venerdì 20 settembre 2019

Tomás Eloy Martínez

La premessa che Tomás Eloy Martínez nasconde  nelle viscere del Purgatorio è che “la realtà è una creazione dei sensi, cosa che gli uomini sanno da secoli ma dimenticano sempre”. Un dato di fatto che avvolge e travolge i narratori, i personaggi e i lettori, tutti in salamoia dentro un mondo d’ombre: doppio, sfocato, sfuggente. Nell’Argentina del 1976, Emilia e Simón si amano e tracciano mappe. Lei è figlia di un influente intellettuale conservatore e reazionario, opportunista sostenitore e consigliere della giunta militare. Lui ha il coraggio, nel corso di una cena ufficiale, di ricordare che nel paese le persone scompaiono senza motivo. Poco dopo, viene catturato e ucciso. La scomparsa di Simón, come quella di migliaia di desaparecidos, è solo una goccia nel mare delle mistificazioni della dittatura, quando la gente “si lasciava anestetizzare dalla volgarità per dimenticare la morte che era ovunque”. Puntualizzazione precisissima che Tomás Eloy Martínez amplia elencando le telenovelas, i mondiali di calcio e altre amenità che rendevano tutto “uguale e diverso allo stesso tempo, come se gli eventi tornassero sui propri passi per accadere di nuovo”. Uno scenario che nemmeno Orson Welles (memorabile la sua apparizione) sarebbe riuscito a immaginare. Nei continui dualismi di Purgatorio, la storia, fitta e densa, si specchia e si riflette, nei tempi e nei personaggi, nella realtà storica e nel romanzo. Incede con costanza, senza sbalzi, legando il lettore alle pagine forse proprio perché “i romanzi si scrivono per questo: per rimediare all’assenza perpetua di quello che non è mai esistito”. È Emilia, la forza centrifuga che fa ruotare tutto il Purgatorio: per quando consapevole che “arriva il momento in cui ti rassegni a perdere per sempre quello che hai già perduto. Senti che ti sfugge di mano, che sta uscendo dalla tua vita e che niente è come prima”, non si arrende e celebra senza soluzione di continuità il ricordo di Simón e la speranza che possa tornare, anche davanti all’evidenza (atroce) delle testimonianze e dei verbali. L’assunto ha un fondamento solidissimo, visto che Parmenide, un nome che ricorre spesso in Purgatorio, ricordava “come di volta in volta è il materiale temperamento delle molto flessibili membra, così si presenta agli uomini il pensiero. Poiché identico, in tutti e ciascuno, è ciò che pensa negli uomini: la natura delle membra. È infatti, in prevalenza, pensiero”. Il fantasma di Simón resta perché “la vera identità delle persone sono i ricordi” ed Emilia li coltiva con maniacale puntualità, toccando tutte le sfere della personalità, dal sesso al cibo, dalle abitudini al tono della voce. Emilia sa che “dall’esilio nessuno ritorna” e ricalca la sua condizione su quella di Simón, ormai a distanza di sicurezza, mentre tutte le illusioni argentine si sgretolano, rivelando l’inferno, dietro il Purgatorio. La simmetria di una vita parallela, fondata su “niente di visibile”, si sviluppa per gradi: con la colonna sonora eterea del Köln Concert di Keith Jarrett in sottofondo e sapendo che “il tempo è come l’acqua: quando si ritira in un punto, avanza in un altro”, Emilia insegue lungo tutta l’America, ricostruisce e custodisce inalterata la silhouette di Simón. Raccontata da Tomás Eloy Martínez con un stile arguto e lirico, capace di proiettare una realtà labirintica su un’infinità di piccoli gesti quotidiani, quello che emoziona in Purgatorio è un’ estrema prova d’amore che supera, pur non dimenticandoli, gli efferati spettri che popolano le notti di Buenos Aires, nonché le dimensioni conosciute dalla fisica, che sono pur sempre limitate.

giovedì 12 settembre 2019

Walter Benjamin

I radiodrammi di Walter Benjamin (ne scrisse un’ottantina) costituiscono un prezioso documento riguardo al mezzo e anche al messaggio. Sullo strumento in sé, le precisazioni partono da lontano, ovvero dalla certezza che “nessuna autentica istituzione culturale ha mai preteso di prescindere dalla competenza del proprio pubblico, generata grazie ai propri aspetti tecnici e formali”. La particolare fluidità dei meccanismi radiofonici inducono Walter Benjamin a sottolinearne alcuni aspetti stringenti sulle possibilità della radio. Sarebbe sufficiente che “si rendesse conto di quanto sia improbabile tutto quello che le viene presentato ogni giorno, che considerasse quante sono le cose che non vanno, a iniziare da un tipologia ridicola degli oratori, per migliorare non soltanto il livello della programmazione, ma anche e soprattutto per formare un pubblico realmente preparato e competente”. Questo legittimo desiderio deve fare i conti con l’effimero circolo della comunicazione, in cui manca il tempo di cogliere un significato, un senso, un’idea. È quella che Walter Benjamin chiama la “tirannia dell’attimo”, poi spiegata puntualmente ancora in Il narratore: “L’informazione ha la pretesa di poter essere controllata immediatamente. Dove anzitutto essa vuol essere intelligibile di per sé e alla portata di tutti. Essa spesso non è più esatta di quanto lo fossero le notizie dei secoli passati. Ma mentre esse attingevano volentieri al meraviglioso, è indispensabile, per l’informazione, apparire plausibile. E in questo si rivela inconciliabile allo spirito del racconto. Se l’arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione. È, infatti, già la metà dell’arte di narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni”. D’altra parte “una conversazione tra spiriti così strana” offre opportunità singolari ben rappresentate dai due radiodrammi qui selezionati per l’occasione. In Che cosa leggevano i tedeschi mentre i loro autori classici scrivevano, Walter Benjamin manda in onda un convivio che disquisisce sui due secoli dei principali movimenti filosofici e letterari europei con arguzia e ironia, toccando tutti gli aspetti, compreso il ruolo dell’editoria nello sviluppare e formare un pubblico. Un legame ricorrente nel pensiero di Walter Benjamin che uno dei protagonisti del radiodramma, lo scrittore Karl Philipp Moritz condensa così, con una punta di amarezza, ma anche con la necessaria puntualità: “Oramai abbiamo perso su tutti i fronti: il pubblico elevato si dedica alle facezie, ai versi dell’amore, ai romanzi sdolcinati, mentre la gente comune, sempre che legga, cade vittima del venditore ambulante di turno che le rifila storie a puntate di briganti e fantasmi”. Più prosaico, ma non meno avvincente il tema di Un aumento di stipendio? Ma che vi viene in mente? Dove una spicciola trattativa salariale diventa quasi un dialogo socratico, con tanto di commentatori allibiti, compreso uno “scettico” particolarmente dubbioso. Un frammento geniale che conferma quello che Walter Benjamin scriveva in Il narratore: “Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore”. Dovrebbe essere naturale, ma è giusto ricordarlo perché con la particolare evanescenza dei mezzi a disposizione, dalla radio in poi, non sempre è così ovvio.

mercoledì 4 settembre 2019

Peter Shapiro

New York, primi anni Settanta: la città è a un passo dalla bancarotta, le istituzioni brancolano nel buio e nella propria autoreferenzialità, interi quartieri sono off limits, le strade sono una jungleland senza speranza. Però, come sempre succede quando qualcosa marcisce, nelle pieghe torbide della metropoli stavano fermentando forme di vita inedite o, meglio, come scrive Peter Shapiro nell’introduzione di questa Biografia politica della discomusic, “mentre la carcassa delle infrastrutture cittadine si decomponeva, gli artisti e i musicisti di New York diedero il via a una fioritura di attività creative allo scopo di riappropriarsi della città”. Da una parte, intorno al Lower East Side, si rintanarono in buchi malconci e dai nomi altisonanti come Mercer Street Art Center o Max’s Kansas City o, l’epicentro di tutto, al CBGB’s. Ne uscì una versione del rock’n’roll aspra, grezza, poetica e bruciante: Ramones, Suicide, Television, Talking Heads, Patti Smith. In un’altra direzione, nelle feste all’aperto nel Bronx, cominciava a circolare una colorita sintesi musicale, radicata nel rhythm and blues e nel soul, dal nome discomusic. È in quel momento che “i corpi, le droghe, il sudore, il crescendo e il palpito della musica, tutto cospirava a creare una febbricitante immediatezza, e la sensazione che niente esistesse al di fuori del locale. Nessun passato, nessun futuro, niente promesse, rimpianti, solo l’attimo”. Le sue origini hanno radici profonde nella cultura afroamericana e visto come “negli ultimi vent’anni, o giù di lì, l'America sia diventata molto più stratificata” (l’annotazione è di Daniel Wang e spicca nell'epilogo), diventa ben presto logico e naturale che attorno, dentro e parallelamente alla storia della discomusic scorra una sorta di rivisitazione storica e culturale dell’humus in cui è fermentata e si è sintetizzata. Lontano anni luce dai lustrini e dai colori sfavillanti delle discoteche, You Should Be Dancing approfondisce una storia complessa e affascinante che va ben oltre l’aspetto musicale della discomusic (comunque sviscerato fin dalle origini) e arriva ad affrontare temi piuttosto ingombranti, le libertà individuali e i diritti civili (ma anche la vita metropolitana e le speculazioni edilizie) e comunque necessari. L’equilibrio con cui Peter Shapiro riesce a raccontare, in modo rigorosamente biunivoco, un fenomeno musicale attraverso le trasformazioni sociali e molte, civilissime rivendicazioni nello svolgersi delle canzoni, fa di You Should Be Dancing un libro che va ben oltre la propria specificità. A questo scopo è destinato anche l’importante apparato in appendice che oltre a note e indice dei nomi, prevede un’agile discografia (con tutti i singoli e gli album citati citati), una bibliografia molto dettagliata e a una cronologia che racconta, con brevi e illuminanti flash, sessant’anni di danze proibite: dalle feste clandestine nella Germania nazista del 1939 fino al 1999 quando la discomusic è entrata definitivamente nelle istituzioni americane in forma di francobollo.

martedì 3 settembre 2019

Alejandro Jodorowsky

“È tutto nella domanda” ha detto Alejandro Jodorowsky spiegando come funziona una delle (tante) arti a cui si è dedicato, i tarocchi. Un modo come un altro per spiegare che la vita è tutta una magia e l’arte, in tutte le sue forme, è rimasta l’unico modo per comprenderla. Forse ha ragione Alejandro Jodorowsky quando dice che “le definizioni sono soltanto approssimazioni”, ma nel rapporto tra vita e arte c’è tutta la sua storia che La danza della realtà racconta come se fosse un romanzo d’avventura. Comincia con un’infanzia durissima, passa attraverso il piccolo sipario dei burattini e delle marionette per approdare al palcoscenico del teatro (“Il teatro è una forza magica, un'esperienza personale non trasmissibile. Appartiene a tutti. Basta che ti decida ad agire in un modo diverso da quello di ogni giorno perché questa forza trasformi la tua vita”). È il primo passaggio, fondamentale verso una visione caleidoscopica della comunicazione e dell'espressione che porterà Alejandro Jodorowsky a scrivere sceneggiature per celebri disegnatori (Moebius su tutti), a farsi finanziare film e happening da John Lennon, a scoprire la Parigi surrealista e la poesia d’azione di Filippo Tommaso Marinetti. Una vita costantemente sospesa tra il sogno e, come dice giustamente il titolo, La danza della realtà che alla fine ha portato Alejandro Jodorowsky a confrontarsi con la magia, i tarocchi, lo sciamanesimo e tutte quelle energie invisibili che sovrastano la nostra quotidianità. L’identificazione di quelle forze è il nucleo centrale attorno a cui ruota tutta La danza della realtà e che Jodorowsky sintetizza così: “I miracoli sono paragonabili alle pietre: si trovano ovunque e offrono la loro bellezza, ma nessuno ne riconosce il valore. Viviamo in una realtà dove abbondano i prodigi, ma li vedono soltanto coloro che hanno sviluppato le proprie percezioni. Senza tale sensibilità tutto è banale, l'evento meraviglioso viene chiamato casualità e si cammina per il mondo senza avere in tasca quella chiave che si chiama gratitudine. Quando si verifica un fatto straordinario lo consideriamo un fenomeno naturale di cui approfittare come parassiti, senza dare niente in cambio. Invece il miracolo richiede uno scambio: ciò che mi è stato dato devo farlo fruttificare per gli altri. Se non viviamo uniti agli altri non possiamo captare il portento. I miracoli non li provoca nessuno”. Buona parte della sua autobiografia è dedicata proprio all’aspetto esoterico con la differenza che Alejandro Jodorowsky è distante anni luce dalle vacuità della new age e da certo spiritismo di seconda categoria. La sua è arte che diventa magia, e viceversa. Più di tutto è un metodo, non una stregoneria, la cui evoluzione comincia dalla conoscenza e dall’ignoranza: “Ogni volta che tentavo di soddisfare le mie passioni dimenticavo che stavo sognando. Alla fine ho capito che, nella vita, come nel sogno, per rimanere lucidi occorre prendere le distanze, tenere sotto controllo il processo di identificazione”. Ecco a cosa servono le domande, i miracoli, le magie: a capire perché “non si può guarire nessuno, si può soltanto insegnare a guarirsi da soli”. Un segreto antico che Alejandro Jodorowsky ha scoperto con l’avventura di una vita intera.