lunedì 29 maggio 2023

J. Á. González Sainz

Due racconti per Due.città, Trieste e Venezia, sprofondate nella storia, delimitate dalle frontiere, dalle coste e dalle lingue, popolate di ombre e di ricordi, di movimenti infiniti che attraversano il tempo, lo condensano in forme e lo conservano in architetture dove l’incontro e l’addio formano un’onda inarrestabile e dove ogni deviazione genera un varco, uno spazio, una nuova opportunità che è una potenziale intersezione, un attraversamento verso l’incognito e l’inesplorato. In Una leggera differenza di espressione, Trieste è lo scenario di un commiato che arriva come un sipario imprevisto (ma non imprevedibile) che copre con un velo indecifrabile tutta una mappa di emozioni. Claudio Magris dice che Trieste è “una città di scrittori grandi, mediocri o falliti, perché i contrasti che elidono e paralizzano la sua storia inducono a credere che solo scrivendo, esprimendo questo stallo possa dare consistenza alla propria persona”. Proprio così: Una leggera differenza di espressione riesce a cogliere alla perfezione l’atmosfera di “un destino che è il destino del caso, un buon risultato che è conseguenza dell’errore, una città che è tutte le città in un luogo che è tutti i luoghi e un tempo che è tutti questi ultimi tempi, il luogo di tutte le contraddizioni e di tutti gli incontri, con la montagna che prende la città alle spalle e il mare che le entra in faccia, e da tutte le parti, alle spalle e in faccia e sopra e altrettanto sotto, fuori ma anche perfino dentro, il vento come un avviso reiterato, la storia che non finisce di passare”. Qui Trieste e Venezia coincidono o, meglio, collidono, e condividono una dimensione arcana, ma neppure poi tanto. Se a Trieste il movente è la dissoluzione, a Venezia è la scelta, o la possibilità, la chance dietro l’angolo. Eppure Trieste appare aperta, indefinita e illimitata, uno sguardo su un’orizzonte di confini, mentre Venezia è chiusa, circoscritta, delimitata da sponde e incroci, dove ogni bivio presuppone una svolta. Il protagonista che affronta tutti i giorni L’altra strada nel tragitto da casa al lavoro, e viceversa, ammette la condizione kafkiana: “Non so come io riesca a rimanere ogni giorno imperturbabile, o forse soltanto intimorito, confuso, davanti all’eventualità che quell’altra calle mi porge di correggere un itinerario o di arricchirlo, di risolvere un’incognita o di appianare un dubbio”. La sua ambivalenza è un po’ la nostra perché “ci sono tante strade che una volta prese ti portano lontano, dopo alcuni metri oppure al termine di una lunga serie di svolte, sul bordo di un canale o semplicemente in una casa o in un cortile di un caseggiato, in un vicolo cielo! Ci sono tante strade senza uscita, tante calli morte che non vanno da nessuna parte!”. Nell’ambiguità del suo labirinto c’è qualcosa di ipnotico dato che, come scriveva Predrag Matvejević, “Venezia è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Il tormento che L’altra strada impone è uno stillicidio per il protagonista che “ogni giorno e ogni volta di ogni giorno” si ritrova  “davanti agli stessi crocevia” e, di nuovo, le Due.città si sovrappongono perché “non c’è in fondo altro modo di dissipare veramente il mistero se non con una perdita in ogni caso”. Dovrebbe essere chiaro fin dall’inizio, quando J. Á. González Sainz si premura di illustrare il destino di questi “racconti naufraghi”: “Ecco la dialettica narrativa: il gioco infinito della tensione, della ritorsione, del retro e dei ritorni. Non c’è niente senza ritorno, senza rovescio. E il rovesciare è il nostro compito, il ritornare”. Due.città è proprio come una moneta preziosa, testa o croce, avanti e indietro, doppio in uno, da conservare fino alla fine del viaggio, che, non si sa mai, come succede spesso a Trieste e/o a Venezia, potrebbe essere un’altra partenza.

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