effetti, come scriveva Wendy Doniger O’Flaherty: “Gli dèi sono attori che interpretano ruoli reali soltanto ai nostri occhi; sono le maschere dietro cui ciascuno intravede il proprio volto”. L’America (si suppone, non a caso) è un campo aperto e la dimensione fantastica e quella reale delle “strade blu” che si intrecciano e si sovrappongono ne accentuano le proporzioni e le asperità: è “una terra di sogni e di fuoco” ed è anche “l’unico paese al mondo che si domanda chi è” e deve confrontarsi con altre forme di idolatria, laddove è necessario uno sforzo di comprensione in più, proprio perché, come dice Neil Gaiman, “è sui sensi che si fondano le nostre convinzioni, sono gli unici strumenti di cui disponiamo per fare esperienza: la nostra vista, il tatto, la memoria. Se i sensi ci mentono, allora non abbiamo niente di cui fidarci. E anche se non crediamo a ciò che ci dicono, non abbiamo altro modo per viaggiare che quello di seguire la strada che essi ci indicano, ed è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo”. La rappresentazione di American Gods si avvale di una moltitudine di “simboli”, con alcune connessioni specifiche: le culture ancestrali scandinave ed europee, il Medio ed Estremo Oriente, i Velvet e i Beatles, Stephen King e Thomas Pynchon nell’ombra, trucchi e magie, antiche dinastie e conflitti epocali confluiscono nella vita nella provincia in un patchwork che nell’insieme appare “come il sogno creato dall’umanità per dare un senso alle ombre sulle pareti della caverna”. Più di tutto conta la dimensione onirica, dove il linguaggio e le immagini fluttuano senza regole apparenti, e qui, piuttosto del citatissimo Erodoto, è più appropriato ricordare Eraclito quando diceva: “Coloro che sognano, sono coautori di ciò che accade nel mondo”. La domanda sottintesa da American Gods è: anche gli dei sognano? Shadow, protagonista suo malgrado di questo crepuscolo leggendario, cerca di capire (“Non fate che parlarmi di queste cazzo di regole, ma io non so neanche a che gioco state giocando”) il suo ruolo, ma nell’attrito generato dagli dèi erranti e confusi si manifesta una chiara separazione: “Il vecchio mondo, un mondo di infinita vastità, risorse illimitate e futuro, veniva messo a confronto con qualcosa di diverso, una rete di energie, di opinioni, di abissi”. Il confronto è caotico e nel ritratto a distanza ravvicinata dell’America rurale e del Midwest (e la bucolica Lakeside, Michigan diventa il nucleo attorno a cui ruota gran parte della storia) l’odissea americana tra dèi che si comportano in modo umano troppo umano e città che sono popolate di relitti, trova un percorso altrimenti tortuoso: American Gods si snoda serpeggiando in una serie di tappe in cui Shadow ha modo di affrontare le intenzioni degli dèi che l’hanno reclutato. Essendo un outsider con poco o nulla da perdere, Shadow è testimone di un ribaltamento continuo di fronti, ed è al centro dell’azione, anche se il più delle volte non può fare molto, se non assistere all’evoluzione dello scontro degli dèi. È in missione senza un mandato o è solo un capro espiatorio: la presenza di Shadow rimane enigmatica essendo in balia di decisioni che provengono da identità indefinite e il potere di quelle creature si estende, ma in qualche modo pare incapace di risolvere i conflitti, anzi, li alimenta nel corso dei secoli, perché anche “gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle”. Il rapporto con loro è sempre dubbioso, ma le moltitudini di esseri che vagabondano per l’America garantiscono lo spettacolo, dato che, come sosteneva Kierkegaard, “gli dèi si annoiavano, perciò crearono gli uomini”. Può essere, ma leggendo American Gods, è facile credere il contrario.

giovedì 4 novembre 2021

Derek Jarman

Mentre completava uno dei suoi film più intensi, The Last of England, Derek Jarman teneva un diario sui generis di quei giorni, composto da “opinioni, reminiscenze, ritratti di persone e luoghi; e registrazioni audio di interviste sconclusionate ad amici e colleghi”. L’elenco è fornito da Keith Collins nella breve prefazione che ne riassume la frammentaria gestazione ed è tutto sommato molto parziale. Nella sua eterogenea composizione, Ciò che resta dell’Inghilterra si adagia sullo stesso substrato autobiografico di The Last of England, una scelta nata da una consapevolezza espressa così da Derek Jarman: “Ora proietti il tuo mondo privato nell’arena pubblica, e crei la crisi; l’attrito tra il mondo pubblico e quello privato è la tradizione che riveli. Tutto quello che puoi fare è indicare una direzione da prendere a tutti quelli tra il pubblico che vogliono viaggiare. Perciò, mentre ti dissolvi nell’oscurità, pensa al silenzio. Quando tutti hanno imboccato il sentiero noi siamo tutta arte e nessun pubblico”. Un ruolo di primo piano nell’alimentare gli appunti di Derek Jarman tocca al padre, pilota e comandante della RAF, decorato al valore e protagonista della vita familiare. Il ritratto, proprio nel centro di Ciò che resta dell’Inghilterra, raccoglie i sentimenti più intimi e nello stesso tempo esprime il disorientamento di un’intera nazione, seguito alla fine della seconda guerra mondiale. La vittoria non è stata sufficiente, le “ceneri dell’impero” rimbalzano negli anni della Thatcher (siamo tra il 1986 e 1987) e Derek Jarman ammette senza remore che   “la decadenza, lo imparai in fretta, era il primo segno di intelligenza. È importante mettere la danza in una prospettiva storica”. The Last of England e Ciò che resta dell’Inghilterra si spendono entrambi con generosità (“Noi danzavamo mentre altri mettevano radici e contraevano mutui, ma il terreno era avvelenato”), e Derek Jarman ha sempre negato l’avversione contro il proprio paese, piuttosto le sferzate riguardavano le condizioni brutali della vita in quegli anni: “È una storia d’amore con l’Inghilterra. Non è un attacco. È un attacco contro quelle cose che avverto personalmente come senza valore. Cose che hanno invaso il circuito commerciale della vita inglese. Non si tratta di un attacco all’Inghilterra. È il contrario”. In questo, Derek Jarman è stato particolarmente attento alle deformazioni della musica pop (“Una cultura orientata dalle mode adolescenziali e dal criterio del feedback immediato non è molto interessata alle idee. In questo modo la sopravvivenza di un’artista è una moda o un capriccio passeggero”), grazie anche alla sua collaborazione con gli Smiths per The Queen Is Dead (“Nell’ultimo decennio, il video musicale è l’unico ambito nel quale il linguaggio cinematografico si è evoluto, ma lo scopo è sempre stato quello di ottenere un impatto immediato, il che spesso comporta un risultato appariscente e superficiale”). D’altra parte l’omaggio ad Andy Warhol, all’inizio di Ciò che resta dell’Inghilterra, era già un segnale palese nel condividere l’idea che “l’arte è furto” e che, di conseguenza, “siamo tutti complici nel mondo onirico dell’anima; non è soltanto individuale, ma generale; facciamo questi collegamenti in continuazione”. Il canovaccio è abbondante e variopinto: ci sono Tilda  Swinton e Pasolini, la realizzazione di The Last of England giorno dopo giorno, Pensieri domestici e le Ceneri dell’impero, appunti e poesie, in un ordine che emerge per gradi dall’istinto creativo di Derek Jarman, che resta convinto della forza intrinseca della curiosità: “Il fatto stesso di ricercare è la mia forza motrice. Non credo nella pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, ma credo nell’arcobaleno”. Anche questa era una piccola anticipazione: la sua teoria dei colori (Chroma) arriverà da lì a qualche anno e sarà il testamento finale di un grande visionario.