Nell’Iran
attuale, Sudabeh è figlia di una famiglia benestante, che crede sia
giusto trovare per lei un marito allo stesso livello. I pensieri di
Subadeh però sono occupati da un altro amore, distante, per censo e
per formazione, dalle sue abitudini. Travolta dal tormento tra la
passione e l’intenzione di non deludere i genitori, la ragazza si
rivolge a una zia saggia e comprensiva, Mahbubeh, che l’accoglie
aprendo un vecchio scrigno di ricordi. “Quando sei innamorata lasci
che le cose vadano e vengano come vogliono, lasci che il mondo vada
sottosopra oppure no: che importanza ha?”, le dice la zia e a quel
punto è già chiaro che La scelta di Subadeh è solo il
prologo alla storia di Mahbubeh che, in un altro Iran, quello dello
Shah, ha vissuto pene e fatiche d’amore simili e parallele a quelle
della nipote. In un trionfo di giardini profumati, pranzi ricchi di
sapori, dialoghi coloriti e allegorici, Mahbubeh racconta come ha
schivato tutti i matrimoni combinati dalla famiglia, perché
innamorata di Rahim, il garzone del falegname del quartiere. La vita
con Rahim (e un’antipatica e invadente suocera) invece del
“paradiso in terra” si rivelerà impossibile (e brutale), tanto è
vero che, per Mahbubeh, il massimo della felicità “se di felicità
si può parlare, si manifestava con un sorriso amaro”. La
separazione tra i sogni a occhi aperti dell’infatuazione, la
passione della rivolta di Mahbubeh contro le imposizioni e la dura
realtà genera un corposo romanzo, dove i personaggi femminili
imperano in tutte le direzioni. Il senso del melodramma con cui
Fattaneh Haj Seyed Javadi sfoggia una scrittura florida e
affascinante non le impedisce di collocare La scelta di Mahbubeh
nel contesto delle trasformazioni e delle contraddizioni dell’Iran
del ventesimo secolo, consentendo al lettore di farsi trasportare
dalle atmosfere avvolgenti del romanzo perché poi, come dice
Nazanin, la madre di Mahbubeh, “la bellezza è negli occhi di chi
la possiede”. Non è l’unica iperbole: tutta La scelta di
Sudabeh è costellata di versi poetici, metafore, un florilegio
linguistico che riflette l’intensa tradizione della narrativa
dell’Iran, dove, come ha raccontato la stessa Fattaneh Haj Seyed
Javadi, “la letteratura è all’ordine del giorno e anche le
persone con un grado di istruzione relativo amano esprimersi
attraverso versi e proverbi”. I contrasti sono resi con un
meticoloso lavoro di intarsio attorno ai “legami di sangue” e
alle trame che coinvolgono famiglie e parentele, così come con
minuziosa descrizione della vita quotidiana in una cittadina
dell’Iran. Dalle colorite espressioni per descrivere lo svolgersi
delle stagioni al labirinto di dettagli di tradizioni, regole e
usanze, per non dire dei dialoghi forbiti e cesellati battuta per
battuta La scelta di Sudabeh è un fuoco d’artificio senza
fine che non nasconde, nelle pieghe dei tormenti di Mahbubeh, un
velo di nostalgia per altri tempi, quando erano “tutti felici,
ognuno a modo proprio, ognuno con i propri pensieri e i propri
desideri”. Un romanzo da scoprire lasciandosi guidare dalla mano
sicura di Fattaneh Haj Seyed Javadi in un panorama, sì, molto
diverso e distante, ma dove le scelte e i loro effetti pesano come in
ogni altra parte del mondo.
sabato 30 dicembre 2017
martedì 19 dicembre 2017
Dubravka Ugrešić
Scriveva
Josip Osti, lo straordinario poeta del Libro
dei morti di Sarajevo: “Non
chiedere se questa guerra è realtà, o un ricordo del passato”. Il
tempo nei Balcani ha sempre avuto un valore storico biunivoco.
Bisogna ricordare per esistere. Bisogna dimenticare per sopravvivere.
Solo in apparenza è una contraddizione: la frammentazione politica,
territoriale e umana che ha generato la migrazione e l’esilio di
interi popoli, a partire dai loro intellettuali, Dubravka Ugrešić
compresa, nasce proprio dalla rottura di quel difficile, se non
impossibile, equilibrio tra memoria ed oblio. Lo sforzo in Il
museo della resa incondizionata è
apprezzabile perché rende alla perfezione il momento del collasso
visto che Dubravka Ugrešić è una scrittrice con il gusto maniacale
del particolare, del dettaglio, dell’infinitesimale e nel suo
essere straniera riesce veramente a vedere “l’oscurità del
mondo”, come la definisce Joseph Brodskij. Madre, figlia, amiche,
donne: i ricordi si intrecciano partendo da un’immagine scolorita e
seguendo i percorsi di un esilio infinito dato che “la vita non è
altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album
esiste. Quello che nell’album manca, non è nemmeno accaduto”. La
conclusione a cui giunge Dubravka Ugrešić è che “la creazione
della realtà è l’attività della vera letteratura” e la
responsabilità di supplire a ciò che manca è implicita nella
connotazione che determina Il museo
della resa incondizionata. Compresa
l’apologia del dilettante, un passaggio quanto mai utile per
comprendere la predisposizione (molto istintiva) di Dubravka Ugrešić:
“Il vantaggio del dilettantismo rispetto al professionismo
(chiamiamolo così in mancanza di un termine migliore), o addirittura
la differenza tra i due, è contenuta in un determinato punto di
dolore indefinito, dolore che l’opera amatoriale, come le
percezioni extrasensoriali, può centrare suscitando di conseguenza
un’identica sensazione nell’osservatore o nel lettore. Le
sontuose strategie della cosiddetta opera d’arte raramente centrano
tale punto. Il punto di dolore è meta casuale solo dei beati
dilettanti, meta che unicamente loro, senza nemmeno sapere di che si
tratti, riescono a centrare”. Allora è un’immagine,
un’istantanea, il tentativo di fissare un attimo, anche
nell’infinita terra di nessuno dell’esilio europeo: “E d’un
tratto mi venne in mente che a Lisbona avevo comprato un biglietto
della lotteria e vinto un raro premio: la momentanea sensazione che
niente, in realtà, è perduto, che perciò non c’è motivo di
lamentarsi, che tutto esiste da qualche parte, così come noi
esistiamo sparpagliati in ogni dove, che tutto da qualche parte si
somma, che tutto è collegato”. Se bastasse una piccola epifania,
sarebbe tutto risolto: il limite intrinseco è che Il
museo della resa incondizionata si
attorciglia attorno alle immagini, ai ricordi, persino ai sogni (“Il
sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal
presente e dal futuro”) e tutto ciò è insieme metafora e
realtà dell’esilio, che diventa una gabbia decadente, e a tratti
anche autoreferenziale. Un libro, sì, “prezioso”, come ha detto
qualcuno, ed è vero come scrive Predrag Matvejević
nell’introduzione, che “la letteratura non ha l’obbligo di dare
giudizi”, ma avrebbe anche tutte le potenzialità per ripristinare
l’equilibrio tra oblio e memoria che qui,
nelle floride pagine di Dubravka Ugrešić, si perdono attorno ad una
fotografia ingiallita, un ricordo che non serve più.
domenica 17 dicembre 2017
Ryszard Kapuściński
Dalle alture
del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a
Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive,
racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature
e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli
incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai
risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage
risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era
postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di
essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non
soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e
militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le
pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto
attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione
della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di
irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere
universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni.
Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte
centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a
meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano
dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La
Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre
fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra
metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica,
è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In
quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i
politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare,
stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di
silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della
morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto
che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha
ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è
colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha
paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle
torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle
connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato
umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti
non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra
palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si
permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla
terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”.
Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito
da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il
bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel
raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni
si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire
desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano
comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più
semplicemente, chiunque pensi”.
Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte.
sabato 16 dicembre 2017
Ben Watt
Ricoverato
d’urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt, musicista
inglese noto ai più per la collaborazione con la moglie Tracey Thorn
negli Everything But The Girl, si deve confrontare con gli orizzonti
della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di
variabili specifiche. A prima vista, il suo “caso speciale” non
sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e
perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è
tutto colpa di un “modo di vivere privo di senso”. D’altra
parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il
personale medico riesce a scoprire è un “disordine
multisistemico”, definizione tanto elaborata quanto vaga.
Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più
intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell’osservare
la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri,
Ben Watt ricorda: “Mi sembrava di essere una creatura in
metamorfosi, che passa dalla vita sott’acqua a quella sulla
terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se
navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del
tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì
bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso
tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i
successivi venti minuti o giù di lì”. Ci vogliono diverse
settimane prima che gli venga diagnosticata “una malattia
autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto
raro che colpiva individui con trascorsi d’asma e febbre da fieno i
cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano
dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione
antigenica”. Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche
(all’intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale
tutta l’estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il
diario dettagliato e puntiglioso della degenza, quando doveva
combattere con tutta la terminologia scientifica, le preoccupanti
visioni del futuro e lo spasmodico desiderio di “essere in qualche
campo all’aperto in estate, col cielo sopra la mia testa, e Tracey
(Thorn) che mi correva davanti, fuori dal tempo reale”. Con grazia,
a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra
fragilità, di solito nascosta da “un differente ritmo che si
svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo,
una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel
nostro cranio per tutte le ore di veglia”. Costretto a spogliarsi
(metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e
per esteso a tutti i “pazienti”, resta un’unica protezione
nell’elogio della normalità fino a quando un senso non giunge
“dalla solitudine e dalla calma, dall’accettazione,
dall’adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se
stessi”. Al libro manca soltanto il lieto fine: dopo essersi
ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività
discografiche, pubblicando tra l’altro uno dei suoi album più
belli in assoluto, Fever Dream.
venerdì 15 dicembre 2017
Panos Karnezis
Durante
una campagna bellica del 1922, una brigata dell’esercito greco
cerca di sopravvivere, impigliata in una guerra senza senso, se mai
la guerra in sé ne avrà uno, in rotta nel nulla del deserto
ottomano. Incalzata dal nemico e dai suoi spettri, la ritirata
diventa Il labirinto in cui si confondono i suoi protagonisti.
Un comandante morfinomane e consumato dai rimorsi, misteriosi
provocatori marxisti che si nascondono tra gli ufficiali, un
cappellano sornione e sbandato e tutti i soldati che cercano di
sopravvivere un giorno dopo l’altro. Il percorso, quasi biblico nel
suo svolgersi contro la fame, la polvere, il destino, porta
lentamente alla disgregazione dell’organizzazione militare, ma
anche della più intima e semplice delle speranze, ovvero quello di
lasciare il fronte ancora interi. L’orizzonte psicologico in cui ci
si perde con Il labirinto è proprio lì e Panos Karnezis
riesce a sviluppare con meticolosa precisione la vita quotidiana di
soldati sconfitti e sofferenti, che si regge su pratiche semplici e
dirette: “Quando vengono meno il valore, il patriottismo e la fede
religiosa, è la disciplina a offrire un po’ di consolazione,
dimostrando che nel mondo esiste ancora qualche forma di ordine. E
basta così poco per raggiungere certi risultati: una lucidatina a un
paio di stivali infangati, la sostituzione di alcuni bottoni
mancanti, una spallina strappata ricucita e sistemata di nuovo al
posto giusto”. Come si vedrà, attraversando Il labirinto,
non sempre quelle attenzioni sono sufficienti, soprattutto quando i
soldati si ritrovano, in un piccola città dell’Anatolia, a
confrontarsi con tutto quello che pensavano di aver dimenticato. Il
contatto con una parvenza di civiltà scatena reazioni impreviste e
acuisce tutte le fratture che serpeggiano nella brigata, il cui
destino è andare oltre, verso il mare, l’ultima tappa per tornare
a casa sani e salvi. L’abilità, non comune, di Panos Karnezis non
è solo nel ricreare le dolorose (a volte, tragiche) condizioni
quotidiane, ma anche la complessità sul piano emotivo della
composita umanità della brigata. C’è anche qualcosa in più. Se
l’atmosfera generale, dal deserto a quel nemico che non arriva mai,
rimanda facilmente a Dino Buzzati, nell’asprezza che Il
labirinto si porta dietro non mancano di giungere appunti che si
legano chiaramente con l’attualità, dalla disinformazione nei
gironi della sconfitta (“Dal momento in cui le cose hanno
cominciato a volgere al peggio, si sono messi a ripubblicare i vecchi
articoli cambiando i nomi e le date”) a una visione non casuale
della storia, dei suoi cicli e del suo tempo (“La storia si misura
con i secoli: non con quanto è accaduto ieri”). Come se il 1922
non fosse così lontano, perché la guerra non cambia mai e, nella
sua fuga, la brigata assorbe e rispecchia tutto un mondo brullo e
arido come la steppa anatolica. Con questo, Il labirinto non
manca di momenti grotteschi e (molto) divertenti, piccoli abbagli
luminosi di un viaggio tormentato, drammatico nella sua consistenza
ed epico nello svolgersi.
giovedì 14 dicembre 2017
Ian McEwan
Il
funerale di Molly Lane è soltanto un’occasione per mettere in
scena l’impossibile congruenza delle pubbliche relazioni. La
conoscevano tutti, soltanto che il tempo ha scarnificato gli esili
fili che annodavano le vite. Nel caso di John Julian Garmony, gli
anni passati sono coincisi con la carriera: è ministro
spregiudicato e ambiguo, e , a breve termine, ha un luminoso futuro
politico davanti. Gli altri amici, convenuti già nell’incipit di
Amsterdam, sono Clive, compositore e direttore d’orchestra,
e Vernon, direttore di un giornale bisognoso di cure, strategie e
lettori. La dipartita di Molly lascia trasparire molte cicatrici e,
nelle pieghe del suo lascito, compaiono a sorpresa alcune foto
(molto) imbarazzanti di Julian. Vernon deve decidere se pubblicarle
oppure lasciarle nell’oscurità. Senza dubbio, quelle immagini
hanno il potere di stroncare ogni velleità di Julian, ma nel dubbio
Vernon coinvolge anche Clive e a quel punto il conflitto di Amsterdam
diventa evidente perché “sappiamo così poco gli uni degli altri.
Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio
fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi
presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una
rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del
tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo
schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero,
dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente”. Non c’è
dubbio che, anche in Amsterdam, Ian McEwan abbia assemblato la
decadenza dei costumi, l’intreccio linguistico, e l’immaginario
stesso di una nazione e, insieme, di un’idea di vita sociale. Fin
dall’inizio, è un tentativo di ripetere le geometrie di L’amore
fatale, un romanzo che gli è contemporaneo e parallelo:
atmosfere, temi e persino i personaggi sembrano gli stessi, sempre
trascinati dai loro dilemmi, sempre coinvolti nelle distorsioni tra
pubblico e privato, nella biunivocità di rapporti che tendono a
confondere la trama con il pensiero, i dialoghi con le descrizioni,
l’ambiente con il paesaggio, il comico con il grottesco. Il
paradosso è che l’abilità di Ian McEwan è proprio questa e, in
Amsterdam, ne è consapevole al punto di rivelare senza pudore
la chiave di volta, quando scrive: “La comunicazione scritta
concede ampio spazio al fraintendimento. Basta spostare l’enfasi di
quanto si legge da un termine a un altro per modificare un messaggio.
La stessa parola del resto può avere più di un significato: rifiuto
può indicare l’atto di dire no a qualcosa che si ritiene
sbagliato, ma può essere anche un avanzo, un sinonimo di
spazzatura”. Amsterdam sembra davvero muoversi e giocare
dentro questa compiaciuta certezza e proprio dove Ian McEwan offriva
immagini rapide, brucianti, immediate, qui sembra crogiolarsi
nell’eccezionale qualità della scrittura, ormai conclamata. Ne
esce un romanzo costruito con mestiere, raffinato e seducente, ma che
lascia molti interrogativi irrisolti e che sembra suggerire, più che
chiarire, appuntare, più che descrivere, inventare, più che
definire. E’ giusto così, in fondo, perché Ian McEwan gioca
spesso con il lettore sul filo del rasoio, solo che in Amsterdam
forse ha barato un po’.
mercoledì 13 dicembre 2017
Levi Henriksen
Ormai
abbandonata ogni velleità di scoprire una musica davvero autentica,
il produttore discografico Jim Gystad rimane folgorato
dall’esibizione di un trio vocale nel corso del battesimo del
figlio di un amico. Lo stupore è tanto e tale che confessa al suo
ospite: “Ricordi come ci sentivamo quando da ragazzi scoprivamo
qualcosa di diverso? La prima volta che abbiamo ascoltato un nuovo
artista, o letto un libro, o guardato un film, o baciato una
ragazza... Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti è
capitato di sentirti così?”, e la domanda rimane sospesa
nell’aria, dando il via al romanzo che Levi Henriksen (classe 1964)
accorda sui toni agrodolci della commedia. La leggerezza di Norwegian
Blues però non è mai banale perché, sempre con garbo e ironia,
lascia emergere più di una possibilità di approfondimento. Intanto,
i cantanti che hanno emozionato Jim Gystad sono una famiglia, i
Thorsen, composta dalle sorelle, Tamar/Tulla (il secondo nome cela
un’altra storia che scorre parallela a Norwegian Blues) e
Maria, e dal fratello Timothy. Nella loro carriera hanno soltanto
interpretato inni religiosi, spesso con arrangiamenti fantasiosi ed
eccentrici, ma sempre rispettosi e adeguati alle circostanze. In
gioventù hanno inciso e pubblicato dozzine di dischi e sono stati
acclamati in tour negli Stati Uniti, ma, arrivati a una certa età,
si sono ritirati nella campagna norvegese e non vogliono nemmeno
sentire nominare per sbaglio l’industria discografica. Non hanno
tutti i torti (anzi), perché come dice il protagonista di Norwegian
Blues, “la gente non vuole la realtà. Vuole un reality show
dal cast accuratamente selezionato”. Ammaliato dalle loro armonie,
Jim Gystad abbandona la città e parte all’inseguimento dei
Thorsen, con l’idea di convincerli a tornare in studio di
registrazione per siglare un ultimo capolavoro, e per assecondare il
“bisogno di recuperare la vera essenza della musica. La sensazione
di produrre qualcosa che riesce davvero a toccare l’animo delle
persone”. La rocambolesca avventura lascia affiorare un paesaggio e
un’umanità, quelli della Norvegia, che non sono molto diversi dal
resto del mondo: lo sfruttamento insensato del territorio, l’avidità
e la superficialità sono gli ostacoli con cui deve confrontarsi Jim
Gystad, più della consolidata ritrosia dei Thorsen. Con l’evolversi
della storia, nella seconda parte di Norwegian Blues, Levi
Henrikesn sposta l’attenzione dall’ossessione per la musica,
verso gli affetti, i legami, i sentimenti, la famiglia e, non ultima,
la casa. Jim Gystad sarà costretto a scegliere proprio tra modi
diversi di intendere, sia la vita che la musica. Compreso il finale
(a sorpresa), Norwegian Blues lascia intendere che la tanto
agognata autenticità non è un elemento delle strategie di marketing
o una rarità destinata agli studi antropologici e, in effetti, non è
nemmeno un traguardo definitivo. E’ il riflesso naturale di valori
vissuti e difesi fino in fondo. Per dirlo con i Thorsen, “la musica
parla di quello che succede dalla vita in su, non più in basso”.
Una piccola fiaba moderna.
martedì 12 dicembre 2017
Derek Raymond
E’
difficile fare il sergente alla A14 (che non è un’autostrada, ma
la sezione Casi Irrisolti della polizia di Chelsea) quando si ha una
moglie pazza ricoverata in un manicomio perché ha ucciso la figlia,
non si sopportano i propri superiori (“La mia non è mancanza di
rispetto, ma di pazienza. Il mio guaio è che non riesco a sopportare
gli idioti. Mi preoccupo della giustizia, non dei gradi”) ma
soprattutto, non si cerca la giustizia, ma la verità. Una sottile
distinzione che, in Aprile è il più crudele dei mesi, viene
sviscerata da Derek Raymond con un’aderenza totale al suo
protagonista: il noir non è inteso soltanto come ambientazione,
atmosfera, stile o genere, ma è proprio un modo per vedere la vita,
o il dramma della vita. “Dove vado io, là vanno i fantasmi. Io
vado là dove si trova il male”, dice il tormentato sergente della
A14 ed è un riflesso spontaneo che si traduce in quello che sostiene
lo stesso Derek Raymond ovvero che “la funzione del romanzo noir è
di impedire alle persone di dimenticare l'orrore che regna”. Questa
dura e nobile definizione (è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve
pur fare) trova una sua logica in Aprile è il più crudele dei
mesi. Al nostro sergente della A14 viene recapitato un caso che
comincia da quello che rimane di un cadavere: cinque sacchetti di
plastica che contengono, adeguatamente sezionato e bollito, un corpo
umano. La prima reazione è, a sua volta, un tentativo di individuare
un senso, difficile se non impossibile da trovare davanti a quello
scempio: “Cominciai a immedesimarmi nell’assassino. Pensavo: sono
pazzo. Sì, ma dobbiamo tutti sforzarci di sembrare normali”. Da
quel macabro ritrovamento si dipana un intreccio che comprende
malavitosi della peggior specie, agenti segreti e doppiogiochisti di
professione, politici corrotti e tutta una fauna ambigua che è
sempre pronta a tirare il grilletto. Dal canto suo, Derek Raymond non
spreca una riga, una parola. I personaggi sono chiari, evidenti, dai
contorni netti e precisi, a partire dall’autoritratto del sergente
dell’A14: “Le mie indagini le conduco a modo mio, è il grande
vantaggio di lavorare da solo. E se la cosa non garba ai miei
superiori, possono pure cacciarmi. Probabilmente l’avrebbero già
fatto, solo che non sono così facile da rimpiazzare”. I dialoghi
hanno la forza bruciante di chi sa gestire la scrittura con
naturalezza (“Perché te la stai prendendo come me? Perché hai
abitudini pericolose e sei stato dentro per omicidio. Hai strangolato
un uomo, e ti sto controllando com’è prassi, ma anche perché la
tua faccia potrebbe essere proprio il pezzo mancante del puzzle di
una nuova indagine che sto svolgendo”) e senza tanti patemi
stilistici. La storia è una rete infinita di intrighi dove le
psicologie sono determinanti almeno quanto i paesaggi perché Londra
e i sobborghi sono (come in tutti i suoi romanzi) uno scenario
perfetto e tenebroso. Aprile è il più crudele dei mesi è un
ottimo biglietto da visita per un autore che ha il merito di aver
elevato il noir, o di essersi abbassato fino a sporcarsi le mani: in
entrambi i casi, un bel coraggio.
sabato 9 dicembre 2017
John Berger
Le
ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che
riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si
tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci,
lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger
ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura
(“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e
ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di
più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in
quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del
capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri
negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa
tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione
incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi,
precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni
(“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di
parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e
sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria
e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La
soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di
noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una
bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo
riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la
confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il
suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie
Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni
riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di
indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa,
in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili,
sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è
molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma
della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle
osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith,
Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits,
dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come
un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta
(“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione
immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo
acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi
passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così
soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire,
quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori
impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene
lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi
accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è
proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a
confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci
sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a
farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che
come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di
una) da non dimenticare.
sabato 2 dicembre 2017
Enrique Vila-Matas
Spiegare
un complotto non è facile. Figurarsi spiegarne uno che non aveva
scopi, se non quello di trovare una forma all’illusione che, a ben
vedere, è già una sorta di cospirazione. Avanziamo a piccoli passi,
e cominciamo dall’inizio quando Tristan Tzara ispira, come lo
descrive l’alchimista Aleister Crowley “un genere letterario che,
secondo lui, è caratterizzato dal fatto di non avere un sistema da
proporre, ma solo un’arte di vivere. In un certo senso, più che
letteratura è vita”. Ecco la pietra angolare del tempio della
società shandy che tradotta e aggiornata si risolve nell’ordine
del giorno che prevede per tutti i (segreti) congiurati “spirito
innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi,
nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio
doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte
dell’insolenza”. E’ un programma vasto e criptico da
affrontare, con punti di criticità assoluta già nella sua
conclusione (“E’ bene considerare che l’insolenza, quando si
manifesta, lo fa sempre in relazione agli altri, attraverso un
movimento che tiene conto intensamente dell’altro”) e che nel
mondo in cui vige ancora una maledetta realtà appariva una chimera.
Gli stessi shandy tendevano a soluzioni di comunicazione improprie
come quella usata da Francis Picabia: “Parlavamo in silenzio e la
nostra conversazione era tra le più interessanti che si possano
immaginare; altre parole, pronunciate e ordinate per essere udite,
non avrebbero mai potuto ottenere l’effetto di tale silenzio”. O
pensavano rivolti a dimensioni parallele dove le contraddizioni erano
l’aria da respirare come scriveva George Antheil: “L’inutile è
bello perché meno reale dell’utile, che permane a lungo; invece il
meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale, si ferma dov’è,
rimane quello che è, vive libero e indipendente”. Tutto ciò (e
molto altro: dagli odradek al suicidio, dall’Europa tra le due
guerre mondiali alla boîte en valise di Marchel Duchamp) non avrebbe
senso confinato all’interno della cosiddetta normalità, ma anche
nei contorni di un’utopia. Per identificare, anche da un punto di
vista geografico, la “letteratura portatile” degli shandy ci
viene in soccorso l’epigrafe di Paul Valéry che ha il compito
(assolto con formula piena) di riassumere, introdurre e accendere la
Storia abbreviata della letteratura
portatile raccontata da Enrique Vila-Matas: “L’infinito,
mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo
esiste solamente sulla carta”. Le dimensioni, contano, eccome, la
parafrasi di Enrique Vila-Matas parte dalla “storia portatile della
letteratura abbreviata” di Tristan Tzara, nei cui piccoli libri era
nascosta una magia (perché “miniaturizzare significa anche
occultare”) che Marchel Duchamp ha rivelato così: “Ciò che
viene ridotto diviene in un certo modo libero di significato. La sua
piccolezza è allo stesso tempo un tutto e un frammento. L’amore
per il minuscolo è un’emozione infantile”. Da lì Enrique
Vila-Matas conduce alla ricostruzione dei legami e dei dialoghi di
una compagnia internazionale dove è centrale l’intersecarsi di
suggestioni, amicizie, scambi e confronti in cui hanno avuto ruoli da
protagonisti, tra gli altri, anche Francis Scott Fitzgerald, Georgia
O’Keefe e Walter Benjamin, convenuti e congiurati nel nome
dell’arte e dell’allegria.
venerdì 1 dicembre 2017
Jenni Fagan
Entrare in Pellegrini del
sole è come penetrare in un igloo ricoperto da più livelli di neve
e di ghiaccio che si sono sedimentati uno sopra l’altro. La parte
superficiale dell’involucro è un romanzo distopico e apocalittico
che ipotizza un’incombente glaciazione. L’ipotesi accredita già
Jenni Fagan in una dimensione più oculata rispetto agli strilli del
riscaldamento del pianeta, perché come varie fonti scientifiche
concordano, quella è soltanto la causa, gli effetti rimangono
imprevedibili. Tra questi, il rischio di una nuova era glaciale, che
dipenda o meno dalla sconsideratezza del genere umano, era paventata
parecchi anni fa da Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel
1983, nel suo Ballando nudi nel campo della mente, che rimane una
lettura tanto provocatoria quanto intelligente. Ammesso lo scenario,
che tra l’altro ha tutte le sue valenze metaforiche in funzione
dell’isolamento, della solitudine e del critico bollettino
meteorologico dei rapporti umani, sotto e dentro la coltre di gelo si
snoda una contorta saga famigliare costruita attorno a una serie di
formidabili personaggi femminili (Gunn, Constance, Vivienne e
Stella). L’epicentro su cui siedono i Pellegrini del sole, è
proprio la storia di Stella. Stella è diversa, è incastrata in un
albero genealogico che serpeggia da una lontana isola scozzese fino a
Londra, irto di segreti e misteri. Nel villaggio di roulotte e camper
dove si è rifugiata con la madre, Constance, vivono “come se tutto
ciò che un tempo era in ordine fosse andato in malora, così
velocemente che nessuno riusciva a reggere il passo”. Non a caso
campano campano riciclando, restaurando e rivendendo mobili che
trovano nella discarica. Per inciso, viene da pensare che il vero
problema dell’umanità sia lo spreco, piuttosto che le variazioni
climatiche. Quando nella stralunata comunità di Clachan Falls, in
cima alla Scozia, arriva Dylan McRae, la sfida della mera
sopravvivenza è complicata dallo sciogliersi degli equilibri. Dylan
(attenzione al nome) proviene da Londra dove ha ereditato il
fallimento di un cinema d’essai, il Babylon, gestito dalla madre e
dalla nonna (tra i registi programmati con maggior regolarità,
Werner Herzog), entrambe scomparse in rapida successione. Se il
cinema è un lascito di Gunn (la nonna), da Vivienne (la madre)
riceve una roulotte a Clachan Falls ed eccolo lì, tra i Pellegrini
del sole. Dylan è alto, introverso, riservato e colto, tutte qualità
che servono fino a un certo punto quando “il mondo è un luogo
incantato fatto tutto di ghiaccio”. Con il termometro che ormai non
sa più cosa indicare spostarsi diventa sempre un rischio perché
l’ipotermia fa perdere l’orientamento. Restare chiusi in casa,
nei caravan dove lo spazio è razionato, porta a impazzire. Rimane
soltanto una drastica riduzione all’essenziale delle funzioni
vitali: provare a restare al caldo dentro strati di vestiti e
coperte, farsi venire i calli a furia di spaccare legna, ascoltare
gli aggiornamenti nella speranza di intercettare una buona notizia
che non arriva. La costruzione di Jenni Fagan è semplice e
progressiva: si limita a seguire i suoi protagonisti nella faticosa
lotta per la sopravvivenza, eppure nel linguaggio dissemina un sacco
di strambe e colorite associazioni dylaniane (nel senso di Bob Dylan)
che forniscono tono e fragranza al racconto. Pur essendo declinato al
femminile, in Pellegrini del sole, l’elemento maschile è
catalizzatore di tutte le svolte: alla ricerca di se stessa, Stella
trova un importante interlocutore in Dylan, che a sua volta diventerà
presto un amico (e qualcosa di più) anche per Constance. In qualche
modo bisogna pur inventarsi un modus vivendi, ed ecco che Stella
diventa Stella e Constance accetta Dylan che si ingegna a distillare
gin. Sarebbe bello pensare che vissero felici e contenti, ma il
passato incombe e con meno cinquanta a pochi giorni dalla primavera,
il futuro è tutto da scrivere.
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