Orbital un’esperienza di scrittura rarefatta come l’atmosfera nello spazio, senza un dialogo, anche se non mancano le divagazioni perché ognuno dei viaggiatori quando guarda verso la terra ricorda legami, incontri, storie. Nella stazione orbitante il tempo collassa, non meno degli spazi, e non c’è equilibrio tra le limitatissime possibilità all’interno dell’involucro aerodinamico e quelle infinite e misteriose dell’universo, là fuori. Nell, Pietro, Chie, Roman, Shaun, Anton “all’improvviso dimenticano il loro ruolo di astronauti e provano la sensazione fortissima di essere tornati piccoli, all’infanzia”. Dall’alto devono seguire un tifone che imperversa sull’oceano Pacifico, pensano ai Voyager, le sonde spaziali ormai giunte ai limiti della loro missione, cercano di convivere con le emozioni e le piccole necessità di un’unità asettica, sapendo in fondo che, alla pari della strumentazione di bordo, “non sono altro che un ammasso di dati, fondamentalmente. Un mezzo e non un fine”. La condizione è aleatoria e contraddittoria, le orbite si estendono sulla terra una dopo l’altra, e frugare nello spazio, ovvero proseguire con “la ricerca del vuoto” è un’impresa improba, se non proprio inutile, al punto di convincersi che gli esseri umani siano “qualche scintilla di pietra focaia più avanti rispetto al resto, tutto qui”. L’effetto è ipnotico, ma anche straniante, come se, orbita dopo orbita, la conclusione si allontanasse, invece di completarsi. Samantha Harvey ha trovato il tono adatto per trasmettere il generale senso di inquietudine che condividono gli astronauti di Orbital, tra lo stupore degli orizzonti e delle linee terrestri che si mettono in mostra per ogni rotazione alla complessità delle condizioni (biologiche, psicologiche, tecniche) a cui vengono sottoposti i corpi e le coscienze dei viaggiatori. Un processo originale, senza dubbio, ma riflette ed è permeato dallo stesso senso di claustrofobia che si addensa in Orbital e richiede un alto livello di concentrazione. La scrittura è il frutto finale di un composto in perenne cerca di equilibrio tra l’introspezione, il silenzio e il confronto dei protagonisti, le annotazioni tecnologiche e specifiche della missione, il cielo e il buio, i pianeti e le galassie, la terra vista dallo spazio e piccoli inconvenienti quotidiani che a casa, su un pianeta maltrattato, sarebbero ai limiti della banalità e lassù, invece, sono un’impresa. Le misure, a partire dall’assenza di gravità, definiscono un microcosmo tutto chiuso e fuori un universo aperto e infinito, un habitat che comprime i corpi non meno dei pensieri e uno che si espande come una bolla e dato che “lo spazio fa a pezzi il tempo”, in Orbital “i secondi si dissolvono e hanno sempre meno significato. Il tempo si riduce a un punto su un campo bianco candido, preciso e assurdo, poi si gonfia e perdere i contorni, diventando informe”. La prospettiva è biunivoca: vicino e lontano collassano uno sull’altro, la meraviglia dell’avventura tra le stelle sfuma nella nostalgia e nella malinconia e nell’infinitesimo resta l’attesa e/o la speranza per “l’improvviso agguato della felicità”. Con tutta la raffinata grazia della scrittura di Samantha Harvey, Orbital è un romanzo estremo, bello e inafferrabile.
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