martedì 30 marzo 2021

Katherine Johnson

A Berlino, città che ha un ruolo determinante in Selvaggi, è conservata una delle più grandi campionature al mondo di specie animali. È una cattedrale di vetro e formaldeide che racchiude tutte quelle che Darwin chiamava le “affinità reciproche degli esseri viventi” e la curiosità viene saziata attraverso trasparenze asettiche, che sono puntuali estensioni del rigore scientifico. Sul finire del diciannovesimo secolo, e in parte relativa in quello successivo, per scoprire le meraviglie della biodiversità era necessario circumnavigare il mondo o affidarsi agli “spettacoli antropozoologici”, nella cui storia (vera) ha trovato ispirazione Katherine Johnson che, nella postfazione, li definisce propriamente “spettacoli etnici, una forma di intrattenimento di massa in gran parte dimenticata che ha avuto un profondo effetto sulla visione della razza”, o altrimenti conosciuti come “zoo umani”. La versione fiction di Selvaggi prende il via dall’isola di Fraser, al largo delle coste del Queesland, dove tre aborigeni decidono si seguire l’ingegnere Luis Müller e la figlia Hilda alla volta dell’Europa, assecondando le proposte degli impresari, ma con l’intento di perorare la causa presso la regina. Vessati dalle politiche coloniali, sono convinti della loro missione, credono in Luis e Hilda, e vogliono l’istituzione di una riserva, ma partono già sconfitti: il mare, all’improvviso, diventa ostile, i segnali (compresa la cometa e le manifestazioni ancestrali) e i contrasti stridono, e le buone intenzioni si rivelano ben presto un’inesauribile fonte di equivoci e distorsioni. Nel corpo della realtà storica Katherine Johnson sviluppa un romanzo poligonale, con la presenza di Hilda che magnetizza l’attenzione e più prospettive nell’alternarsi delle forme (il diario, le lettere, la narrazione vera e propria) e le voci (la stessa Hilda, il fantasma della madre, Christel, gli spiriti). Tra Berlino, Parigi e Londra vengono presentati come “arrampicatori di alberi” e come “cannibali”, poi sono misurati e riportati in calchi di gesso e, insieme ad altri compagni di sventura, si ritrovano a far parte di un varietà “naturale. Esotico. Pittoresco”. Spesso sono presentati come esemplari di “razze in via d’estinzione” e gli viene chiesto di comportarsi come veri selvaggi. Fingere di essere autentici è il paradosso e la contraddizione che rende bene l’idea che anima il romanzo di Katherine Johnson: il tour è debilitante, la distanza dalla propria terra genera una nostalgia feroce combattuta con l’alcol, l’eco del circo Barnum, prossimo a comparire sulle scene, è in arrivo, pronto a spazzare via ogni residuo di civiltà, indigena o non. Quando i nomi vengono storpiati  e le persone trasformate in esemplari e prototipi, Hilda assiste “con la bocca asciutta” e il rapporto con il padre si spezza in una progressione di malintesi, dove le contorte motivazioni scientifiche, gli interessi economici e politici e la confusa percezione del “buon selvaggio”, dannosa quanto le peggiori elucubrazioni razziste, non lasciano scampo. Il dramma è vicino, l’oceano è molto lontano e Selvaggi racconta “il lato umano della storia” nel modo giusto e lodevole perché mostra senza indicare, dice e non giudica, incontra ma non descrive. È come se Katherine Johnson avesse ascoltato Claudio Magris quando sosteneva che “pure l’educazione in senso stretto, peraltro, è efficace solo se non predica, bensì mostra e fa sentire i valori. I miei genitori non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, ma non mi hanno mai nemmeno detto che non si pranza al gabinetto; semplicemente, il loro modo di vivere, lavorare, divertirsi rendeva impensabile che si potesse essere razzisti o mangiare gli spaghetti nella toilette. Se avessero dovuto dirmelo esplicitamente, sarebbe forse già stato troppo tardi”. È così che Selvaggi si svolge come libro molto amaro, doloroso, ma essenziale.

lunedì 15 marzo 2021

Wisława Szymborska

Le Letture facoltative non sono vere e proprie recensioni, almeno non nel senso ortodosso del termine. Si tratta di appunti di lettura che spaziano lungo uno spettro molto ampio di possibilità. Wisława Szymborska legge ed esplora di tutto un po’: dalle lettere di Chopin agli almanacchi, dalle biografie di Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald a quelle di Salvador Dalí e Albert Einstein, dai classici (Apuleio e Alcibiade) ai testi di zoologia ed etologia, arte e astronomia, a ricostruzioni di personaggi come Stradivari, Paganini, Macchiavelli, Klimt e Mastroianni, Hitchcock, per non dire di mummie, streghe e mostri assortiti, e persino un volume sulle comiche di Benny Hill. L’indicazione di massima sembra essere proprio quella di Apuleio che nelle Metamorfosi avvertiva: “Ammirerai creature e destini umani tramutati in forme diverse, e poi di nuovo riportati alla loro natura, con alterna vicenda”, ed è così che si addensano le Letture facoltative. L’approccio è sistematico, la soglia di attenzione è costante, anche a fronte dell’estrema varietà delle letture, a cui Wisława Szymborska riserva uguale dignità. Questo non tanto per un’improbabile democrazia della sua ideale rubrica, ma perché lei stessa ammette che “in ultima analisi mi sono resa conto di essere e di voler restare una lettrice amatoriale, su cui non gravi l’imperativo di un’incessante valutazione. Per me, talvolta, il libro può costituire l’argomento centrale, talaltra solamente il pretesto per abbandonarmi a fuggevoli associazioni di idee”. I commenti sono tranchant: per esempio, leggendo Le dinastie del mondo, Wisława Szymborska riporta che “non è proprio uno di quei libri che ti fanno tirar mattina a leggerlo”. D’altra parte dice di Pietre preziose: abbelliscono e guariscono dice: “Si tratta di un libriccino sciocco ma onesto, e se i suoi consigli sono in grado di risollevare almeno temporaneamente l’umore di qualcuno, allora che siano i benvenuti”. La curiosa scelta dei titoli esaminati non deve trarre in inganno: il tono è comunque frizzante, senza particolari pretese, accompagnato da una lingua chiarissima, ben disposta nei confronti del lettore, in virtù di una distinzione particolare dell’arte della lettura. Secondo Wisława Szymborska, l’uomo “danza, canta si produce in gesti pieni di significato, assume pose, si acconcia, banchetta e celebra elaborate cerimonie. Non voglio sottovalutare l’importanza di simili passatempi, senza la vita umana scorrerebbe con una monotonia inimmaginabile e forse andrebbe allo sbando. Tuttavia si tratta di azioni di gruppo su cui aleggia, più o meno percettibile, quel certo odore da addestramento militare collettivo”. Il lettore invece è libero, “almeno nella misura in cui gli è concesso di esserlo. È lui a stabilire le regole del gioco, obbedendo soltanto alla propria curiosità. Gli è dato di leggere sia libri intelligenti, sia libri sciocchi, perché anche da quelli è possibile ricavare informazioni. È libero di non leggere un libro sino alla fine e di cominciarne un altro dall’ultima pagina, risalendo verso l’inizio. È libero di farsi una risatina là dove non è previsto, o di soffermarsi inaspettatamente su parole che poi ricorderà per tutta la vita”. Funziona proprio così.

martedì 2 marzo 2021

Pauline Klein

A ben guardare i film di Luc Besson riguardano l’identità che viene sdoppiata, negata, tradita. Certo, il tono è roboante, ironico e scoppiettante, ma dato che Pauline Klein è una scrittrice  molto attenta a filtrare le parole giuste, il richiamo non deve essere stato casuale. La sua forma di autodifesa è la creazione di un alias, visto che per La figurante si inventa “un personaggio padrone di ogni diritto sulla propria vita” e, di conseguenza, di “una parvenza di storia che non si avvicinasse tanto alla realtà”. Così facendo Camille Tazieff, protagonista e alter ego, si convince che “le cose sarebbero accadute lungo un tracciato di parole e di storie. Attraversare la vita senza dovervi davvero partecipare era possibile a patto di inventarsene una altrove”, tenendosi aperte tutte le possibilità e coltivando “un vertiginoso senso di libertà”. La maschera che indossa non è solo “un espediente che consiste nel tinteggiare la realtà per farne una storia”: Camille si barrica dietro una personalità double face e con quella si difende da una madre indolente, lascia Parigi per New York, dove sperimenta il lavoro in una galleria d’arte e la crisi dei mutui subprime e il sesso virtuale, un’estensione meccanica e infinita della solitudine. Tra personaggio e ruolo, la pornografia, che è il regno della doppiezza e dell’ambiguità, diventa un cardine simbolico, estremo ma appropriato, che per La figurante è una svolta, finché Camille e/o Pauline dicono all’unisono: “Ho inventato un personaggio estraneo a quante e quanti riescono a pensare il femminile e ciò che uomini e donne debbano o meno costruire insieme. Ho scelto, se posso dire, di non soffermarmi su quella parte dell’esistenza. Seguivo una determinata danza, un certo movimento. Mi osservavo in uno sguardo, guardavo gli altri acconsentire o indignarsi, giudicare quel che avevano da giudicare. Facevo del mio meglio. Del mio meglio per ottenere un’esistenza che non facesse troppo rumore. Per ottenere un mondo che non mi fosse d’intralcio. Scelsi di rendermi discreta, come si dice. Non si trattava di affrontare chissà che battaglia, solo una specie di lotta interna, una forma di resistenza a quanto veniva proposto. Passiva e solitaria. Un impegno preso nel torpore dell’intimità”. Il processo diventa enigmatico perché tra Pauline Klein, Camille Tazieff, e i rispettivi riflessi, l’educazione sentimentale tra Parigi e New York, andata e ritorno, e “la successione delle cose”, è come entrare in una stanza di specchi. La figurante è l’immagine e la proiezione delle donne che si susseguono, donne lasciate sole dentro città sfavillanti e troppo veloci, a partire dalla madre fino alla futura suocera, attraverso figure irraggiungibili (Eva Senguin, Diane Abbott), mentre gli uomini sono in dissolvenza, quasi trasparenti sullo sfondo, comunque sfuggenti (per non dire inutili), dato che nell’insieme “nessuna vita valeva più di un’altra, a cambiare erano solo le formulazioni”. La dichiarazione d’indipendenza conclusiva di Camille arriva a stretto giro di posta, come un’epigrafe a futura memoria: “La possibilità di formarsi, posarsi, trovarsi, inserirsi, io l’ho lasciata agli altri. Che s’inserissero insomma, tutti, io non ho mai potuto smettere di lasciarmi cullare dall’ambiguità del mondo”. Ma anche l’interprete ha diritto di replica e mentre cala il sipario una voce ci avverte che “a poco a poco andiamo alla deriva verso quel tipo di luogo comune. Le idee si ripiegano su se stesse, frammenti di vita e ricordi si accumulano, ci si ritrova tutti sulla stessa barca, vecchi e vecchie, a dirsi tutti le stesse cose. Al termine della vita continueremo a ritrovarci seduti sulle panchine a formulare frasi fatte alle quali poter aggrapparci”. L’inquietudine di Camille è la stessa di Pauline Klein: quella di muoversi su un piano parallelo e sfalsato rispetto alla realtà che da un lato è un baluardo dalle finzioni, dall’altro le utilizza proprio come protezioni, seguendo l’invito di Kafka che, tra gli Gli aforismi di Zürau, ammoniva: “Nella lotta tra te e il mondo asseconda il mondo”. A volte si riesce, a volte no: La figurante racconta la metamorfosi più difficile, quella di rivelarci a noi stessi.

lunedì 1 marzo 2021

Wim Wenders

Nei vent’anni racchiusi negli Scritti 1968-1988 che compongono Stanotte vorrei parlare con l’angelo, c’è una curiosa progressione che parte da Easy Rider e arriva a  Paris, Texas, due film antitetici eppure complementari, come se fossero le facce diverse di una stessa moneta. Wim Wenders comincia con l’attrazione fatale per rock’n’roll e per un’idea di America e attraverso il fluttuante universo del cinema (“Ogni immagine è anche un’unità conchiusa, una visuale, un momento di concentrazione, una durata nel tempo”) giunge ad affrontare un particolare senso della scrittura, arrivando a scoprire che “le storie, creando contesti, rendono la vita sopportabile”. Il percorso non è evidente ed emerge con una frequenza irregolare, che si nota soltanto con una visione panoramica e completa degli appunti di Wim Wenders. La scintilla iniziale è il fascino di Easy Rider e parte dalla percezione che “la musica americana viene sostituendo sempre più la produzione di senso che mano mano il cinema perde: dalla concentrazione di blues, rock’n’roll e country scaturisce qualcosa che deve venir colto non solo a livello auditivo ma anche visivo, in immagini come spazio e tempo”. L’istinto lo spinge anche più in là fino a dire che “i film sull’America dovrebbero essere fatti solo di totali, come già è per la musica sull’America”. Il rock’n’roll, forse anche più del cinema, è la costante degli appunti di Stanotte vorrei parlare con l’angelo: Van Morrison, i Creedence, gli Who, i Velvet, Monterey e la nascita di Sympathy For The Devil attraverso l’obiettivo di Godard, vista come “un’incredibile comunicazione, da un’intesa assolutamente impensabile, spontanea, giacché vedere l’utopia è cosa plausibile”, sono gli snodi non solo di una passione esclusiva, ma di un’interpretazione molto acuta di un linguaggio. Succede anche per il cinema per cui Wim Wenders arriva alla conclusione che “è prima di tutto una forma, la legge assoluta del cinema è che il film deve essere una forma, se no non racconta nulla. Per me la forma è, prima di tutto, avere un punto di vista preciso, prima di tutto come vedo e poi, forse, qualche volta, come penso. Nel fare un film io vedo molto e penso poco.”. I registi che affronta sono, tra gli altri Truffaut, Altman, Bergman, Fassbinder, e i loro film lo convincono che “nel rapporto fra immagine e storia, la storia è come un vampiro che cerca di succhiare il sangue all’immagine”. È la svolta che porta Stanotte vorrei parlare con l’angelo a concentrarsi sulla scrittura tout court e avviene intorno alla gestazione di Paris, Texas con Sam Shepard. Non è una coincidenza e, anche dal punto di vista musicale (l’indimenticabile capolavoro di Ry Cooder), è un cerchio che si chiude alla perfezione, anche se il rapporto di Wim Wenders con la scrittura resta contraddittorio: “In realtà credo che le storie siano menzogne; ma, MA in lettere maiuscole, ma le storie sono molto molto molto utili in quanto forma di sopravvivenza. Le storie sono una struttura artificiale che aiuta gli uomini a vincere le loro maggiori paure”. Eppure, nonostante le sue idiosincrasie (“Per me la scrittura è causa di angoscia; una sceneggiatura, un articolo, una lettera, è sempre la stessa cosa: le parole giungono inevitabilmente troppo tardi, come se questa fosse la loro natura”), Wim Wenders è molto generoso nell’affrontare lo spinoso argomento. Se da un punto di vista strettamente stilistico, “sembra logico che il narrare conduca a delle storie, nel senso che ogni parola vuol far parte di una frase e mi sembra che le frasi vogliano far parte di un contesto; dunque non è necessario forzare le parole perché facciano parte di una frase né le frasi perché facciano parte di una storia”, all’estremo opposto “è chiaro che c’è qualcosa di molto eccitante nelle storie; hanno molta forza, e un grande significato per la gente. Sembra che diano alle persone qualcosa che desiderano grandemente, ben più del semplice umorismo, o della suspense, o del divertimento. Penso che ciò a cui la gente aspira realmente è il contesto. E narrare vuol dire, qualsiasi cosa si narri, non fa differenza, creare un contesto. Le storie danno alla gente la sensazione che esista un senso e un ordine dietro l’incredibile confusione di tutti i fenomeni che ci circondano”. Qualche decennio dopo, con l’America alle spalle, e una dozzina di film sparsi per il pianeta, Wim Wenders si arrende e ammette “che le storie sono impossibili e che è impossibile vivere senza storie”. La destinazione è inevitabile, il bello è arrivarci.