Reportage di lunghe traversate “da un mare all’altro” (da un oceano di acqua salata a uno di sabbia e rocce), Il viaggiatore delle dune è uno splendido omaggio al deserto e al viaggio nelle sue vastità. Affascinante perché per Théodore Monod “l’ambiente esterno è solo accessorio al dialogo interiore”, per cui i lunghi silenzi nel vento, le difficoltà sulle piste, la vita e la morte in un luogo che è pur sempre difficile definire come tale, diventano l’occasione per ridefinire alcuni importanti punti di vista, a partire dal fatto che “bisogna dunque rassegnarsi al carattere necessariamente parziale e frammentario delle nostre conoscenze, accettare di dire il poco che stato scoperto, attendendo di saperne di più”. L’idea di “indispensabile” è l’incisione principale da seguire, tra le numerose indicazioni di Théodore Monod. Il viaggiatore delle dune infatti non cede un passo a facili esotismi, anche se è ricchissimo di dettagli, di colori, di suoni e di sfumature del deserto, dei suoi animali e dei suoi popoli. I percorsi, o meglio, le cavalcate di Théodore Monod diventano l’occasione per riflettere sulle esigenze del viaggio in sé, sui limiti innati e comunque irrisolvibili delle nostre esperienze a cui Il viaggiatore delle dune si accosta con una sacrosanta precauzione: “Non dobbiamo dare spettacolo e, di conseguenza, abbiamo il diritto di scegliere, semplicemente, la praticità”. L’avvertenza è frutto dell’estetica del deserto, dei suoi tempi, della sua atmosfera che, come pare inevitabile, vanno affrontati, in fondo, con il gusto ultimo dell’avventura, così come la descrive Théodore Monod: “E poi si respira un certo sapore di libertà, di semplicità, per non dire di più, un certo fascino per l’orizzonte senza limiti, per il tragitto senza svolte, per le notti sotto le stelle, per la vita priva del superfluo, impossibile a descriversi, ma che forse riconoscerà chi l’ha a sua volta provata”. Dentro e dietro la mutevole superficie che Il viaggiatore delle dune accarezza con insistenza, cresce un articolato glossario, a testimonianza di una ricchezza di linguaggio e di argomenti (storia, archeologia, geologia e paleontologia) che Théodore Monod gestisce senza patemi, grazie anche al gusto divertito e all'ironia, compresa la descrizione della formazione geologica del Sahara, paragonata né più né meno alla crosta di una torta. Non bastasse, vince il premio citazione d’autore pescando da Walt Withman per l’epigrafe del primo capitolo: “Imbarchiamoci anche noi, anima mia! Con gioia, lanciamoci sui mari senza piste!”. La definizione è sorprendente ed così fuori posto che il suo canto sembra sia stato sempre lì, nell’invisibile e intricata toponomastica del Sahara, e non nei meandri di Brooklyn. Colonna sonora: la discografia completa di Ali Farka Touré, non sono per l’ovvia collocazione geografica, ma anche perché che si adatta naturalmente al ritmo sensuale della scrittura di Théodore Monod, capace di trasformarci e in viaggiatori delle dune, persino nella necessaria immobilità della lettura.
lunedì 29 gennaio 2018
giovedì 25 gennaio 2018
Peter Handke
Le repentine trasformazioni collezionate con Il mio anno nella baia di nessuno prendono forma con una confessione di Gregor Keuschnig, già protagonista in L’ora del vero sentire e imperfetto alter ego di Peter Handke: “La mia vita ha una direzione che io ritengo buona, bella e ideale, e al tempo stesso l’esistenza di un singolo giorno non è affatto diventata una cosa ovvia. Il fallimento, mio, di altri, sembra addirittura la regola. I miei amici erano soliti dire che prendevo troppo sul serio le cose di poco conto e che ero troppo severo con me stesso. Io invece credo che se non avessi sempre dribblato di nuovo il mio costante fallimento di tutta la vita, ma lo avessi voluto ammettere anche soltanto un’unica volta, non esisterei più”. Le sconfitte esistenziali dipendono, e insieme vengono esorcizzate, dalla “notte del narrare”: la storia in sé è la trama stessa che si genera in contemporanea alla scrittura, attraverso la ripetuta osmosi di identità di Peter Handke con lo scrittore, con Gregor Keuschnig, con il narratore e con se stesso nei molteplici viaggi che poi lo riportano a ritrovare le coordinate mitteleuropee, lungo il corso del Danubio, su entrambi i versanti delle Alpi, sulla dorsale dei Balcani, che sono sempre nei suoi pensieri anche nella “baia” parigina dove si è ritirato per premura verso le sue metamorfosi. E’ così che ci si inoltra così in un labirinto kafkiano, con Gregor Keuschnig nel ruolo di anfitrione ciarliero, brillante, eccessivo che, proprio a metà dei pellegrinaggio, dopo un’apocalisse di parole, di incontri, di ricordi, di chiacchiere, arriva alla conclusione che “soltanto come racconto scritto il mio raccontare è conforme alla mia natura”. Il mio anno nella baia di nessuno ruota tutto intorno a questa convinzione e per il lettore è imperativo trovare il tempo per districarsi nel salmodiare di Gregor Keuschnig, che segue soltanto la sua memoria, una ricerca che “almeno una volta al giorno” si trasforma in “qualcosa di maniacale, prossimo alla follia”. L’impegno richiesto da Peter Handke è notevole e costante, non solo perché Il mio anno nella baia di nessuno è una sterminata, voluminosa riflessione sulla natura stessa della narrativa, che si evolve da un’assioma, ovvero la “fantasia non è illusione”, da solo già più che sufficiente a garantire anni di meditazione, per giungere all’ammissione di un limite, se non di una vera e propria resa, quando Gregor Keuschnig dice che “lì non c’era nient’altro che una sensazione, vasta quanto la superficie dissodata, della quale mentre scrivevo questo, cercai l’immagine, invano”. Bisogna dire che Peter Handke, sapendo che “la cosa osservata, per quanto modesta, poteva trasformarsi nel mondo”, molto abile, attento e saggio nel confezionarsi più di un alibi, visto che Il mio anno nella baia di nessuno si consuma insieme al crepuscolo del ventesimo secolo, con molto più da raccontare “dei nostri giorni che non dei nostri anni, per noi uomini d’oggi”. Uno scarto che rimane irrisolto e se il saldo finale può tornare è soltanto per il soccorso del lettore, ma anche qui Peter Handke sottolinea e precisa perché “il leggere sarebbe poi una passione, meravigliosa, se è un appassionato voler-capire; sento l’urgenza di leggere perché voglio capire. Non leggere a casaccio: per il racconto, per il libro, devi essere ricettivo. Tu sei ricettivo?”, e, sì, la domanda è sempre quella.
lunedì 22 gennaio 2018
Tahereh Alavi
Dentro Le stanze della soffitta va in scena il paradosso di una solitudine estrema, dolorosa e lacerante, in contrasto con un tran tran brulicante, di lingue, di nazionalità, di espressioni, di umori e che comunque ribadisce in continuazione che “c’è un limite in ogni rapporto”. In una Parigi ombrosa e spigolosa dove si trovare per studiare medicina, la protagonista, iraniana, non riesce nemmeno a sentirsi straniera: vive in una condizione precaria e isolata, ma nello stesso tempo condivide aspettative, ritmi e tempi molto diversi, a partire dal confronto con Naim che è lo studente afghano cui divide proprio Le stanze della soffitta. Il rapporto formale e fin troppo educato con Naim riflette alla perfezione la contraddizione di essere così vicini, eppure così lontani. Compresa l’aggiunta di un curioso pizzico di speculazione storica e geografica, visto che un tempo l’Afghanistan era parte dell’Iran. Tutto ciò conduce la protagonista a concludere che “a dire il vero non ero più nulla da molto tempo, proprio dal momento in cui avevo smesso di interessarmi alla politica. Perché essere qualcosa è davvero faticoso, soprattutto se una volta hai creduto di esserlo e poi sei arrivata alla conclusione che sei diventata qualcosa che non vale niente”. Fosse soltanto quello: oltre al suo coinquilino, deve districarsi tra un imbianchino portoghese e un reduce americano, un’intera e chiassosa famiglia africana e una sequenza di personaggi dall’India, dal Sudan, dalla Giordania, dalla Serbia senza contare, ça va sans dire, i francesi nonché gli onnipresenti supermercati cinesi. L’alienazione è acuita dal lavoro che trova, in un obitorio, dove deve lavare i morti, e dalle difficoltà nell’accostarsi alle differenze, spesso viziate dai luoghi comuni che Tahereh Alavi non perde occasione di sottolineare. Il caos cosmopolita trova la sua apoteosi (e, insieme, una sua definizione) quando conosce una ballerina che era “nata in Giappone da genitori coreani, ma era cresciuta negli Stati Uniti e disponeva di un passaporto canadese. Mi raccontò di essere andata in Arabia Saudita solo per imparare la danza del ventre e di esservi rimasta per dodici anni. Ora si trovava a Parigi e, avendo sposato un francese, si considerava, anche solo per metà, una cittadina di questo paese”. La presentazione è necessaria perché è lei a rispondere, e in un certo senso a risolvere il labirinto delle identità dicendole: “Io sono io, tutto qui”. Le stanze della soffitta è un romanzo che si snoda con un ritmo blando e una trama esile, molto vicina alle pagine di un diario, eppure procede con insistenza nel punteggiare le pagine di suggestioni, che lasciano il campo aperto a molte domande. La modestia sfoggiata dal linguaggio di Tahereh Alavi è pari alla convinzione con cui si confronta con quello che è il mondo di oggi. Con un’attitudine singolare e senza dimenticare le proprie origini perché “è vero che gli occidentali non dubitano mai delle nostre storie, ascoltarle è uno dei loro passatempi più salutari e non perdono mai la loro fede in esse. Ma noi, del terzo o di chissà quale numero di mondo, siamo un libro aperto gli uni per gli altri e piano piano abbiamo imparato a non credere facilmente a ogni parola e ogni storia”. L’ironia, per quanto fragile e leggera, non può sfuggire, perché è la componente destinata a bilanciare il vero frutto di ciò che è, nei fatti, un esilio: quella nostalgia che occupa tutte Le stanze della soffitta, persino i corridoi.
sabato 13 gennaio 2018
Ryszard Kapuściński
Grande reporter, osservatore acuto e straordinariamente sensibile nonché insaziabile viaggiatore, Ryszard Kapuściński si addentra in un percorso che spesso è più insidioso di mille campi di battaglia: la sua autobiografia. Con l’esperienza che si è ritrovato, era intuibile che non cadesse nelle trappole della celebrazione o della nostalgia. Anche in questo caso, come in tutti i suoi pregevoli precedenti, Ryszard Kapuściński si avventura con un certo grado di incoscienza che lui stesso ammette, tra le righe: “Ero partito per quel viaggio completamente impreparato: senza un taccuino, senza un nome, senza un indirizzo. E senza conoscere l’inglese. In realtà ero partito solo per ottenere una cosa altrimenti impossibile: varcare la frontiera”. Vantando poi un’umiltà che ricorre sempre nei grandi osservatori, Ryszard Kapuściński sceglie di raccontare il suo peregrinare nel mondo attraverso la complessità della figura di Erodoto che di volta in volta diventa, come il titolo suggerisce, compagno di viaggio e testimone, modello di riferimento e protagonista, scialuppa di salvataggio e faro nella notte. La partenza è tutta nel superare i confini, un atto che In viaggio con Erodoto ribadisce quella che è stata una scelta vitale: “Quello che volevo era semplicemente varcare una frontiera, quale che fosse: non mi premevano lo scopo, il traguardo, la meta, ma il mistico e trascendentale atto in sé di varcare la frontiera”. Da quel momento in poi luoghi dei suoi reportage, nelle odissee intraprese con l’istinto e la curiosità verso l’India, la Cina, l’Iran, l’Egitto, l’intera Africa, Ryszard Kapuściński e, in parallelo, Erodoto ridefiniscono il senso del viaggio che “non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati”. In viaggio con Erodoto diventa così uno strumento perfetto non soltanto per scoprire e riscoprire Ryszard Kapuściński, ma anche per intravedere alcune riflessioni filosofiche nel suo affrontare la realtà (“Ognuno vede la realtà a modo suo, ognuno vi aggiunge i propri ingredienti. Il che rende impossibile ricostruire il passato nella sua verità storica: tutto quello che possiamo ottenerne sono varianti più o meno verosimili, più o meno rispondenti alla nostra mentalità odierna. Il passato non esiste. Esistono solo le sue infinite versioni”) e la memoria (“E’ l’eterna lotta dell'uomo contro il tempo, contro la labilità della memoria, contro la sua tendenza a offuscarsi e svanire. E’ da questa lotta che nasce l’idea del libro, di ogni libro, nonché la sua durata e, per così dire, la sua eternità. L’uomo infatti sa, e invecchiando lo sente con maggiore evidenza, che la memoria è fragile e fuggevole e che, se non fissa le proprie esperienze e conoscenze in modo più stabile, rischia di perderle”), aggiornando e superando il viaggio come metafora della vita. Tra i libri più ispirati di Kapuściński.
venerdì 12 gennaio 2018
Hafid Bouazza
Anche a distanza di venticinque anni (I piedi di Abdullah uscì nel 1996) l’esordio di Hafid Bouazza rimane sorprendente per le sue repentine variazioni di tonalità. A tratti surreale e imprevedibile, a volte fiabesco e sensuale, spesso truculento e boccaccesco, I piedi di Abdullah deve il suo fascino, indiscutibile, alla scrittura di Hafid Bouazza che è un prodigio, un gioco di prestigio, un continuo assalto ai sensi, divertente e ironico, ma molto profondo nel disseminare simboli e metafore e domande. In La città fantasma, primo frammento di I piedi di Abdullah: “La mia prosa assomiglia ai fantasmi della mia memoria: involucri vuoti, epiteti slegati che vagano senz’anima in una città fantasma dove la mia lingua è morta”. Da un villaggio marocchino in cui succede di tutto, a partire dalle ripetute fornicazioni sotto gli ulivi con ogni genere di essere vivente e di ombra latente fino all’utilizzo di verdure usate per soddisfare i sensi (e non dal punto di vista gastronomico), Hafid Bouzza usa tutti i registri possibili per manifestare le distanze culturali e sessuali e nello stesso tempo per ripristinare le proprie radici perché, come dice La città fantasma, “i ricordi sono imprevedibili, tranne che in momenti di indifesa miserevolezza”. Anche nei momenti più sguaiati e irriverenti, o soltanto dionisiaci quando tra l’altro i personaggi in Le uova di Satana si nutrono di “piccioni ripieni di riso, pistacchi, mandorle e uvette, cotti con cipolla, aglio e prezzemolo”, Hafid Bouazza è sempre ispirato e concentrato nel dissimulare il fiume che scorre sotterraneo a I piedi di Abdullah. Si rimane ipnotizzati dalle avventure che comporta “l’ingresso della vita” (a sua volta un gioco di parole tutto da scoprire), dal susseguirsi di gesta picaresche e dalle espressioni colorite, ma un’onda malinconica cresce perché, come ammette Hafid Bouazza, “la memoria è di parte, la mia memoria è pudica e ha lo specchietto retrovisore imbrattato”. E’ il dilemma degli emigranti, il bagaglio di nostalgia e di rimpianto, inevitabili anche se spesso impercettibili e indefinibili, che Hafid Bouzza traduce in Apolline e La traversata, due cardini fondamentali nel dare un senso e una coerenza ai racconti di I piedi di Abdullah. Apolline, pur mantenendo le note istrioniche, impone una brusca variazione, dove il protagonista (con qualche risvolto autobiografico) si trova a godere delle libertà e dei piaceri di Amsterdam. Il contrasto è spontaneo, fortissimo e e comprende la difficoltà del richiamo delle tradizioni e del ritorno a casa. La traversata è uguale e contrario, un riflesso che (già dal titolo) è una sintesi lirica ed emotiva dei viaggi di quelli “vanno dall’altra parte. Se sopravvivono ai prodigi di questo mare”. La conclusione, dopo La traversata, è amara, sincera e attualissima. Se la fuga era necessaria, alla fine l’approdo garantisce solo “circostanze più confortevoli nel senso che non c’era nessuna paura, nessuna illegalità, ma le fatiche erano uguali”. L’umanità di I piedi di Abdullah e per estensione lo stesso Hafid Bouzza resta perplessa pensando “se solo il mondo fosse stato indulgente e disposto a distogliere lo sguardo fischiettando in un istante di paradisiache possibilità”. Già, rimane un bel dubbio. Anche per tutti noi.
mercoledì 10 gennaio 2018
Malcolm Mackay
Bastardi
propone una forma evoluta del noir, dove i protagonisti cercano di
ridurre le distanze tra una vita normale e quella criminale che
conducono. Se la logica rispetta i meccanismi del genere, e non
potrebbe essere diversamente, l’intreccio dei rapporti, soprattutto
tra uomini e donne, presuppone un’etica del lavoro, un lavoro che
non puoi lasciare fuori dalla porta perché è quello che è (non è
un lavoro), complicata dalla difficoltà di conoscere lingue e
linguaggi diversi e dalla realtà di una città dura e cupa. E’ il
motivo per cui Martin Sivok incontra Usman Kassar che lo introduce
nei meandri delle attività criminose di Glasgow, un terreno impervio
e ambiguo su cui vigila Nate Colgan, uno abituato da sempre ai
margini, all’oscurità e alla brutalità necessaria per
sopravviverci. Malcolm Mackay (originario delle isole Ebridi, classe
1981), già conosciuto con La
morte necessaria di Lewis Winter
ha la bussola che puntata sempre verso il giusto profilo dei suoi
personaggi, li tallona da vicino e non li perde mai di vista e La
dimensione più affascinante di Bastardi
è proprio la collocazione delle azioni di Martin Sivok e Usman
Kassar, rappresentanti “blue collar” del crimine, quindi a un
livello ancora più infimo, un aspetto che Malcolm Mackay ci tiene ad
approfondire: “Fin dal mio primo libro, ho quest’idea del crimine
che, sì, viene fatto per i soldi, ma sempre come se fosse un lavoro
normale, un’occupazione vera. Anche se oggi è difficile definire
cosa possa essere normale: qualsiasi cosa voglia dire, alla fine,
credo che le regole del mondo del crimine siano universali e valgano
anche a Glasgow. Conosco bene la città, anche se provengo dalle
isole, ha una reputazione difficile da smentire, ed è molto dura”.
Un posto dove è facile diventare bersagli, e dove l’amicizia tra
Martin e Usman contiene già tutti gli elementi di pericolo che
incombono sulle giornate “lavorative” dei Bastardi.
Il legame ambivalente tra i due si moltiplica con le rispettive
compagne, Joanne Mathie e Alison Glenn. Anche se le circostanze sono
“complicate”, Malcolm Mackay pone l’attenzione sui ripetuti
tentativi di crearsi una parvenza di vita famigliare, sottolineando
in continuazione l’idea che sia qualcosa di “normale” nelle
loro attività delinquenziali. Va da sé che il contrasto cresce
pagina dopo pagina, anche perché Bastardi
comincia già
con Martin imprigionato e destinato a qualcosa di molto, molto
spiacevole perché nel suo “normale” lavoro ha commesso un
errore, ha stretto la mano sbagliata o si è fidato di un “contatto”,
cosa che poi si scoprirà seguendo il lungo flashback su cui si snoda
il romanzo, che ha tutta una sua logica cinematografica. Forse Martin
avrebbe fatto bene ad ascoltare Usman quando gli aveva detto che “non
è un lavoro perfetto. Potremmo dover mollare la fottutissima storia
ancora prima che inizi”. Il rischio c’è sempre (“Ma è così
che funziona il business, giusto?”) e per essere dei veri Bastardi
bisogna dimenticarsi che, una volta usciti di casa per andare al
“lavoro”, la probabilità di non tornare più fa parte della
posta in gioco, anche se ci sono Alison o Joanne ad aspettarti. Un
romanzo da scoprire e uno scrittore da tenere d’occhio.
martedì 9 gennaio 2018
Derek Jarman
Il
crepuscolo di Derek Jarman, che in Chroma,
diventa “un libro sul colore”, è una prova di grande coraggio e
generosità. E’ il giugno 1993, se ne sarebbe andato in un paio
d’anni, e nella sua personale “teoria dei colori” Derek Jarman
sa essere erudito, colto e nello stesso tempo semplice e sciolto.
Chroma incanta per la
misura e l’ispirazione con cui racconta (e sembra di sentirlo, con
un filo di voce) il suo rapporto con i colori, come li identifica, li
riconosce e li esalta: “Accendete i colori uno contro l’altro e
loro canteranno. Non in coro, ma come solisti. Che cos’è il colore
della musica celeste se non l’eco del Big Bang nello spettro, che
si ripete come un ritornello”. I suoi voli pindarici sono
sensazionali, eppure denotano una lucidità sorprendente (quando
parla della beneficenza, per esempio: “La beneficenza permette agli
indifferenti di apparire generosi e questo è terribile per quelli
che dipendono da questa scelta. La beneficenza diventa un grande giro
d’affari mentre il governo elude le sue responsabilità in questo
momento di disinteresse sociale. Noi ci adattiamo e così i ricchi e
i potenti che ci hanno fottuto una volta continuano a fotterci e ci
guadagnano sempre. Ci hanno sempre trattato male, per questo se
qualcuno ci dimostra la più piccola simpatia esageriamo nei
ringraziamenti”) e uno stile libero e poetico, comunque capace di
distinguersi (“So che i miei colori non sono i vostri”) e di
difendersi (“Mi dicono che vivo ai margini della società, che cosa
c’entro se il mondo è storto?”), così come di accertare
l’ineffabile essenza dell’arte. Quando Derek Jarman condivide
l’idea di colorare “le piccole mappe murali dell’universo”,
sa anche che il limite del genio e del destino coincidono perché “il
nostro nome sarà dimenticato col tempo, nessuno ricorderà il nostro
lavoro, la nostra vita passerà come scia d’una nuvola, e si
dileguerà come la nebbia inseguita dai raggi del sole, perché il
nostro tempo è il passaggio d’un’ombra, le nostre vite
svaniranno come scintille tra le stoppie”. Chroma
si conclude nel blu, che poi è il suo blues, prima dell’inevitabile
Magia nera e delle
appendici Oro e argento
(“Non possiedo nulla d’argento e d’oro, ma devo dire che ho
ricordi dorati, momenti d’oro e silenzio d’oro, L’oro non è un
colore, s’annida invece sopra i colori per esaltarli”) e delle
Translucenza e
Iridiscenza, ma a quel
punto i colori sono riflessi mentre Derek Jarman pensava “che i
fantasmi fossero silenziosi, lampi di lucciola che scintillano,
creature opalescenti dell’ombra e della notte, oh, come cicalano
invece, debuttanti su scalinate di cristallo, materia iridescente.
Tra lampadari sfolgoranti danzano un foxtrot, chimere di suoni, alghe
oscillanti, sarabande. Quando scompare brindo al mio fantasma con
acquavite, luminosa presenza di vita e di morte”. Un testamento
accorato, un commiato che era già evidente nell’introduzione
(“Nella nostra epoca ci sono molti colori, ma soltanto quattro
erano impiegati dai grandi pittori greci. Ogni cosa era migliore
quando le risorse erano poche. Al giorno d’oggi, è il pregio dei
materiali e non il genio degli artisti che la gente cerca. Ciò a cui
il pubblico è veramente interessato ora sono i realistici ritratti
dei gladiatori. Ogni cosa è l’ombra d’un passato glorioso. I
colori svaniranno nel crepuscolo della storia) e poi in quella frase,
indimenticabile: “Il tempo è ciò che impedisce alla luce di
raggiungerci”. La legge della relatività, a colori. Toccante.
sabato 6 gennaio 2018
Tahar Ben Jelloun
“Fuori,
non solo sopra la nostra fossa, ma soprattutto lontano da essa, c'era
vita. Non bisognava pensarci troppo, ma mi piaceva evocarla per non
morire d’odio. Evocare, non ricordare. La vita, quella vera, non lo
straccio sporco che rotola per terra, no, la vita nella sua bellezza
squisita, cioè nella sua semplicità, nella sua meravigliosa
banalità: un bambino che piange e poi sorride, occhi che si
strizzano per una luce troppo forte, una donna che prova un vestito,
un uomo che dorme sull'erba. Un cavallo corre nella pianura. Un uomo
con ali multicolori cerca di volare. Un albero si piega per fare
ombra a una donna seduta su una pietra. Il sole si allontana, e si
vede persino un arcobaleno. La vita è poter alzare il braccio,
metterlo dietro la nuca, stiracchiarsi per puro piacere, alzarsi e
camminare senza meta, guardare la gente che passa, fermarsi, leggere
un giornale o semplicemente starsene seduti davanti alla finestra
perché non si ha niente da fare ed è bello non fare niente”: è
un passo centrale e fondamentale di Il libro del buio e già
basta a chiarire le dimensioni di un capolavoro. Asciutto, cupo,
grezzo e a tratti crudele, Il libro del buio si snoda con un
ritmo rarefatto, metodico e inesorabile che Tahar Ben Jelloun declama
instancabile pagina per pagina, come se stesse narrando ad alta voce
la vicenda (basata su una storia vera) di un gruppo di prigionieri
confinati in un buco oscuro, in mezzo al deserto, per diciott’anni.
A loro manca tutto, non solo la luce. Cibo, salute (fisica e
mentale), la possibilità di leggere e scrivere, il contatto umano
(ognuno è segregato in una cella), le più elementari norme
igieniche. Si trovano in una condizione in cui “qualsiasi banalità
diventa eccezionale, la cosa più desiderata al mondo”. Sono
costretti persino a imparare ad ascoltare i movimenti degli
scorpioni, e a rispettarli, per evitare di essere punti, e quando non
sono gli elementi naturali, il freddo o l’insonnia, c’è sempre
la tortura o il rischio di un’esecuzione sommaria. Sono quelli i
termini per cui ogni esperienza legata all’umanità viene azzerata
a partire dalla percezione del futuro perché “la speranza era come
una negazione. Come far credere a uomini abbandonati da tutti che
quel buco era solo una parentesi nella loro vita, che dopo aver
subito questa prova ne sarebbero usciti più maturi e migliori? La
speranza era una menzogna con le virtù di un calmante. Per
superarla, occorreva preparasi quotidianamente al peggio”. Il buio
è soltanto una rappresentazione di tutte le incognite, come se
fossero già in una tomba, e la morte, che è un ospite tutt’altro
che raro, arriva puntuale a ricordarglielo Eppure nel condividere “il
tempo che non ha più senso”, nello scoprire “un minuscolo raggio
di luce”, forse inventato, forse immaginato, nell’estenuante
resistenza, che “è un dovere, non un obbligo”, (e la parola
diventa davvero un sinonimo di sopravvivenza), nella dignità di chi
sta pagando un prezzo troppo alto, quale che sia la colpa, Il
libro del buio si rivela una liricissima elegia alla vita e alla
libertà.
mercoledì 3 gennaio 2018
Chris Salewicz
Rispetto ai
precedenti biografi di Bob Marley (Timothy White e Stephen Davis su
tutti), Chris Salewicz sceglie un approccio a distanza ravvicinata.
Si concentra sull’atmosfera, sugli aspetti conviviali (valgano i
numerosi dettagli sul cibo e sulla vita quotidiana), su particolari
che possono apparire insignificanti (per esempio, l’attenzione
dedicata alle chitarre handmade) e che invece raccontano e rendono
molto bene il senso delle umili radici di Bob Marley. Senza
dimenticare i frangenti più crudeli e atroci, come la fine degli
esecutori dell’attentato del 3 dicembre 1976, altrimenti riportata
da Marlon James in Breve storia di sette
omicidi. D’altra parte la componente
violenta della Giamaica non si può nascondere, così come
l’ambiguità e le usanze truffaldine dell’industria discografica.
Chris Salewicz annota tutto con partecipazione e si affida a numerose
testimonianze dirette, che rendono credibile la sostanza della sua
ricostruzione. Il tono e la direzione sono già chiarissimi
nell’incipit, dove Chris Salewicz racconta il suo incontro con Bob
Marley avvenuto durante la visita, nel 1978, a un detenuto a Gun
Court, un campo di detenzione per chiunque fosse trovato in possesso
anche di un frammento di arma. La Giamaica, scossa da una
serpeggiante guerra civile, se per tradizione “ha avuto un effetto
sproporzionato sulla parte restante del pianeta” si trovava
nell’epicentro delle tensioni della guerra fredda, per almeno due
ragioni concrete: la posizione strategica nei Caraibi (compresa la
vicinanza con Cuba) e la produzione di bauxite, principale componente
dell’alluminio, a sua volta indispensabile per l’industria
aeronautica. Una polveriera in cui la voce di Bob Marley si è
elevata con la sua semplicità, il suo appartenere alla terra, le sue
richieste povere e nello stesso tempo dal valore universale, visto
che, come nota Chris Salewicz, “non è affatto strano che Bob
Marley oggi goda di uno status di icona più prossimo al mito ribelle
di Che Guevara che non a quello di una popstar”. Dal ghetto al
successo internazionale, da Trench Town a Londra, dalla guerra civile
nelle strade giamaicane alle lotte di liberazione africane, Bob
Marley ha attraversato il suo tempo come un profeta, un’identità
definita che Chris Salewicz riporta con grande efficacia, ma
restituendola in tutti i suoi contorni umani. Non sarebbe successo
senza il veicolo ipnotico e contagioso del reggae che contiene “il
religioso, il romantico e il sessuale tutti insieme”, come diceva
il critico musicale giamaicano Garth White, e che Chris Salewicz
colloca nella giusta dimensione, rendendo conto della sua complessa
genesi, dalle influenze del rhythm and blues e del jazz allo ska, dal
rocksteady alle battaglie dei sound system, fino al dub e alle prime
avvisaglie pop e hip-hop. Bob Marley è emerso da questo magma sonoro
e ne è diventato “un archetipo” grazie al coraggio con cui ha
scelto le parole di redenzione e di ribellione, di guerra e di pace,
dell’Africa e di Babilonia, degli schiavi e dei Buffalo
Soldier, dell’amore e della fede. Un
linguaggio intraducibile e paradossale, la cui unicità è stata
recepita worlwide per quello che è: la voce umana (molto umana) di
uno spirito superiore che cantava canzoni di libertà.
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