martedì 19 ottobre 2021

Barbara Stiegler

C’è un’estrema lucidità nella prospettiva di Barbara Stiegler, che cerca di isolare ogni singolo passaggio della pandemia, riuscendo a chiarire i rapporti di forza che hanno incrinato le strutture democratiche. L’analisi è impietosa, ma precisa, e parte dalle origini e dalle cause, da ciò che c’era prima, e in gran parte parte è rimasto inalterato: quello che “il virus fondamentalmente mette a nudo è la contraddizione tra gli effetti deleteri sulla nostra salute di quello che viene erroneamente chiamato sviluppo economico e l’attuale sottosviluppo di quasi tutti i nostri sistemi sanitari, compresi quelli dei paesi più ricchi del pianeta”. Nella parte iniziale della sua riflessione, Barbara Stiegler coglie l’opportunità per ricordarci come “l’industrializzazione degli allevamenti, unita all’accelerazione del commercio su scala mondiale e al deterioramento della salute delle popolazioni nei paesi industrializzati produce così tutte le condizioni perché lo stesso tipo di epidemia si ripeta regolarmente”. Le condizioni che hanno portato alla pandemia sono le stesse con cui è stata gestita e con una progressione ineluttabile ci hanno introdotto in “un mondo in cui non c’era tempo per imbarazzarsi con la democrazia”. Barbara Stiegler non discute, ragionevolmente, i singoli provvedimenti, le urgenze, i processi sanitari e in genere l’emergenza in sé, ma fa notare che ben presto “invece di una comunità di cittadini, eravamo tornati allo stadio pastorale del gregge”. Mentre i governi (qui, nello specifico, si parla della Francia, ma vale un po’ per tutti i paesi), per inaugurare “la svolta verso un mondo di crisi permanente”, si affidavano a unità speciali di consulenti e consiglieri, estranei ai processi elettivi, prendeva piede “un’infantilizzazione generale di tutti gli atti della vita, pubblici e privati”. Le riduzioni e le semplificazioni, e l’overdose di informazioni in generale, hanno generato un processo per cui “la sfiducia si è instaurata a tutti i livelli come modalità di relazione principale tra i governanti e i governati, sfiducia instaurata dai governanti stessi, eppure così pronti ad imputarla ai cittadini”. A questo punto, la ricostruzione di Barbara Stiegler non si basa su ipotesi o tesi precostruite, ma semplicemente su un’osservazione limpida: “Così, fin dalle prime ore, una spettacolare inversione di responsabilità ha preso forma. Mentre i cittadini erano le vittime di una politica che aveva disarmato il sistema sanitario, il governo ha rovesciato l’accusa imputandola ai cittadini stessi, cioè alle vittime non consenzienti di queste decisioni, declinando un’agenda che non era mai stata dichiarata come tale nei programmi elettorali”. È un dato storico, ormai, ma il pamphlet di Barbara Stiegler, per quanto dichiaratamente schierato, ha il pregio infinito di evitare anche la minima teoria cospirativa, specificando fin troppo bene che “l’errore qui sarebbe quello di cercare un piano o una strategia. Se si volesse ricostituire un complotto potente, si presterebbe molta razionalità a un potere che, nelle circostanze, ne era singolarmente privo. Invece che nell’intelligenza tattica, dovremmo piuttosto cercare dalle parti della paura, che è spesso il motivo principale delle grandi sconfitte. Questo governo che, a partire da questa data, si metterà a governare con la paura, è stato esso stesso dall’inizio alla fine, governato dalla paura. Per il panico del virus, naturalmente, ma anche per quello della rivolta sociale”. Questo è ancora più visibile, oggi, quando “la dolorosa esperienza della cura e dell’educazione spogliate della loro natura collettiva e degradate dal capitalismo digitale allo status di prodotti di consumo” appaiono come i frutti avvelenati della pandemia, mentre sono le conseguenze dell’indulgenza, dell’indifferenza, per non dire della sottomissione, alle regole del mercato il cui interesse per la democrazia, come è noto, è pur sempre relativo. Un libro scomodo, ma efficace.

lunedì 18 ottobre 2021

Konstandinos P. Kavafis

La definizione “poeta del futuro”, in cui Konstandinos Kavafis si rispecchiava, è sicuramente una visione, una proiezione e per molti versi anche un azzardo, ma certo coglie il senso compiuto delle sue liriche. Kavafis mescola a secco storia e mitologia, riducendole a un flusso di versi sottili, intensi e pregnanti, come se la poesia fosse una forma di interazione, di interpretazione e di traduzione. Un linguaggio simbolico, ricco e ipnotico, che si svolge in un avvertimento, a suo modo inevitabile, per le Idi di marzo: (“Temi la gloria, e se non puoi vincere le tue ambizioni, abbi almeno cautela e precauzione nel secondarle. E quanto più avanti vai, tanto maggiori siano attenzione e accortezza”) e che guarda a Itaca, (“Augurati che la strada sia lunga”) come un centro di gravità permanente di tutte le culture classiche del bacino mediterraneo, che Kavafis mostra di conoscere e di possedere in profondità. Il mare è anche protagonista con Le navi, una prosa che è metafora della trasformazione delle parole, dalla “fantasia” alla “carta”, ma la materia che accomuna gli dei agli esseri umani è quella sensualità, vista attraverso “occhi poetici” e trattata da Kavafis con passione, ma anche con estremo riguardo e grande cura. Espressa con somma raffinatezza, si disvela misurando le distanze tra “l’antico desiderio” e “la memoria del corpo”, come è declamata in Torna: un’insistente voluttà composta il più delle volte da un’assenza, da una perdita, da un vuoto improvviso. O dalla conclamata volontà, celebrata in Andai: “Non volli legami. Mi lasciai completamente andare. Verso piaceri, in parte reali, in parte turbinanti nella mente, andai nella notte illuminata. E bevvi vini forti, come bevono i  valorosi del piacere”. Il ricordo gioca un ruolo decisivo e ambivalente che per Kavafis si manifesta nella ricostruzione delle atmosfere in Nello stesso posto (“Aria di casa, i locali, il quartiere che vedo e dove cammino; da anni e anni. Ti ho creato nella gioia e nel dolore: in tante vicende, in tanti fatti. E sei tutto sentimento, ora, per me”) e soprattutto nella costante percezione di una luce, che è evidente in Quando si risvegliano: “Cerca di conservarle, poeta, anche se sono poche quelle che si fermano. Le tue visioni erotiche. Nascondile, in parte, nei tuoi versi. Cerca di trattenerle, poeta, quando si risvegliano nella mente, la notte, o nel bagliore dell’ora meridiana”. Il clima crepuscolare nella poesia di Kavafis è proprio un’estensione di questo equilibrio, tra la carica emotiva e la sua riduzione in forma di parola, comprese quelle poesie destinate a una forma di memoria indefinita e catalogate con la dicitura: “Non per la pubblicazione, ma può rimanere qui”. Questo vitale conflitto è rappresentato a un livello più intimo in Sconcerto (“La mia anima, nel mezzo della notte, nella paralisi, nello sconcerto. Fuori, fuori di lei è la sua vita. E aspetta l’improbabile aurora. E anche io aspetto, mi struggo e soffro, dentro di lei o con lei”) e, all’estremo opposto, in Giura: “Ogni tanto giura di darsi una vita migliore, ma quando viene la notte con i suoi consigli e le sue lusinghe, con i suoi compromessi; ma quando viene la notte con tutta la sua forza, alla stessa fatale gioia del corpo che agogna e cerca, perduto, ritorna”. A colmare tanta ricchezza, resta l’invocazione di Per quanto puoi, una sorta di esplicito proclama della filosofia di Kavafis: “E se non puoi la vita che vorresti, cerca almeno questo, per quanto puoi: non la svilire nei troppi contatti con la gente, con traffici e discorsi. Non la svilire portandola troppo in giro, esponendola alla quotidiana insipienza dei rapporti e degli incontri, fino a farne una fastidiosa estranea”. Allora è giusto richiamare una delle sue letture, quella di Filostratto, quando diceva che “gli dei conoscono il futuro, gli uomini ciò che accade, i saggi ciò che si avvicina”, ed è così i poeti avvicinano tutto il resto.

giovedì 14 ottobre 2021

Richard Thompson

Molti anni fa, intervistato da Bill Flanagan, Richard Thompson diceva: “Combino di più quando affronto la composizione delle canzoni come se si trattasse di un romanzo o qualcosa di simile”. Quella sensazione deve averlo perseguitato talmente a lungo che alla fine ha deciso di dedicarsi a un memoir circoscritto agli anni tra il il 1967 e il 1975, ovvero dall’intuizione dei Fairport Convention all’inizio della sua carriera solista. Il modello anche per una specifica vicinanza artistica, pare essere quello seguito da Joe Boyd con Le biciclette bianche, una forma di racconto lineare che cerca di mettere ordine in anni caotici. Lo stile non è dissimile dal Richard Thompson songwriter e chitarrista: essenziale, cristallino, sincero e pungente. Un osservatore a cui non sfugge nulla e che racconta con particolare dedizione, quasi documentaristica, la sua missione nel rock’n’roll. Comincia prestissimo quando i negozi di strumenti musicali londinesi esponevano il cartello “Non si fa credito agli Who” (e certo, sfasciavano tutto) e lui è un giovane dal talento precoce e spiccato, che deve fare ben presto i conti con la realtà: “Da essere uno scolaretto a diventare un musicista professionista a fare dischi, tutto all’età di diciotto anni; il cameratismo on the road, e la tragedia e la perdita; il matrimonio, i figli e le responsabilità; e la presa di coscienza che la vita è piena di distrazioni che ti distolgono dalle migliori intenzioni”. Richard Thompson si racconta con stile, sia quando deve illustrare la vita notturna a Londra, sia quando deve narrare la convivenza rurale e bucolica con i Fairport Convention. Un ensemble che “ha sbattuto qualche finestra, senza tuttavia buttare giù la casa”, cercando di rinnovare e aggiornare la musica folk e tradizionale, pur lo spirito dei tempi, come spiega Richard Thompson nell’epilogo: “Come i nostri contemporanei anche noi rifiutavamo le nuove regole sociali, prestabilite e soffocanti, idealizzavamo nuovi modi di esistere e di modellare la società, generalmente condannando la guerra e coloro che la facevano, e non avevamo simpatia per i nostri genitori”. Detto questo la rivisitazione di Beeswing è indulgente e rispettosa, anche se è limpida e non nasconde nulla degli usi e dei costumi dell’epoca. Ogni episodio viene collocato in una giusta cornice: dal tragico incidente che coinvolse i Fairport Convention nel maggio del 1969 alla scoperta dell’America, dal legame con Sandy Denny al matrimonio con Linda, dagli eccessi alcolici alla svolta religiosa, Beeswing è un bel ritratto di un periodo prolifico e tumultuoso, comprensivo delle modalità del business, rivelate da un insider al di sopra di ogni possibile sospetto. Anche se la fiction è ridotta al minimo indispensabile, gli aneddoti si sprecano  anche se poi l’afflato verso la musica resta il carburante principale, per non dire l’unico. Il libro arriva a Shoot Out the Lights, il disco (meraviglioso) che ha dato una svolta alla sua carriera solista, ma siamo già in un altro mondo. Qui ci va un piccolo duetto, dove la collega Sandy Denny dice: “Immagino che faccia tutto parte del ricco mosaico della vita”, laddove Richard Thompson pare rispondere di conseguenza: “Penso che noi scriviamo canzoni per puro piacere, ma anche per capire noi stessi e per decifrare la vita”. È il percorso a fasi alterne, ma continue e cicliche, che costituisce il substrato più denso di Beeswing e, tornando all’intervista in cui spiegava le modalità del suo songwriting, Richard Thompson arriva a dire che “se sto scrivendo con regolarità sognerò anche le canzoni”. Così eccolo intercalare nella sua storia sia le divagazioni imposte da strofe e ritornelli di antiche e nuove ballate, sia i ricorrenti paesaggi onirici dove gli capita di incontrare Keith Richards o Joni Mitchell e di trovare, alla fine, la sua voce: la vita è un sogno, un suono e una Stratocaster pagata pochi dollari. Consigliatissimo.

mercoledì 13 ottobre 2021

Stanislav Grof

Attorno all’Lsd sono fiorite congetture, polemiche e controversie che hanno delimitato e ristretto, al pari di altre sostanze psichedeliche, le possibilità di esplorazione e il campo d’azione. La sua stessa origine, che deve molto all’imprevedibile casualità, pare destinarlo a un’ubicazione indefinita, messo in un angolo, bandito, dove non possa nuocere alle teorie sulla personalità, così come sono conosciute e costituite. Stanislav Grof, nato a Praga nel 1931, psichiatra con un curriculum sterminato, ha potuto analizzare i dati di migliaia di sessioni con l’Lsd, sia in Europa che negli Stati Uniti e da quell’enorme bagaglio ha preso forma l’innovativa ricerca psichedelica nei reami dell’inconscio, proprio come recita il sottotitolo. Grof si astiene dal partecipare alla celebrazioni e alle sperimentazioni “profane”: l’approccio è scientifico, misurato, rigoroso per certi versi dichiaratamente conservatore, e all’inizio è molto cauto nel notare come l’Lsd “sembra creare una situazione di attivazione indifferenziata, che facilita l’emergere di materiale inconscio da differente livelli della personalità”. Questo è un primo passo nell’ignoto, poi via via che l’indagine procede, seduta dopo seduta, diventa evidente che “la capacità dell’Lsd, e di altre sostanze psichedeliche, di rendere manifesti fenomeni e processi che altrimenti rimarrebbero invisibili e di renderli oggetto dell’investigazione scientifica, conferisce a queste sostanze un eccezionale potenziale come strumenti diagnostici e come strumenti di ricerca per l’esplorazione della mente umana”. Detto questo, Stanislav Grof, per quanto sorpreso dalle scoperte e dalle coincidenze, non li lascia travolgere dallo stupore. L’Lsd è un trampolino per cogliere quei cambiamenti nella percezione che suddivide in “esperienze astratte ed estetiche, psicodinamiche, perinatali e transpersonali”. Le prime appartengono a una sfera immediata e comprensibile, ma al centro di questa catalogazione Grof individua tra gli strumenti essenziali il sistema Coex (sistema di esperienza condensata) che “può essere definito come una costellazione di ricordi, composta da esperienze condensate, e fantasie collegate, proveniente da periodi diversi della vita del soggetto. I ricordi appartenenti a uno specifico sistema Coex hanno un tema di base simile o contengono elementi simili e sono associati con una forte carica emotiva della stessa qualità. Gli stati più profondi di questo sistema sono rappresentati da ricordi vividi e realistici di esperienze della prima infanzia”. Lì viene ricondotta gran parte delle considerazioni, che Stanislav Grof ha potuto verificare su una massa rilevante di fatti clinici arrivando concludere che “le esperienze infantili rappresentano i nuclei più profondi di complesse costellazioni di ricordi, che agiscono come sistemi dinamici di funzionamento della psiche”. A quel punto, il tragitto prevede “la profonda comprensione della fragilità dell’uomo in quanto creatura biologica”, attraverso le esperienze perinatali (in breve, il trauma della nascita) riportate a galla dall’Lsd. Alcuni passaggi sono sconcertanti e lasciano attonito lo stesso Grof che non manca mai di espletare ogni verifica possibile, anche se poi giunge alla conclusione che è “disturbante realizzare l’incongruenza tra il vissuto interno e la percezione del mondo esterno. È più accettabile sperimentare le proprie emozioni spiacevoli come reazioni appropriate alle circostanze esistenti nella realtà oggettiva”. Ciò diventa più evidente, per non dire tangibile, nelle esperienze transpersonali che, variando dai fenomeni ancestrali all’identificazione con piante e animali, dalla telepatia alla comprensione dei simboli universali “determinano una espansione della coscienza”. È per quello che Stanislav Grof nell’epilogo, sostiene che “uno studio dettagliato dei fenomeni psichedelici”, dovrebbe andare oltre la psicologia e la psichiatria e comprendere una vasta gamma di discipline, dalla neurofisiologia alla filosofia e a conoscenze dettagliate di religioni e mitologie. Succede sempre così quando capita di “sentirsi in connessione con qualcosa di molto più grande di noi stessi”, come dice Jonas Di Gregorio, da San Francisco, California, nell’introdurre questa “nuova mappa della psiche”, ricordando che, Lsd a parte, l’alterazione degli stati di coscienza comincia comunque da qualcosa chiamata meraviglia.