sabato 30 dicembre 2017

Fattaneh Haj Seyed Javadi

Nell’Iran attuale, Sudabeh è figlia di una famiglia benestante, che crede sia giusto trovare per lei un marito allo stesso livello. I pensieri di Subadeh però sono occupati da un altro amore, distante, per censo e per formazione, dalle sue abitudini. Travolta dal tormento tra la passione e l’intenzione di non deludere i genitori, la ragazza si rivolge a una zia saggia e comprensiva, Mahbubeh, che l’accoglie aprendo un vecchio scrigno di ricordi. “Quando sei innamorata lasci che le cose vadano e vengano come vogliono, lasci che il mondo vada sottosopra oppure no: che importanza ha?”, le dice la zia e a quel punto è già chiaro che La scelta di Subadeh è solo il prologo alla storia di Mahbubeh che, in un altro Iran, quello dello Shah, ha vissuto pene e fatiche d’amore simili e parallele a quelle della nipote. In un trionfo di giardini profumati, pranzi ricchi di sapori, dialoghi coloriti e allegorici, Mahbubeh racconta come ha schivato tutti i matrimoni combinati dalla famiglia, perché innamorata di Rahim, il garzone del falegname del quartiere. La vita con Rahim (e un’antipatica e invadente suocera) invece del “paradiso in terra” si rivelerà impossibile (e brutale), tanto è vero che, per Mahbubeh, il massimo della felicità “se di felicità si può parlare, si manifestava con un sorriso amaro”. La separazione tra i sogni a occhi aperti dell’infatuazione, la passione della rivolta di Mahbubeh contro le imposizioni e la dura realtà genera un corposo romanzo, dove i personaggi femminili imperano in tutte le direzioni. Il senso del melodramma con cui Fattaneh Haj Seyed Javadi sfoggia una scrittura florida e affascinante non le impedisce di collocare La scelta di Mahbubeh nel contesto delle trasformazioni e delle contraddizioni dell’Iran del ventesimo secolo, consentendo al lettore di farsi trasportare dalle atmosfere avvolgenti del romanzo perché poi, come dice Nazanin, la madre di Mahbubeh, “la bellezza è negli occhi di chi la possiede”. Non è l’unica iperbole: tutta La scelta di Sudabeh è costellata di versi poetici, metafore, un florilegio linguistico che riflette l’intensa tradizione della narrativa dell’Iran, dove, come ha raccontato la stessa Fattaneh Haj Seyed Javadi, “la letteratura è all’ordine del giorno e anche le persone con un grado di istruzione relativo amano esprimersi attraverso versi e proverbi”. I contrasti sono resi con un meticoloso lavoro di intarsio attorno ai “legami di sangue” e alle trame che coinvolgono famiglie e parentele, così come con minuziosa descrizione della vita quotidiana in una cittadina dell’Iran. Dalle colorite espressioni per descrivere lo svolgersi delle stagioni al labirinto di dettagli di tradizioni, regole e usanze, per non dire dei dialoghi forbiti e cesellati battuta per battuta La scelta di Sudabeh è un fuoco d’artificio senza fine che non nasconde, nelle pieghe dei tormenti di Mahbubeh, un velo di nostalgia per altri tempi, quando erano “tutti felici, ognuno a modo proprio, ognuno con i propri pensieri e i propri desideri”. Un romanzo da scoprire lasciandosi guidare dalla mano sicura di Fattaneh Haj Seyed Javadi in un panorama, sì, molto diverso e distante, ma dove le scelte e i loro effetti pesano come in ogni altra parte del mondo.

martedì 19 dicembre 2017

Dubravka Ugrešić

Scriveva Josip Osti, lo straordinario poeta del Libro dei morti di Sarajevo: “Non chiedere se questa guerra è realtà, o un ricordo del passato”. Il tempo nei Balcani ha sempre avuto un valore storico biunivoco. Bisogna ricordare per esistere. Bisogna dimenticare per sopravvivere. Solo in apparenza è una contraddizione: la frammentazione politica, territoriale e umana che ha generato la migrazione e l’esilio di interi popoli, a partire dai loro intellettuali, Dubravka Ugrešić compresa, nasce proprio dalla rottura di quel difficile, se non impossibile, equilibrio tra memoria ed oblio. Lo sforzo in Il museo della resa incondizionata è apprezzabile perché rende alla perfezione il momento del collasso visto che Dubravka Ugrešić è una scrittrice con il gusto maniacale del particolare, del dettaglio, dell’infinitesimale e nel suo essere straniera riesce veramente a vedere “l’oscurità del mondo”, come la definisce Joseph Brodskij. Madre, figlia, amiche, donne: i ricordi si intrecciano partendo da un’immagine scolorita e seguendo i percorsi di un esilio infinito dato che “la vita non è altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album esiste. Quello che nell’album manca, non è nemmeno accaduto”. La conclusione a cui giunge Dubravka Ugrešić è che “la creazione della realtà è l’attività della vera letteratura” e la responsabilità di supplire a ciò che manca è implicita nella connotazione che determina Il museo della resa incondizionata. Compresa l’apologia del dilettante, un passaggio quanto mai utile per comprendere la predisposizione (molto istintiva) di Dubravka Ugrešić: “Il vantaggio del dilettantismo rispetto al professionismo (chiamiamolo così in mancanza di un termine migliore), o addirittura la differenza tra i due, è contenuta in un determinato punto di dolore indefinito, dolore che l’opera amatoriale, come le percezioni extrasensoriali, può centrare suscitando di conseguenza un’identica sensazione nell’osservatore o nel lettore. Le sontuose strategie della cosiddetta opera d’arte raramente centrano tale punto. Il punto di dolore è meta casuale solo dei beati dilettanti, meta che unicamente loro, senza nemmeno sapere di che si tratti, riescono a centrare”. Allora è un’immagine, un’istantanea, il tentativo di fissare un attimo, anche nell’infinita terra di nessuno dell’esilio europeo: “E d’un tratto mi venne in mente che a Lisbona avevo comprato un biglietto della lotteria e vinto un raro premio: la momentanea sensazione che niente, in realtà, è perduto, che perciò non c’è motivo di lamentarsi, che tutto esiste da qualche parte, così come noi esistiamo sparpagliati in ogni dove, che tutto da qualche parte si somma, che tutto è collegato”. Se bastasse una piccola epifania, sarebbe tutto risolto: il limite intrinseco è che Il museo della resa incondizionata si attorciglia attorno alle immagini, ai ricordi, persino ai sogni (“Il sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal presente e dal futuro”) e tutto ciò è insieme metafora e realtà dell’esilio, che diventa una gabbia decadente, e a tratti anche autoreferenziale. Un libro, sì, “prezioso”, come ha detto qualcuno, ed è vero come scrive Predrag Matvejević nell’introduzione, che “la letteratura non ha l’obbligo di dare giudizi”, ma avrebbe anche tutte le potenzialità per ripristinare l’equilibrio tra oblio e memoria che qui, nelle floride pagine di Dubravka Ugrešić, si perdono attorno ad una fotografia ingiallita, un ricordo che non serve più.

domenica 17 dicembre 2017

Ryszard Kapuściński

Dalle alture del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive, racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni. Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica, è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare, stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”. Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più semplicemente, chiunque pensi”. Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte. 

sabato 16 dicembre 2017

Ben Watt

Ricoverato d’urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt, musicista inglese noto ai più per la collaborazione con la moglie Tracey Thorn negli Everything But The Girl, si deve confrontare con gli orizzonti della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di variabili specifiche. A prima vista, il suo “caso speciale” non sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è tutto colpa di un “modo di vivere privo di senso”. D’altra parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il personale medico riesce a scoprire è un “disordine multisistemico”, definizione tanto elaborata quanto vaga. Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell’osservare la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri, Ben Watt ricorda: “Mi sembrava di essere una creatura in metamorfosi, che passa dalla vita sott’acqua a quella sulla terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i successivi venti minuti o giù di lì”. Ci vogliono diverse settimane prima che gli venga diagnosticata “una malattia autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto raro che colpiva individui con trascorsi d’asma e febbre da fieno i cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione antigenica”. Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche (all’intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale tutta l’estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il diario dettagliato e puntiglioso della degenza, quando doveva combattere con tutta la terminologia scientifica, le preoccupanti visioni del futuro e lo spasmodico desiderio di “essere in qualche campo all’aperto in estate, col cielo sopra la mia testa, e Tracey (Thorn) che mi correva davanti, fuori dal tempo reale”. Con grazia, a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra fragilità, di solito nascosta da “un differente ritmo che si svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo, una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel nostro cranio per tutte le ore di veglia”. Costretto a spogliarsi (metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e per esteso a tutti i “pazienti”, resta un’unica protezione nell’elogio della normalità fino a quando un senso non giunge “dalla solitudine e dalla calma, dall’accettazione, dall’adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se stessi”. Al libro manca soltanto il lieto fine: dopo essersi ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività discografiche, pubblicando tra l’altro uno dei suoi album più belli in assoluto, Fever Dream.

venerdì 15 dicembre 2017

Panos Karnezis

Durante una campagna bellica del 1922, una brigata dell’esercito greco cerca di sopravvivere, impigliata in una guerra senza senso, se mai la guerra in sé ne avrà uno, in rotta nel nulla del deserto ottomano. Incalzata dal nemico e dai suoi spettri, la ritirata diventa Il labirinto in cui si confondono i suoi protagonisti. Un comandante morfinomane e consumato dai rimorsi, misteriosi provocatori marxisti che si nascondono tra gli ufficiali, un cappellano sornione e sbandato e tutti i soldati che cercano di sopravvivere un giorno dopo l’altro. Il percorso, quasi biblico nel suo svolgersi contro la fame, la polvere, il destino, porta lentamente alla disgregazione dell’organizzazione militare, ma anche della più intima e semplice delle speranze, ovvero quello di lasciare il fronte ancora interi. L’orizzonte psicologico in cui ci si perde con Il labirinto è proprio lì e Panos Karnezis riesce a sviluppare con meticolosa precisione la vita quotidiana di soldati sconfitti e sofferenti, che si regge su pratiche semplici e dirette: “Quando vengono meno il valore, il patriottismo e la fede religiosa, è la disciplina a offrire un po’ di consolazione, dimostrando che nel mondo esiste ancora qualche forma di ordine. E basta così poco per raggiungere certi risultati: una lucidatina a un paio di stivali infangati, la sostituzione di alcuni bottoni mancanti, una spallina strappata ricucita e sistemata di nuovo al posto giusto”. Come si vedrà, attraversando Il labirinto, non sempre quelle attenzioni sono sufficienti, soprattutto quando i soldati si ritrovano, in un piccola città dell’Anatolia, a confrontarsi con tutto quello che pensavano di aver dimenticato. Il contatto con una parvenza di civiltà scatena reazioni impreviste e acuisce tutte le fratture che serpeggiano nella brigata, il cui destino è andare oltre, verso il mare, l’ultima tappa per tornare a casa sani e salvi. L’abilità, non comune, di Panos Karnezis non è solo nel ricreare le dolorose (a volte, tragiche) condizioni quotidiane, ma anche la complessità sul piano emotivo della composita umanità della brigata. C’è anche qualcosa in più. Se l’atmosfera generale, dal deserto a quel nemico che non arriva mai, rimanda facilmente a Dino Buzzati, nell’asprezza che Il labirinto si porta dietro non mancano di giungere appunti che si legano chiaramente con l’attualità, dalla disinformazione nei gironi della sconfitta (“Dal momento in cui le cose hanno cominciato a volgere al peggio, si sono messi a ripubblicare i vecchi articoli cambiando i nomi e le date”) a una visione non casuale della storia, dei suoi cicli e del suo tempo (“La storia si misura con i secoli: non con quanto è accaduto ieri”). Come se il 1922 non fosse così lontano, perché la guerra non cambia mai e, nella sua fuga, la brigata assorbe e rispecchia tutto un mondo brullo e arido come la steppa anatolica. Con questo, Il labirinto non manca di momenti grotteschi e (molto) divertenti, piccoli abbagli luminosi di un viaggio tormentato, drammatico nella sua consistenza ed epico nello svolgersi. 

giovedì 14 dicembre 2017

Ian McEwan

Il funerale di Molly Lane è soltanto un’occasione per mettere in scena l’impossibile congruenza delle pubbliche relazioni. La conoscevano tutti, soltanto che il tempo ha scarnificato gli esili fili che annodavano le vite. Nel caso di John Julian Garmony, gli anni passati sono coincisi con la carriera: è ministro spregiudicato e ambiguo, e , a breve termine, ha un luminoso futuro politico davanti. Gli altri amici, convenuti già nell’incipit di Amsterdam, sono Clive, compositore e direttore d’orchestra, e Vernon, direttore di un giornale bisognoso di cure, strategie e lettori. La dipartita di Molly lascia trasparire molte cicatrici e, nelle pieghe del suo lascito, compaiono a sorpresa alcune foto (molto) imbarazzanti di Julian. Vernon deve decidere se pubblicarle oppure lasciarle nell’oscurità. Senza dubbio, quelle immagini hanno il potere di stroncare ogni velleità di Julian, ma nel dubbio Vernon coinvolge anche Clive e a quel punto il conflitto di Amsterdam diventa evidente perché “sappiamo così poco gli uni degli altri. Viviamo la nostra esistenza semisommersi, come masse di ghiaccio fluttuante, e spingiamo a galla soltanto la parte di noi presentabile, quella più bianca e compatta. Ed ecco qui invece una rara immagine scattata sotto il pelo dell’acqua, il ritratto del tormento intimo di un uomo, della sua dignità rovesciata dallo schiacciante bisogno di pura immaginazione, puro pensiero, dall’irriducibile forza umana per eccellenza: la mente”. Non c’è dubbio che, anche in Amsterdam, Ian McEwan abbia assemblato la decadenza dei costumi, l’intreccio linguistico, e l’immaginario stesso di una nazione e, insieme, di un’idea di vita sociale. Fin dall’inizio, è un tentativo di ripetere le geometrie di L’amore fatale, un romanzo che gli è contemporaneo e parallelo: atmosfere, temi e persino i personaggi sembrano gli stessi, sempre trascinati dai loro dilemmi, sempre coinvolti nelle distorsioni tra pubblico e privato, nella biunivocità di rapporti che tendono a confondere la trama con il pensiero, i dialoghi con le descrizioni, l’ambiente con il paesaggio, il comico con il grottesco. Il paradosso è che l’abilità di Ian McEwan è proprio questa e, in Amsterdam, ne è consapevole al punto di rivelare senza pudore la chiave di volta, quando scrive: “La comunicazione scritta concede ampio spazio al fraintendimento. Basta spostare l’enfasi di quanto si legge da un termine a un altro per modificare un messaggio. La stessa parola del resto può avere più di un significato: rifiuto può indicare l’atto di dire no a qualcosa che si ritiene sbagliato, ma può essere anche un avanzo, un sinonimo di spazzatura”. Amsterdam sembra davvero muoversi e giocare dentro questa compiaciuta certezza e proprio dove Ian McEwan offriva immagini rapide, brucianti, immediate, qui sembra crogiolarsi nell’eccezionale qualità della scrittura, ormai conclamata. Ne esce un romanzo costruito con mestiere, raffinato e seducente, ma che lascia molti interrogativi irrisolti e che sembra suggerire, più che chiarire, appuntare, più che descrivere, inventare, più che definire. E’ giusto così, in fondo, perché Ian McEwan gioca spesso con il lettore sul filo del rasoio, solo che in Amsterdam forse ha barato un po’. 

mercoledì 13 dicembre 2017

Levi Henriksen

Ormai abbandonata ogni velleità di scoprire una musica davvero autentica, il produttore discografico Jim Gystad rimane folgorato dall’esibizione di un trio vocale nel corso del battesimo del figlio di un amico. Lo stupore è tanto e tale che confessa al suo ospite: “Ricordi come ci sentivamo quando da ragazzi scoprivamo qualcosa di diverso? La prima volta che abbiamo ascoltato un nuovo artista, o letto un libro, o guardato un film, o baciato una ragazza... Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti è capitato di sentirti così?”, e la domanda rimane sospesa nell’aria, dando il via al romanzo che Levi Henriksen (classe 1964) accorda sui toni agrodolci della commedia. La leggerezza di Norwegian Blues però non è mai banale perché, sempre con garbo e ironia, lascia emergere più di una possibilità di approfondimento. Intanto, i cantanti che hanno emozionato Jim Gystad sono una famiglia, i Thorsen, composta dalle sorelle, Tamar/Tulla (il secondo nome cela un’altra storia che scorre parallela a Norwegian Blues) e Maria, e dal fratello Timothy. Nella loro carriera hanno soltanto interpretato inni religiosi, spesso con arrangiamenti fantasiosi ed eccentrici, ma sempre rispettosi e adeguati alle circostanze. In gioventù hanno inciso e pubblicato dozzine di dischi e sono stati acclamati in tour negli Stati Uniti, ma, arrivati a una certa età, si sono ritirati nella campagna norvegese e non vogliono nemmeno sentire nominare per sbaglio l’industria discografica. Non hanno tutti i torti (anzi), perché come dice il protagonista di Norwegian Blues, “la gente non vuole la realtà. Vuole un reality show dal cast accuratamente selezionato”. Ammaliato dalle loro armonie, Jim Gystad abbandona la città e parte all’inseguimento dei Thorsen, con l’idea di convincerli a tornare in studio di registrazione per siglare un ultimo capolavoro, e per assecondare il “bisogno di recuperare la vera essenza della musica. La sensazione di produrre qualcosa che riesce davvero a toccare l’animo delle persone”. La rocambolesca avventura lascia affiorare un paesaggio e un’umanità, quelli della Norvegia, che non sono molto diversi dal resto del mondo: lo sfruttamento insensato del territorio, l’avidità e la superficialità sono gli ostacoli con cui deve confrontarsi Jim Gystad, più della consolidata ritrosia dei Thorsen. Con l’evolversi della storia, nella seconda parte di Norwegian Blues, Levi Henrikesn sposta l’attenzione dall’ossessione per la musica, verso gli affetti, i legami, i sentimenti, la famiglia e, non ultima, la casa. Jim Gystad sarà costretto a scegliere proprio tra modi diversi di intendere, sia la vita che la musica. Compreso il finale (a sorpresa), Norwegian Blues lascia intendere che la tanto agognata autenticità non è un elemento delle strategie di marketing o una rarità destinata agli studi antropologici e, in effetti, non è nemmeno un traguardo definitivo. E’ il riflesso naturale di valori vissuti e difesi fino in fondo. Per dirlo con i Thorsen, “la musica parla di quello che succede dalla vita in su, non più in basso”. Una piccola fiaba moderna.

martedì 12 dicembre 2017

Derek Raymond

E’ difficile fare il sergente alla A14 (che non è un’autostrada, ma la sezione Casi Irrisolti della polizia di Chelsea) quando si ha una moglie pazza ricoverata in un manicomio perché ha ucciso la figlia, non si sopportano i propri superiori (“La mia non è mancanza di rispetto, ma di pazienza. Il mio guaio è che non riesco a sopportare gli idioti. Mi preoccupo della giustizia, non dei gradi”) ma soprattutto, non si cerca la giustizia, ma la verità. Una sottile distinzione che, in Aprile è il più crudele dei mesi, viene sviscerata da Derek Raymond con un’aderenza totale al suo protagonista: il noir non è inteso soltanto come ambientazione, atmosfera, stile o genere, ma è proprio un modo per vedere la vita, o il dramma della vita. “Dove vado io, là vanno i fantasmi. Io vado là dove si trova il male”, dice il tormentato sergente della A14 ed è un riflesso spontaneo che si traduce in quello che sostiene lo stesso Derek Raymond ovvero che “la funzione del romanzo noir è di impedire alle persone di dimenticare l'orrore che regna”. Questa dura e nobile definizione (è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare) trova una sua logica in Aprile è il più crudele dei mesi. Al nostro sergente della A14 viene recapitato un caso che comincia da quello che rimane di un cadavere: cinque sacchetti di plastica che contengono, adeguatamente sezionato e bollito, un corpo umano. La prima reazione è, a sua volta, un tentativo di individuare un senso, difficile se non impossibile da trovare davanti a quello scempio: “Cominciai a immedesimarmi nell’assassino. Pensavo: sono pazzo. Sì, ma dobbiamo tutti sforzarci di sembrare normali”. Da quel macabro ritrovamento si dipana un intreccio che comprende malavitosi della peggior specie, agenti segreti e doppiogiochisti di professione, politici corrotti e tutta una fauna ambigua che è sempre pronta a tirare il grilletto. Dal canto suo, Derek Raymond non spreca una riga, una parola. I personaggi sono chiari, evidenti, dai contorni netti e precisi, a partire dall’autoritratto del sergente dell’A14: “Le mie indagini le conduco a modo mio, è il grande vantaggio di lavorare da solo. E se la cosa non garba ai miei superiori, possono pure cacciarmi. Probabilmente l’avrebbero già fatto, solo che non sono così facile da rimpiazzare”. I dialoghi hanno la forza bruciante di chi sa gestire la scrittura con naturalezza (“Perché te la stai prendendo come me? Perché hai abitudini pericolose e sei stato dentro per omicidio. Hai strangolato un uomo, e ti sto controllando com’è prassi, ma anche perché la tua faccia potrebbe essere proprio il pezzo mancante del puzzle di una nuova indagine che sto svolgendo”) e senza tanti patemi stilistici. La storia è una rete infinita di intrighi dove le psicologie sono determinanti almeno quanto i paesaggi perché Londra e i sobborghi sono (come in tutti i suoi romanzi) uno scenario perfetto e tenebroso. Aprile è il più crudele dei mesi è un ottimo biglietto da visita per un autore che ha il merito di aver elevato il noir, o di essersi abbassato fino a sporcarsi le mani: in entrambi i casi, un bel coraggio.

sabato 9 dicembre 2017

John Berger

Le ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci, lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura (“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi, precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni (“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa, in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili, sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith, Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits, dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta (“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire, quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di una) da non dimenticare.

sabato 2 dicembre 2017

Enrique Vila-Matas

Spiegare un complotto non è facile. Figurarsi spiegarne uno che non aveva scopi, se non quello di trovare una forma all’illusione che, a ben vedere, è già una sorta di cospirazione. Avanziamo a piccoli passi, e cominciamo dall’inizio quando Tristan Tzara ispira, come lo descrive l’alchimista Aleister Crowley “un genere letterario che, secondo lui, è caratterizzato dal fatto di non avere un sistema da proporre, ma solo un’arte di vivere. In un certo senso, più che letteratura è vita”. Ecco la pietra angolare del tempio della società shandy che tradotta e aggiornata si risolve nell’ordine del giorno che prevede per tutti i (segreti) congiurati “spirito innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi, nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte dell’insolenza”. E’ un programma vasto e criptico da affrontare, con punti di criticità assoluta già nella sua conclusione (“E’ bene considerare che l’insolenza, quando si manifesta, lo fa sempre in relazione agli altri, attraverso un movimento che tiene conto intensamente dell’altro”) e che nel mondo in cui vige ancora una maledetta realtà appariva una chimera. Gli stessi shandy tendevano a soluzioni di comunicazione improprie come quella usata da Francis Picabia: “Parlavamo in silenzio e la nostra conversazione era tra le più interessanti che si possano immaginare; altre parole, pronunciate e ordinate per essere udite, non avrebbero mai potuto ottenere l’effetto di tale silenzio”. O pensavano rivolti a dimensioni parallele dove le contraddizioni erano l’aria da respirare come scriveva George Antheil: “L’inutile è bello perché meno reale dell’utile, che permane a lungo; invece il meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale, si ferma dov’è, rimane quello che è, vive libero e indipendente”. Tutto ciò (e molto altro: dagli odradek al suicidio, dall’Europa tra le due guerre mondiali alla boîte en valise di Marchel Duchamp) non avrebbe senso confinato all’interno della cosiddetta normalità, ma anche nei contorni di un’utopia. Per identificare, anche da un punto di vista geografico, la “letteratura portatile” degli shandy ci viene in soccorso l’epigrafe di Paul Valéry che ha il compito (assolto con formula piena) di riassumere, introdurre e accendere la Storia abbreviata della letteratura portatile raccontata da Enrique Vila-Matas: “L’infinito, mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo esiste solamente sulla carta”. Le dimensioni, contano, eccome, la parafrasi di Enrique Vila-Matas parte dalla “storia portatile della letteratura abbreviata” di Tristan Tzara, nei cui piccoli libri era nascosta una magia (perché “miniaturizzare significa anche occultare”) che Marchel Duchamp ha rivelato così: “Ciò che viene ridotto diviene in un certo modo libero di significato. La sua piccolezza è allo stesso tempo un tutto e un frammento. L’amore per il minuscolo è un’emozione infantile”. Da lì Enrique Vila-Matas conduce alla ricostruzione dei legami e dei dialoghi di una compagnia internazionale dove è centrale l’intersecarsi di suggestioni, amicizie, scambi e confronti in cui hanno avuto ruoli da protagonisti, tra gli altri, anche Francis Scott Fitzgerald, Georgia O’Keefe e Walter Benjamin, convenuti e congiurati nel nome dell’arte e dell’allegria.

venerdì 1 dicembre 2017

Jenni Fagan

Entrare in Pellegrini del sole è come penetrare in un igloo ricoperto da più livelli di neve e di ghiaccio che si sono sedimentati uno sopra l’altro. La parte superficiale dell’involucro è un romanzo distopico e apocalittico che ipotizza un’incombente glaciazione. L’ipotesi accredita già Jenni Fagan in una dimensione più oculata rispetto agli strilli del riscaldamento del pianeta, perché come varie fonti scientifiche concordano, quella è soltanto la causa, gli effetti rimangono imprevedibili. Tra questi, il rischio di una nuova era glaciale, che dipenda o meno dalla sconsideratezza del genere umano, era paventata parecchi anni fa da Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel 1983, nel suo Ballando nudi nel campo della mente, che rimane una lettura tanto provocatoria quanto intelligente. Ammesso lo scenario, che tra l’altro ha tutte le sue valenze metaforiche in funzione dell’isolamento, della solitudine e del critico bollettino meteorologico dei rapporti umani, sotto e dentro la coltre di gelo si snoda una contorta saga famigliare costruita attorno a una serie di formidabili personaggi femminili (Gunn, Constance, Vivienne e Stella). L’epicentro su cui siedono i Pellegrini del sole, è proprio la storia di Stella. Stella è diversa, è incastrata in un albero genealogico che serpeggia da una lontana isola scozzese fino a Londra, irto di segreti e misteri. Nel villaggio di roulotte e camper dove si è rifugiata con la madre, Constance, vivono “come se tutto ciò che un tempo era in ordine fosse andato in malora, così velocemente che nessuno riusciva a reggere il passo”. Non a caso campano campano riciclando, restaurando e rivendendo mobili che trovano nella discarica. Per inciso, viene da pensare che il vero problema dell’umanità sia lo spreco, piuttosto che le variazioni climatiche. Quando nella stralunata comunità di Clachan Falls, in cima alla Scozia, arriva Dylan McRae, la sfida della mera sopravvivenza è complicata dallo sciogliersi degli equilibri. Dylan (attenzione al nome) proviene da Londra dove ha ereditato il fallimento di un cinema d’essai, il Babylon, gestito dalla madre e dalla nonna (tra i registi programmati con maggior regolarità, Werner Herzog), entrambe scomparse in rapida successione. Se il cinema è un lascito di Gunn (la nonna), da Vivienne (la madre) riceve una roulotte a Clachan Falls ed eccolo lì, tra i Pellegrini del sole. Dylan è alto, introverso, riservato e colto, tutte qualità che servono fino a un certo punto quando “il mondo è un luogo incantato fatto tutto di ghiaccio”. Con il termometro che ormai non sa più cosa indicare spostarsi diventa sempre un rischio perché l’ipotermia fa perdere l’orientamento. Restare chiusi in casa, nei caravan dove lo spazio è razionato, porta a impazzire. Rimane soltanto una drastica riduzione all’essenziale delle funzioni vitali: provare a restare al caldo dentro strati di vestiti e coperte, farsi venire i calli a furia di spaccare legna, ascoltare gli aggiornamenti nella speranza di intercettare una buona notizia che non arriva. La costruzione di Jenni Fagan è semplice e progressiva: si limita a seguire i suoi protagonisti nella faticosa lotta per la sopravvivenza, eppure nel linguaggio dissemina un sacco di strambe e colorite associazioni dylaniane (nel senso di Bob Dylan) che forniscono tono e fragranza al racconto. Pur essendo declinato al femminile, in Pellegrini del sole, l’elemento maschile è catalizzatore di tutte le svolte: alla ricerca di se stessa, Stella trova un importante interlocutore in Dylan, che a sua volta diventerà presto un amico (e qualcosa di più) anche per Constance. In qualche modo bisogna pur inventarsi un modus vivendi, ed ecco che Stella diventa Stella e Constance accetta Dylan che si ingegna a distillare gin. Sarebbe bello pensare che vissero felici e contenti, ma il passato incombe e con meno cinquanta a pochi giorni dalla primavera, il futuro è tutto da scrivere.