giovedì 31 gennaio 2019

Alexander Stuart

Nella famiglia di Tom è un momento di grandi cambiamenti: stanno traslocando dalla City alla provincia ed è in arrivo un fratello che si va aggiungere alla sorella, alla madre e al padre. In un contesto già piuttosto movimentato, Tom, che si crede “la persona più strampalata al mondo”, grazie ai pruriti dell’adolescenza è sempre fuori posto, comprese le fotografie dei bambini di Beirut appesi in camera. È una condizione che gli calza a pennello, e lo trasforma nell’osservatore ideale, una posizione che, nella Zona di guerra, diventa l’epicentro di un terremoto travolgente: la storia è una spirale che comincia ad avvolgersi nell’istante in cui Tom osserva il padre in bagno con la sorella. Già traumatizzato per essere stato costretto a lasciare Londra per il bucolico Devon, Tom si sente proiettato in un’altra dimensione, ben più che escluso, dalla deformazione famigliare che ha scoperto, sbirciando da una finestra, per caso, ma nemmeno tanto. Anche per Alexander Stuart, la sensazione che prova è descrivibile soltanto in parte tanto che Tom ammette: “Sono solo io che mi sento strano, che sento come se ci fosse una festa in corso alla quale non sono stato invitato”. La shock della scoperta lo spinge a indagare e Tom si rivela un voyeur impacciato (con tanto di videocamera) e travolto dalle contingenze. Il conflitto che si è aperto nella sua mente si estende alla famiglia, a partire proprio dalla sorella, Jessica, e così il Devon diventa una Zona di guerra con Tom che caracolla in un cul de sac: “Mi sento male. Non partecipo alla vita, non è cosa che fa per me. È questa la mia continua punizione: le piante bruciate, il fatto che mia sorella non mi abbia lasciato niente, che stia consumano tutto: vita, sesso, energia, disperazione. Mi sento svuotato. Niente. Mi fanno male i piedi”. Non saprà e non potrà fermarsi, dato che l’incesto è soltanto la virgola tra causa ed effetto e lui si sente truffato:  “Sto parlando di onestà. E, se vai a vedere bene, l’onestà, la vita senza le menzogne, senza il velo protettivo del comportamento comunemente accettato, è maledettamente pericolosa”. È proprio una Zona di guerra, e le sorprese non mancano, fino alla fine. Dal punto di vista stilistico, la scrittura è esiziale: Alexander Stuart punta tutto sull’ambigua natura dei suoi protagonisti, sugli eccessi e sulla forma grezza del loro linguaggio, e la trama, per quanto rocambolesca, avvinghia il lettore. Una possibile interpretazione potrebbe vedere Zona di guerra come  un’estrapolazione di Fatto in casa di Ian McEwan, il racconto che inaugurava la prima raccolta Primo amore, ultimi riti, per non dire delle affinità ballardiane con La fabbrica delle vespe di Iain Banks, nel solco delle deviazioni nell’era della Thatcher. Di sicuro Zona di guerra sa riprendere una realtà decadente, dove l’esercizio erotico e sessuale viene svolto comunque tra le rovine, in mezzo alla spazzatura, al massimo su un pavimento. Tom, protagonista con la turbolenta Jessica o Jessie e, non a caso, voce narrante di Zona di guerra funge da indicatore del livello di guardia raggiunto dalla povertà di sentimenti, e mostra un gran coraggio ad ammettere che “la verità è più grande di tutto il resto, se ne infischia delle regole. Puoi stabilire quante regole vuoi, poi ti ritrovi sempre nel bel mezzo di quel freddo oceano”. Una miseria evocata attraverso la scarna, cruda, vivida esposizione di un linguaggio non mediato dalla scrittura. La narrazione vive di questa tensione e, fino alla beffa finale (perfetta) ricrea un limbo pericoloso dove i rapporti (all’interno dello status famigliare, o meno) vengono risolti dall’arma verbale, anche nei momenti (e non mancano) dove l’azione si fa più violenta. In questo Zona di guerra mischia le carte: se in apparenza è il romanzo di un’iniziazione (quella di Tom), sotto la superficie si nasconde un atto propiziatorio, tanto per i protagonisti quanto per i lettori, indicato per conoscere la parte oscura, malata e perversa dell’amore. Quella Zona di guerra dove la battaglia non finisce mai, perché “o c’è la bellezza o l’oscurità, non le due insieme”, e non ci sono né vincitori né vinti, ma soltanto vittime.

lunedì 28 gennaio 2019

Graham Swift

Ci sono le canzoni dei Beatles e quelle di Roy Orbison in sottofondo all’Ultimo giro di Vince, Ray, Lenny, Vic e Jack. Quest’ultimo, dopo aver fatto il macellaio per tutta la vita, ha chiesto agli altri quattro di spargere le sue ceneri sul mare. Legati da un intreccio di rapporti, conoscenze, storie in comune e un lunghissimo elenco di pinte bevute insieme il sabato pomeriggio, Vince, Ray, Lenny e Vic si avviano con le ceneri di Jack in una scatola e il tono dell’Ultimo giro è dettato già dalla partenza: “E ci sentiamo tutti nello stesso modo, con il sole che splende, la birra che abbiamo bevuto, il viaggio che ci aspetta: come se fosse una cosa che Jack ha fatto per noi, per farci sentire speciali, per farci un regalo. Sembra un gita, una giornata di baldoria, e il mondo sembra bello, sembra lì solo per noi”. Il viaggio non ha particolari valenze simboliche ed è soltanto una trasferta di qualche chilometro dentro la campagna inglese, ma è quanto basta perché ognuno di loro cominci a riflettere, scovando rimpianti, ricordi e, per qualcuno, scampoli di futuro, perché “non si può ricordarne uno senza ricordare gli altri. E ricordando gli altri non si può non dedicare un pensiero anche a quelli che non hai mai conosciuto. È la cosa che rende tutti gli uomini uguali, sempre e in eterno. C’è un solo mare”. Tutto si svolge nella Mercedes di Vince o nelle brevi soste (dove la birra non manca mai, nutrendo l’impressione che si tratti, a tutti, gli effetti di un lubrificante del linguaggio) in un’atmosfera surreale, come se tutti fossero in procinto di dire qualcosa che non possono o non vogliono dire. L’Ultimo giro si risolve così in una sorta di coro di frasi non dette, emozioni non confessate, pensieri che entrano in feedback: la morte di Jack sembra aver liberato tensioni che duravano da decenni e messo a nudo le miserie e i sogni di tutti, che coincidono perché come dice Ray, o meglio Lucky, “i sogni sono sempre patetici”. È proprio Ray la guida dell’Ultimo giro: tra tanti falliti, è il più dotato intellettualmente, ma ha visto andarsene prima la figlia e poi la moglie e si è consumato in un anonima occupazione d’ufficio, sapendo che “il lavoro che fai e la vita che vivi nella tua testa sono due cose diverse”. Unica alternativa le scommesse, in cui è insuperabile, grazie anche ad alcune regole infallibili. La seconda dice semplicemente: “Non è scommettere, è sapere quando è meglio di no”. Sarà anche una metafisica della vita, ma Ultimo giro suona reale, toccante e vero come se Vince, Ray, Lenny, Vic e Jack li conoscessimo almeno quanto le canzoni dei Beatles e di Roy Orbison che aleggiano in tutto il romanzo. A maggior ragione, se si pensa a quello che Graham Swift, un autore che oltre a uno stile elegante, ha anche il merito di una discrezione non comune, disse in un’intervista di qualche anno fa: “Il mio cuore è sempre con tutti i miei personaggi anche quando sono in opposizione tra loro. Forse è questo il motivo per cui è possibile vedere in ciò che scrivo, in molte coppie di personaggi, un senso di appartenenza reciproca anche quando sono su opposte posizioni”. In Ultimo giro, dove i personaggi sono perennemente in contrasto, Graham Swift arriva al toccare i nervi scoperti della scrittura, della narrativa e del senso che devono avere, che è poi quello di un’eterna scommessa nell’interpretare la vita e le sue contraddizioni. “Si tratta sempre di probabilità”, come direbbe l’ineffabile Ray, ma con Ultimo giro, Graham Swift ha fatto il colpo grosso: ha puntato sui perdenti, e si è portato via tutta la posta in gioco.

domenica 27 gennaio 2019

Béla Bartòk

È un momento storico per la musica. L’involuzione dell’industria discografica e dello stardom system da una parte, e la continua rincorsa all’evoluzione tecnologica dall’altra, hanno portato ad un radicale cambiamento del consumo della musica. I due aspetti sono complementari: dall’apparizione del compact disc, il mercato discografico è sceso in picchiata e neppure il proliferare di nuovi supporti è stato in grado di evitare un fallimento epocale. Per inciso, ricerche di alcune università americane, indicano nell’incapacità degli attuati A&R (Artist & Repertoire, quelli che scelgono la musica da produrre e da vendere, nella sostanza) gran parte della responsabilità del disastro. Noi è almeno dieci (se non di più) che lo diciamo, ma a questo punto c’è una componente più importante da far emergere e questi Scritti sulla musica popolare di Béla Bartòk arrivano all’appuntamento con una puntualità e un’attualità sorprendenti. Compositore, ricercatore, viaggiatore e antropologo, Béla Bartòk illustra nei Scritti sulla musica popolare metodologie ed esperienze sul campo, aneddoti e consigli su come cogliere “una certa semplicità primordiale, ideale, priva di scorie” con cui identificare la musica popolare. Un processo per niente facile perché “la musica popolare è come un essere vivente che cambia di minuto in minuto, tanto è vero che i capitoli centrali degli Scritti sulla musica popolare (dedicati essenzialmente alla musica popolare mitteleuropea e balcanica) riescono appassionanti anche per chi etnomusicologo o antropologo non è. Anche perché la conclusione è la chiave di volta per la comprensione dei cambiamenti legati ai consumi musicali perché secondo Béla Bartòk la musica popolare non è “un’arte individuale ma una vera e propria manifestazione collettiva”. È un capitolo delle appendici quello che si snoda attorno a questa constatazione e che ci riguarda da vicino. Si chiama Musica meccanizzata e fuggendo linguaggi universitari o intellettualoidi va subito al cuore del problema. Da una parte è (il problema) industriale perché scrive: “Con vero rincrescimento, però, dobbiamo constatare che le case discografiche, preoccupate assi più di guadagnare che si assolvere a degli impegni di cultura, non pensano affatto a soddisfare le esigenze di studio che si sono dette”, ed era il 1930 o giù di lì, segno che la crisi degli A&R scoperta soltanto oggi da bravi studiosi americani è una bella scoperta, ma del tutto relativa. Il problema è che, se è meccanizzata, come dice Béla Bartòk, la costruzione e la gestione della musica, oggi come ieri sembrava diventato meccanizzato anche l’ascolto: “Io creo che, per molte persone, anche la trasmissione di musica seria sia soltanto una specie di carezzevole bagno tiepido, una specie di musica da caffè, un piacevole brusio di fondo, fatto per rendere meno noioso ciò che si sta facendo. Senza contare, poi, che probabilmente una buona parte delle persone che ascoltano la musica alla radio, si abitua a timbri deformati e perde la sensibilità per quelli autentici, giungendo magari al punto di non amare più il suono naturale della musica”. Non è necessario essere degli esteti per capire che le intuizioni di Béla Bartòk toccano tasti reali e dolenti. La musica, così come la letteratura, il cinema o ogni altra forma di comunicazione, ha bisogno di un pubblico che non sia casuale. Purtroppo, quello che è stato generato dall’industria dello spettacolo degli ultima anni, tra videoclip e spot, è un consumatore talmente distratto che ormai la musica la vuole (soltanto) gratis. È ovvio, nessuno pagherebbe mai per annoiarsi.

sabato 26 gennaio 2019

Christopher Brookmyre

Jack Parlabane, il reporter d’assalto dai metodi poco ortodossi già protagonista di Un mattino da cani si ritrova coinvolto, suo malgrado, in un complotto oscuro e spietato. Un magnate dei mass media (“Solo un uomo d’affari morto, talmente impegnato a farsi pubblicità da sé che, dopo la sua scomparsa, non c’era nessuno a soffiare nelle trombe per lui. A conti fatti, non era un gigante, e la storia lo avrebbe rimpicciolito ogni giorno di più”) massacrato con la moglie e le guardie del corpo, una banda di ladruncoli presa come capro espiatorio, servizi segreti che tramano nell’ombra e soprattutto l’opinione pubblica da controllare, manipolare, illudere (“L’incredulità nasceva come reazione al continuo gridare al lupo. Il pubblico era talmente desensibilizzato dalle iperboli usate per riferire gli avvenimenti più tediosi, e dalle esagerazioni che consentivano di distorcere o decontestualizzare la frase più innocua per creare sensazione dove non c’era nemmeno una storia, che quando accadeva qualcosa di veramente notevole non era più in grado di affrontarlo. I media, dopo aver privato di significato ogni superlativo con l’abuso e lo strauso, non avevano più un vocabolario capace di trasmettere un vero impatto”). Con il ritmo di un thriller, Il paese della menzogna aggiunge un nuovo capitolo alle teorie della cospirazione (Don DeLillo insegna) con una lunga teoria di personaggi picareschi che imperversano tra le righe e soprattutto percorrendo le stesse atmosfere fosche e minacciose dei romanzi di Iain M. Banks, probabilmente il capostipite dei narratori scozzesi dell’ultima ora. C’è più di un punto di contatto tra Il paese della menzogna e il suo Complicità, in particolare, quell’attitudine a vedere e leggere il noir come una sorta di laboratorio sociale, un filtro utile a decifrare la realtà sempre più incontrollabile, sempre più feroce che ci circonda. La caparbietà, e l’incoscienza, di Jack Parlabane viene illustrata da Christopher Brookmyre con dialoghi serrati e sincopati, spruzzati con un velo di comicità irriverente e con un tono generale caustico e senza fronzoli. Perfetto per coinvolgere il lettore nell’idea che esiste sempre un ulteriore livello, nascosto e potente, in grado di condizionare la storia e dunque, come dice Jack Parlabane, “bisogna stare molto attenti a ciò che si desidera”. Forse c’è qualche lungaggine di troppo, ma Il paese della menzogna offre un punto d’osservazione spietato sul mondo moderno, che si condensa nella constatazione che “di solito tutto diventava più reale alla luce del giorno, quando ti svegliavi e scoprivi di non aver sognato la notizia e, cosa più importante, ti rendevi conto che il mondo non si era fermato e che, al di là dell’essere costretto a tenerti aggiornato sulle interminabili discussioni, la faccenda non avrebbe influito sulla tua vita”. La sovrapposizione tra vero e falso è il nucleo di un colossale buco nero e non solo tanto in Scozia o in Inghilterra: a guardarlo (e leggerlo) bene Il paese della menzogna di Christopher Brookmyre potrebbe trovarsi benissimo anche qui da noi.

venerdì 25 gennaio 2019

Aliya Whiteley

Nell’immaginario villaggio di Westerford, Shirley Fearn sogna di studiare per poi insegnare e progetta di trasferirsi a Taunton, nel Somerset, che invece esiste davvero ed è sede dei King’s e Queen’s College. S’intuisce che la distanza tra le due località è relativa, ma la distinzione è propiziatoria perché L’arrivo delle missive fa scintille proprio grazie all’attrito tra i riferimenti reali e gli imprevedibili riflessi di universi paralleli. Shirley è ammaliata, se non proprio innamorata, del signor Tiller, insegnante arrivato da poco a Westerford, e reduce della prima guerra mondiale. È claudicante, riservato e nasconde terribili cicatrici. Probabile che soffra, come altri soldati che tornano e non sono più loro (compreso il signor Redmore, fabbro del villaggio, e padre di Daniel, amico e poi fidanzato di Shirley), di disturbo da stress post-traumatico, che proprio in quegli anni cominciava a essere come tale. Le sofferenze gli conferiscono un’aura che nessuno ha mai visto a Westerford e Shirley ne è ipnotizzata, ma anche molto cauta: “Se solo fosse possibile controllare l’amore, lo spegnerei e lo metterei via per farne un uso più proficuo in un momento diverso”. Tra le ferite rimarginate, Tiller conserva una creatura minerale che gli ha concesso il dono della preveggenza che comunica a Shirley attraverso lettere fitte di presagi. L’elemento simbolico della pietra è rilevante nella cultura celtica (richiamata anche con i preparativi per il Calendimaggio, e la sua celebrazione, dove Shirley diventa regina per una notte): uno sciamano poteva assumere le forme di altri esseri, comprese le rocce, per manifestare le proprie facoltà divinatorie. Una sfumatura più ancestrale che fantastica, perfettamente inserita nel contesto bucolico di Westerford, dove L’arrivo delle missive in sé genera una scia di turbamenti tanto che Shirley riflette: “Forse, sul nostro cammino, si attendono tempi bui. Come idea mi sembra molto più sensata. Riesco a immaginare il terribile futuro degli ultimi superstiti della razza umana che, in preda alla disperazione, tornano indietro per rimediare a qualche terribile sbaglio che non doveva assolutamente verificarsi. Penso che in molti vorrebbero avere la capacità di correggere gli errori commessi”. Assecondando Tiller nelle sue premonizioni (in cui non è difficile intravedere il terrore di una nuova apocalisse mondiale), Shirley trova il coraggio di far valere la propria indipendenza, con un coraggio ammirevole per una giovane donna in un circondario rurale dell’età vittoriana. Quando è costretta a confessare le sue scoperte al cospetto delle principali autorità che definiscono la sua vita (suo padre e quello del futuro sposo, nonché il reverendo Mountcastle) si sente rispondere che “gli uomini tornano a casa raccontando le storie più improbabili e pensano di dovere affrontare ancora dei nemici, li vedono dappertutto. Dopo aver vissuto tempi simili, cancellarli dalla mente è impossibile”. C’è qualcosa in più, come scriveva Fredric Manning in Fino all’ultimo uomo, “c’è una forza straordinaria nella guerra, una forza che spoglia l’uomo di ogni sua copertura convenzionale, lasciandolo inesorabilmente nudo come la realtà che deve affrontare”. Il contrasto è evidente e Tiller è soltanto un (crudele) diversivo: è un altro, il conflitto latente che le sue visioni spalancano. Shirley si ribella alla bucolica esperienza nella campagna del Somerset, alle costrizioni famigliari, a un matrimonio visto più in funzione del mantenimento della fattoria e dei pascoli che di un legame affettivo, condizioni che la portano a considerare che “a quanto pare, non sempre l’amore è garanzia di felicità”. In L’arrivo delle missive Aliya Whiteley riesce a mantenere in equilibrio un originale patchwork che raduna le radici celtiche, gli effetti tragici della guerra, la riluttanza alle convenzioni e la dimensione soprannaturale con la rivelazione di Shirley, quando arriva alla conclusione che “l’amore è uno sporco lavoro, fatto di mancanze, di difficoltà, di compromessi, ma in cui ci si fa forza a vicenda perché il mondo è crudele, e sono poche le persone disposte a comportarsi correttamente con te senza pensare alle proprie esigenze personali”. È ancora così, dalla notte dei tempi, e non serve un druido per capirlo. Basta una ragazza che lancia un sasso nello stagno.

mercoledì 23 gennaio 2019

John Banville

Trame di spie e di agenti segreti sono sempre state un soggetto allettante, fin dagli albori della letteratura e dei servizi d’informazione: già James Fenimore Cooper e Joseph Conrad avevano percepito le possibilità narrative nel raccontare doppi e tripli giochi, codici cifrati e cambi di ruolo e di interprete, ma, ancora più indietro nei secoli, La congiura di Catilina aveva messo una pietra d’angolo per ogni spy story che si rispetti. Da 007 in poi, un intero genere letterario si è sviluppato con conseguenti propaggini cinematografiche, ma spesso la qualità della scrittura è andata al ribasso e destinata a un pubblico di lettori occasionali e distratti. D’altra parte come scriveva Ian McEwan: “I romanzieri sono sempre dei grandi maestri di spionaggio perché, per tenere avvinta l'attenzione del lettore, non rivelano tutte le informazioni in loro possesso. Usano trucchi. Hanno segreti che non confessano se non quando gli conviene (sempre per questioni di strategia narrativa). Fanno disinformazione dando informazioni erronee ai lettori, sempre allo scopo di coinvolgerli maggiormente nella lettura”. È quindi molto più interessante quando qualche scrittore si avvicina al temo partendo da una prospettiva che non sia solo e unicamente quella della spy story: Norman Mailer con Il fantasma di Harlot, Don DeLillo con I giocatori e, appunto, Ian McEwan con Lettera a Berlino, John Banville con L’intoccabile. Prendendo spunto da un fatto di cronaca (un gruppo di intellettuali di Cambridge assoldati dai servizi segreti sovietici), John Banville costruisce la storia delle motivazioni, delle soluzioni e dell’intricata rete di connessioni attraverso il memoriale di Victor Maskell, critico d’arte, professore universitario, cortigiano della famiglia reale e spia a tutto campo, ovvero L’intoccabile del titolo. L’idea stessa di partire con un tono confidenziale, da diario quotidiano, è una scelta geniale perché introduce subito nell’atmosfera di segreti sussurrati in malinconici pub londinesi, ma anche all’attitudine di dire e non dire, togliere una maschera per svelarne un’altra perché un agente segreto è senza controllo in quella che Don DeLillo chiama “una realtà incontrollabile”. Allora ecco Victor Maskell che comincia le sue memorie, usando la scrittura come uno strumento di difesa dalla pubblica gogna a cui è sottoposto: “Mi sono seduto e mi sono messo a scrivere, come se fosse la cosa più naturale del mondo, anche se ovviamente non è così”. La ricostruzione del passato, di Londra sotto i bombardamenti nazisti, dell’intersecarsi di vicende personali e di interesse nazionale è ineccepibile e lo svolgersi della storia permette a John Banville di svelare ancora una volta, uno stile florido eppure conciso e teso, come ha detto ancora Don DeLillo, a “leggere a fondo nell’animo dei personaggi”. Ne esce un grande romanzo, che ha il pregio di fondere una scrittura colta e impeccabile con una spy story intrigante e senza un attimo di pausa: particolarmente indicato ai lettori che amano scavare tra le righe e dietro le apparenze della storia.

Robert McLiam Wilson

Aveva poco più di trent’anni Robert McLiam Wilson quando dava seguito al brillante esordio di Ripley Bogle con Eureka Street. Ripley Bogle (che tra l’altro riappare nelle ultime pagine di Eureka Street) era la storia di un clochard intellettuale raccontata con uno stile ricchissimo eppure livido e crudo. Personaggi marginali, outsider senza speranza, baracche sulle rive del Tamigi: il lato oscuro della Londra sfavillante alla fine del ventesimo secolo. Per Eureka Street si sposa invece a Belfast (“un campo di battaglia”), sua città natale, dove inventa un gruppo di amici alle prese con lavori improbabili, l’amore (che va e viene, anche se l’incipit è lapidario: “Tutte le storie sono storie d’amore”), le birre, le sbronze e la fatica a uscire dal letto il giorno dopo, le settimane che si trascinano faticosamente e i week-end che finiscono sempre nello stesso modo. Nel gruppo si distinguono Jake, che assume anche il ruolo di alter ego di Robert McLiam Wilson, e Chuckie: il primo ha il pallino dell’intellettuale, ma fa il muratore; il secondo è un affarista nato e un amateur in procinto di diventare papà. Fino a metà romanzo, sebbene la guerra civile sia una costante in sottofondo, Eureka Street è una commedia degli equivoci, un susseguirsi di riflessioni più o meno ispirate sulla vita (Jake, per esempio: “Avevo già atteso altre volte nella mia vita e c’ero abituato, ma questa volta era diverso. Sembrava proprio che sarei rimasto ad aspettare per sempre. Abbiamo un’idea sbagliata del tempo: non è denaro, non è velocità”), un rincorrersi per le vie turbolente di Belfast, che è la vera anima del libro. Robert McLiam Wilson ripete l’exploit di Ripley Bogle confermandosi narratore di talento, capace di tessere storie che sono legate alla realtà, alla vita quotidiana, ma poi arrivato all’undicesimo capitolo, usa la scrittura come un bisturi e lo infila nella piaga. Senza avvertimenti, senza risparmiarsi: in una dozzina di pagine (sconsigliate ai deboli di stomaco) racconta la violenza dell’esplosione di una bomba in Fountain Street e, risolutamente, prende posizione. Da lì in poi Eureka Street è influenzato dalle conseguenze dell’attentato, il tono tende a essere più attento, certe rivelazioni vengono mostrate con più cura, le vite dei personaggi assumono altri significati. Le divisioni che la deflagrazione ha messo in risalto si ripercuotono per le vie di Belfast così come sulle consuetudini dei legami che Jake affronta così: “Come potete immaginare, ne avevo le palle piene di quelle discussioni, di quell’odio che assumeva maschere diverse ma in fondo era sempre lo stesso. Avevo già sentito mille volte quei discorsi, quegli argomenti, quelle parole. Sapevo già come sarebbe andata a finire ogni singola frase prima ancora che qualcuno la cominciasse. Era come sfogliare un vecchio quaderno ingiallito e pieno di orecchie”. L’equilibrio, molto delicato, tra il tono di una commedia agrodolce e la brutalità di Belfast regge fino in fondo e i risultati che raggiunge Eureka Street una volta giunti alla fine sono almeno due: a) conferma Robert McLiam Wilson nel ruolo di scrittore geniale e scomodo; b) smentisce e azzera tutte le voci che vorrebbero la letteratura (ma anche la musica, il cinema, e l’arte e la comunicazione in generale) al servizio dell’entertainment idiota e autoreferente che oggi è prassi comune.

martedì 22 gennaio 2019

Lloyd Bradley

Ha molte ragioni Lloyd Bradley nel definire “un’avventura” la sua certosina ricostruzione della musica giamaicana. Un lavoro che riesce a rendere visibile e tangibile i complessi intrecci che legano in un solo, denso tessuto vita e musica giamaicana. Una panoramica completa che è nello stesso tempo attenta al più piccolo dettaglio, così come a una visione globale dove la musica ha una parte fondamentale, senza dubbio, ma viene letta e sentita come un pezzo di tutta la storia, e non l’unico. Prince Buster rende bene l’idea dell’impostazione di Bass Culture nella sua prefazione: “La musica giamaicana è sempre stata una vera musica popolare, ma quando hanno raccontato la sua storia l’hanno presentata di rado come la storia di un intero popolo, una storia che facesse capire che le persone dotate di talento erano state influenzate dal popolo prima di entrare in studio o di prendere in mano un microfono durante una serata. Troppo spesso hanno raccontato soltanto metà della storia, e lo sfondo, i sommovimenti e i mutamenti vissuti dall’isola prima e dopo l’indipendenza finiscono dimenticati sotto una valanga di musica”. Con Lloyd Bradley non succede perché lo sviluppo della sua “avventura” parte dalle strade polverose di Kingston e arriva ad “alcune parti di Londra che mi ero dimenticato perfino esistessero”, come ammette lui stesso, sempre alla ricerca di tracce di un’evoluzione musicale sorprendente e che ha influenzato molta della musica moderna, compresi punk e hip hop. La svolta storica, se non altro la presa di coscienza della forza della musica giamaicana a livello internazionale, avviene attorno alla figura di Bob Marley a cui Lloyd Bradley si accosta senza enfasi e con molta cautela. Questo anche perché “sin dal primo giorno il reggae si è dimostrato abbastanza fluido e flessibile da inglobare un numero apparentemente infinito di sottostili, risolvendo in questo modo il problema della noia sia dei musicisti sia nelle più esigenti piste da ballo” ed era nella sua natura trasformarsi in continuazione, diventando davvero una cultura, un linguaggio a parte. Lo dice anche Jimmy Cliff: “Nei Caraibi la musica ha sempre parlato della gente, è sempre servita a comunicare come si sentiva. È verissimo quando dicono che è un po’ il giornale del ghetto. Il calypso e il mento erano quello, lo ska e il rocksteady illustrano il periodo dei rude boyes. Il reggae celebrava l’indipendenza e l’ottimismo di quell’epoca, poi il movimento rasta e la musica roots hanno portato allo scoperto il malcontento. Come oggi, quando il dancehall reggae riflette direttamente l’umore della gente. Che tu lo ritenga positivo o meno”. Aggiornatissimo, pieno di suggerimenti discografici e bibliografici (tra va segnalato almeno Rasta Revolution di Horace Campbell,), Bass Culture è, poco più, poco meno, la bibbia della musica giamaicana e un libro che racconta, più e meglio di molti altri, quanto può essere importante la musica nella storia complessiva di un popolo, di una nazione o di un intero mondo.

domenica 20 gennaio 2019

J. G. Ballard

Regno a venire è un punto di non ritorno dell’esplorazione di quella “geografia di deprivazione sensoriale” che è la realtà suburbana postmoderna dei centri commerciali, degli snodi autostradali, delle aree per le logistiche e delle “periferie di nessun luogo” in genere (ammesso che da qualche parte esista ancora un centro che abbia un senso). James Graham Ballard si è dedicato a lungo a queste aree, che potrebbero essere nei dintorni di Londra come nel caso di Regno a venire (ma anche di Millenium People e, anni fa, nell’allucinato Il condominio) ma le cui contraddizioni sono identiche sulla Costa Azzurra (Super Cannes) o altrove (Cocaine Nights) e in altre definizioni o misure valgono anche per ogni altro angolo del mondo. Con Regno a venire però sembra aver sublimato tutti i romanzi che l’hanno preceduto sul tema (quelli citati qui sopra, ma non solo, perché per certi versi ci starebbe pure Crash) scrivendo il suo libro più duro, più politico visionario e mettendo insieme, nello stesso tempo, una delle sue opere più lucidamente inquietanti. L’antefatto e la trama potrebbero essere persino banali e adatti a un thriller di seconda o terza categoria: un anziano viene ucciso in un centro commerciale e il figlio, che conosceva molto poco il padre, nel tentativo di scoprire gli assassini scopre anche chi era il genitore e chi è lui. Sembra il compito della prima settimana di un corso di scrittura creativa, ma Ballard è straordinario nel reinventare i luoghi comuni e ben presto scopre che il Regno a venire del titolo è un incubo dove, dice uno dei suoi personaggi (e nemmeno il più a posto): “La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce. Non c’è quasi nessuno che abbia un briciolo di senso civico. È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre”. Il Metro-Centre, un mostruoso centro commerciale attorno a cui sembra ruotare tutta la vita (e la morte) di Regno a venire ha qualcosa di familiare perché l’abbiamo già visto da qualche parte, anche sulle nostre strade; l’imbonitore televisivo che svolta per la carriera politica (o viceversa), è un’esperienza della tarda civiltà occidentale che conosciamo molto bene e Ballard infila il dubbio che sia “un nuovo tipo di democrazia, si vota alla cassa invece che alle urne. Il consumismo è lo strumento migliore mai inventato per controllare le persone. Nuove fantasie, nuovi sogni, nuove antipatie, nuove anime da salvare. Per qualche strana ragione chiamiamo tutto questo shopping. Ma in realtà è la forma più pura di politica”: la violenza endemica negli stadi, nei confronti degli immigrati, nelle risse quotidiane per quelli che tutti chiamano futili motivi, nel neofascismo strisciante della volgarità e dell’indifferenza è solo un’eruzione cutanea di una patologia molto più complessa e devastante perché “l’economia procede lungo una pianura interminabile e in consumatori non ne possono più di quel panorama. Hanno bisogno di qualcosa di strano, che gli faccia sentire un brivido lungo la schiena”. E Ballard, giocando sul filo di un tesissimo noir, tra la denuncia sociale e quel sentore apocalittico che distingue gran parte della sua scrittura, mette il sigillo su un romanzo che, al pari di La strada di Cormac McCarthy (in altri modi e in un un altro mondo) ha aputo interpretare i nostri disgraziati “modern times”.

John Berger

Essendo la storia di una coppia, in Lillà e Bandiera è tutto doppio, specchio e riflesso. Essendo uno dei tre vertici della trilogia Into Their Labours dedicata da John Berger ai migranti d’Europa (gli altri sono Una volta in Europa, che è il capitolo fondamentale, e Le tre vite di Lucie, ma andrebbe ricordato per la naturale affinità anche Il settimo uomo, con le fotografie di Jean Mohr) tutto è tra due sponde, un punto di vista e il suo corrispondente, l’alto e il basso, il dentro e il fuori. Tante piccole storie che s’incastrano in un reticolo di sguardi, movimenti, incidenti e imprevisti ma che insieme costituiscono un mosaico rivelatorio perché, come spiegava, lo stesso John Berger in un’intervista “a me sembra che ogni storia che riguarda una vita non sia una piccola storia, non esistono piccole storie in quel senso. Quando provi a raccontare una storia devi fare contemporaneamente due cose, ed è quasi una contraddizione: perché devi avvicinarti il più possibile all’esperienza vissuta di quella storia, arrivarle molto vicino e nello stesso tempo devi cercare di mettere questa storia non sotto il cielo, ma in tutta la storia delle storie, e la storia umana comincia con le storie”. Del resto Lillà e Bandiera s’incontrano sulla porta di una prigione e tutte le loro passioni, così come le storie che gli rotolano incontro, sono sempre in mezzo ad un guado: Troia è una metropoli e nello stesso tempo un frammento del passato e “tutti hanno bisogno di tutti”, perché “adesso è notte, è da parecchio tempo che è notte”. Un’atmosfera crepuscolare attanaglia non solo Lillà e Bandiera, ma tutti i protagonisti che soffrono le ingiurie del tempo, la fatica di trovare un’altra ragione di speranza, il disorientamento di non essere né di qui né di lì che è poi la condizione ultima degli esiliati. Il lavoro, la famiglia, una casa, il pane quotidiano, ovvero i sogni di ogni migrante dovrebbero essere il collante umano, ma in Lillà e Bandiera (così come negli altri capitoli della trilogia) diventano prima un’ossessione e poi fonte di disperazione dato che la vita ai margini della città come della storia porta inevitabilmente nell’oscurità. C’è solo un attimo di pace, quando “la mattina presto, prima che molto sangue venga versato, prima che la spietatezza dei forti abbia raggiunto il suo apogeo, quando i nottambuli sono finalmente addormentati e liberi della loro tristezza, c'è un momento in cui il nuovo giorno sembra quasi innocente”, ma lo scarto è troppo breve e viene sempre il tempo di un’altra partenza, l’ultima. Resta soltanto l’appiglio estremo delle parole che “aggiungono e tolgono. Sia quelle che vengono dette sia quelle che ci ronzano in testa. Sono sempre inopportune, perché non vanno mai bene. Ecco perché le parole, fanno soffrire e offrono salvezza”. Il dualismo tra i protagonisti, tra uomo e donna, città e campagna, e tra potere e libertà è condensato proprio nelle parole, e rilanciato all’infinito da John Berger perché “con le parole tutto può accadere di nuovo, come la storia che vi sto raccontando, eppure le parole non cambiano mai ciò che è accaduto”. L’unico punto fermo, il polo che attira e respinge nello stesso stempo resta Troia: l’indefinita posizione geografica è voluta, essendo ovunque all’incrocio tra i mondi di chi parte per fuggire la miseria e di chi si nasconde nella ricchezza. Lirico, toccante, straordinariamente attuale.

sabato 19 gennaio 2019

Derek Raymond

Considerato all’unanimità il capolavoro di Derek Raymond, Il mio nome era Dora Suarez è un romanzo duro, ostico, scomodo, ma anche liricissimo e tagliente, se quest’ultimo aggettivo non si prestasse a equivoci doppi sensi. Sicuramente è la storia più dolorosa e complessa che Derek Raymond è riuscito a trasporre nella sua narrativa. Non senza problemi, come ha ammesso lui stesso in un’intervista: “C’erano momenti in cui non riuscivo più a distinguere il male dentro di me da quello che creavo sulla pagina. La frontiera tra me stesso e quello che avevo evocato diventava sempre più indistinta”. Anche il confine fra giustizia e vendetta, più che negli altri romanzi di Derek Raymond, qui si fa più sottile, quasi impercettibile. Di motivi ce ne sono parecchi: Dora Suarez era bella, povera e tormentata e per la prima volta nella sua vita aveva trovato un po’ di affetto e di calore da Betty Cartstairs, un’anziana signora che l’aveva accolta come una figlia. Entrambe cadono sotto i colpi folli di un omicida che è un groviglio inaudito di ossessioni. Il serial killer di Seven, giusto per fare un paragone che conosciamo tutti molto bene, è soltanto un disadattato, al confronto. In più, lei si è portata via, fino alla fine, un ultimo scampolo di bellezza: “Quando morì, Dora era molto elegante. Si era appena lavata i capelli, e il vestito e le scarpe nere con il tacco che trovammo vicino ai suoi piedi erano nuovi di zecca. Si era preparata per un’occasione speciale. Stava per fare la sua uscita di scena e, come ha scritto Dylan Thomas, era vestita per morire”. Quel dettaglio riveste di una luce crepuscolare tutto il romanzo: il sergente della A14, personaggio ricorrente nei romanzi di Derek Raymond che è chiamato a risolvere è soltanto l’inizio di Il mio nome era Dora Suarez, non si è mai abituato a “vedere tutto quello che nessuno vede mai: la violenza, la sofferenza e la disperazione, l’incommensurabile lontananza della mente di un essere umano che, tra i suoi sogni e la sua morte, non conosce altro che il dolore”. Il duplice omicidio è soltanto l’inizio: da lì si dipana un mondo la cui miseria porta il sergente della A14 a chiedersi più volte perché, anche se sa che quella è l’ultima domanda che si fa prima di morire. A tutti gli effetti, si innamora di un’idea, ovvero della bellezza di Dora Suarez, e gli si aggrappa cercando un motivo per andare fino in fondo, sapendo che la soluzione del caso, trovare il colpevole e assicurarsi che sconti una pena adeguata, non basterà. Capiterà anche al lettore perché Derek Raymond non risparmia alcuna brutalità, pur lavorando sulla scrittura e sul linguaggio con una profondità che l’ha coinvolto in prima persona: “Per tutto il tempo che l’ho scritto, non sono stato capace di addormentarmi senza una luce accesa! È il romanzo nero come lo intendo io. È un po’ come se qualcuno facesse una passeggiata in un giardino pubblico una sera al crepuscolo e si imbattesse all’improvviso in qualcosa d’orribile che lo sgomenta fino al terrore. Allora, davanti allo schermo del computer, ala macchina, non resta che una sola cosa da fare: scrivere. Certo, non ci si può immergere a tal punto in una simile esperienza e uscirne incolume, come si era prima. Non esistono mezze misure”. Serva anche da avvertenza per il lettore: Il mio nome era Dora Suarez è un’esperienza che non lascia indifferenti.

venerdì 18 gennaio 2019

Iain Banks

Antesignano di molti racconti che sono poi seguiti, più acidi e meno intelligenti, La fabbrica delle vespe è un romanzo spiazzante, tagliente, sviluppatosi da un immaginario marginale, spietato e duro, che del rock’n’roll condivide il ritmo, l’elettricità, una certa visionarietà. La storia è tutta nel personaggio: Frank Cauldhame a diciassette anni praticamente non esiste. Il padre, uno pseudo hippie, non l’ha mai registrato all’anagrafe e la madre è ben presto scomparsa dopo la sua nascita. E siamo solo all’inizio. Il fratello Eric invece c’è, ma con una famiglia (per modo di dire) così entra ed esce dal manicomio, dando fuoco a tutto quello che trova sul suo cammino. L’infanzia di Frank, ormai giunto nei momenti cruciali dell’adolescenza, è stata una specie di incubo dentro la cornice delle coste scozzesi, dove vive con il padre in una casa che è palafitta o isola, a seconda dei punti di vista, e delle maree. Il clima (atmosferico e generale) non aiuta e lui, Frank, si presenta così: “Mi è capitato spesso di sentirmi come uno stato; una nazione, o forse una città. E i diversi sentimenti che certe volte ho provato nei confronti di idee, comportamenti e via dicendo erano almeno così mi pareva, come le varie tendenze politiche che si alternano in un paese. Ho sempre creduto che la gente votasse per un nuovo governo non perché ne condividesse effettivamente la politica ma solo per la voglia di cambiare. Il passaggio al nuovo comporta in qualche modo un miglioramento, ecco quello che pensano. Ebbene, la gente è stupida, e tutto questo sembrerebbe avere a che vedere più con il capriccio, l’atmosfera e gli stati d’animo del momento che non con argomentazioni seriamente meditate. È così che mi girano le cose per la testa. Certe volte mi vengono in mente pensieri e sentimenti che si contraddicono l’un l’altro. È per questo che ho raggiunto la conclusione che nel mio cervello devono esserci un sacco di persone diverse”. Per resistere alla pazzia che lo pervade, non meno di quella che lo circonda, Frank si è inventato una complessa serie di rituali, un conflitto perenne con la stragrande maggioranza delle creature viventi (esseri umani compresi) e  dozzine di certezze maniacali, come l’ossessiva osservazione dei fenomeni naturali o meteorologici. Nonché, ovviamente, La fabbrica delle vespe: quando ne illustra il funzionamento, ricorda che “la nostra vita è tutta fatta di simboli. Ogni cosa che facciamo è parte di un disegno dove abbiamo comunque voce in capitolo. I forti stabiliscono i propri percorsi e influenzano quelli degli altri, i deboli ce li hanno già segnati. I deboli e gli sfortunati. E gli stupidi”. Con il passare del tempo, la sua follia diventa sempre più feroce, pur celata dietro una patina d’innocenza (ingenua non lo è mai stata) e La fabbrica delle vespe si contorce in una spirale psichedelica dove ruoli, posizioni, storie e vite si ribaltano lasciando il lettore pieno di dubbi, di ombre, di angoli nascosti. Va da sé che la fine non si può anticipare, ma, arrivati in fondo, bisogna aspettare un attimo e prendere fiato, perché Iain Banks, con una scrittura martellante, lineare, quasi schematica, non concede tregue e vi trascina in un posto dove qualsiasi luogo comune salta per aria. E non solo quello.

giovedì 17 gennaio 2019

Nick Hornby

Il personaggio di Alta fedeltà si aggrappava al rock’n’roll per non crescere, per mantenere all’infinito lo stato di ingenuità e di follia dell’adolescenza. Nick Hornby scopre 31 canzoni (ma in realtà sono molte di più) che lo aiutano a capire e a capirsi, gli permettono di tirare avanti, di coltivare una speranza. La musica, e non soltanto il rock’n’roll, serve a quello, “perché in noi c’è qualcosa che va oltre i limiti delle parole, qualcosa che si sottrae ai nostri tentativi di tirar fuori il pensiero”. Vengono in mente le parole di Do You Believe In Magic? dei Lovin’ Spoonful, quando Nick Hornby racconta (la scusa è Puff The Magic Dragon di Gregory Isaacs) quanto lega il figlio Danny (che è autistico) a certi suoni, a certe canzoni, che diventano l’unico collegamento tra lui e il mondo, padre compreso. La musica è qualcosa di più grande e importante di quello che anche noi riusciamo, a fatica, a cogliere perché le canzoni e certe vibrazioni sono snodi importanti nella nostra vita quotidiana. Con la leggerezza e l’ironia che lo distingue, Nick Hornby prova a spiegare perché, usando un campionario variegato e nello stesso tempo connotato da una certa qualità. È un percorso che, come non potrebbe essere diversamente, parte da Bruce Springsteen per spiegare le contraddizioni dei passaggi verso l’età cosiddetta adulta e la relativa, presunta maturità, ed è logica, immediata la scelta della canzone: “Forse Thunder Road mi ha aiutato perché, malgrado il suo vigore, il volume, le macchine sportive e i capelli, ha pur sempre un tono elegiaco. Più invecchio, più lo sento. In fondo, credo di essere anch’io dell’idea che se la vita è una cosa triste e molto seria, c’è sempre un po’ di speranza; sarò pure un depresso in preda al dramma esistenziale, o magari un idiota contento, ma in ogni modo Thunder Road dice esattamente come mi sento e chi sono, e questa in fin dei conti è una delle consolazioni dell’arte”. Lo schema si ripete poi su tutte le altre canzoni: raccontando i suoi legami con Hey Self Defeater di Mark Mulcahy, Nick Hornby spiega l’importanza e la necessità dei piccoli negozi, oggi minacciati dalle politiche commerciali delle grandi catene e dalla miopia dell’industria discografica in genere; ricordando la scoperta di Late For The Sky (Jackson Browne, ovviamente) ritorna sul tema dei rapporti tra uomo e donna e sullo sviluppo di queste tematiche nel pop e nel rock’n’roll; ripescando nella memoria uno show (acustico) di Patti Smith si lascia semplicemente andare alle emozioni. 31 canzoni è importante perché, come scrive Nick Hornby in occasione di Heartbreaker degli Zepp, “imparare ad apprezzare canzoni non ha a che fare con la crescita, ma con l’acquisizione di un sicuro gusto musicale e la capacità di giudicare da sé. A volte ho la sensazione che anno dopo anno mi sia stato sfregato via uno strato di chitarra ruvida, e prima o poi, spero, sarò in grado di distinguere un buon pezzo di George Jones da un brutto. Le canzoni così a nudo, senza uno straccio di Stratocaster addosso, fanno paura: le devi capire da solo”. In questo senso, 31 canzoni fornisce un canovaccio sui cui poi ognuno può costruirsi i suoi percorsi: le affinità con Nick Hornby non mancano perché uno scrittore che dedica un intero paragrafo a Born For Me di Paul Westerberg o soltanto metà a Frankie Teardrop dei Suicide, merita, oltre alla lettura, anche una medaglia. Nel mazzo vanno aggiunte anche le disquisizioni su Van Morrison (con Caravan, alla voce: la canzone che vorrei sentire al mio funerale), su The Calvary Cross di Richard & Linda Thompson, così come non potevano mancare Dylan e i Beatles o anche brani più trendy come quelli di Nelly Furtado e Soulwax. Al di là dei gusti, il merito che va riconosciuto a Nick Hornby  è quello di aver aiutato le canzoni a uscire dai dischi e a trovarsi un posto nella sua storia, che è quello che dovremmo provare a fare più o meno tutti i giorni anche noi. 31 canzoni prova a raccontare questa piccola magia, senza altre velleità, perché ci sono passioni ed emozioni che non si spiegano. Come lascia intuire Nick Hornby, si possono soltanto vivere.

martedì 15 gennaio 2019

Simon Reynolds

Per approfondire la tesi centrale, ribadita più volte da Simon Reynolds nel corso di Post-Punk 1978-1984, ci vorrebbero quattro o cinque pagine intere, e forse non basterebbero. L’idea, per niente banale e che qua e là era già affiorata, è che il punk non sia stata una vera e propria rivoluzione, nonostante il “no future” dei Sex Pistols e il “no Elvis o Rolling Stones nel 1977” dei Clash, ma piuttosto la prosecuzione in altre forme e colori del primordiale rock’n’roll. Una sorta di ritorno a casa, piuttosto che un’apocalisse. In gran parte è vero, soprattutto se si guarda dove e come sono cresciuti i germogli: i Ramones si ispiravano in tutto e per tutto agli anni Cinquanta e a Nuggets e le New York Dolls ripescavano Bo Diddley (soprattutto) e Chuck Berry e anche le radici degli stessi Clash, come sarà evidente da London Calling in poi, affondavano nella musica afroamericana e caraibica. È tutto quello che è venuto dopo, dai Joy Division ai Devo, dai Pere Ubu ai Gang of Four che sembra, almeno nella prospettiva di Simon Reynolds, radicalmente innovativo, come afferma lui stesso: “L’aspetto del post-punk che più merita di essere ripescato sembra essere la sua tensione al cambiamento. Un’impostazione espressa tanto nella convinzione che la musica dovesse guardare sempre avanti, quanto nella fiducia che la musica potesse trasformare il mondo, fosse anche alternando le percezioni di un singolo individuo o allargandone il senso delle possibilità”. La musica, nell’arco di tempo ben preciso che va dal 1978 al 1984 (a cui però bisogna aggiungere una breve postilla dedicata a Mtv che, spogliando di tutte le velleità artistiche le intuizioni visuali del post-punk, le trasformò in quello che sappiamo: un grande vuoto), sembra un elemento centrale, ma è solo il più immediato, istintivo e rapido. Intorno ad essa si era sviluppata tutta una tensione artistica e sociale che comprendeva grafica, architettura, cinematografia, lo stesso giornalismo specializzato e persino il marketing che trovò nell’autoproduzione e nelle prime etichette indipendenti il terreno fertile per esperimenti e deviazioni dai percorsi ufficiali. La ricognizione di Simon Reynolds è ricca, dettagliata, infarcita di episodi concreti, aneddoti e moltissime testimonianze dirette che, in un giro delle periferie urbane di mezzo mondo, l’humus ideale per qualsiasi artista, ricostruisce un periodo tormentato, fertile, ma anche vagamente inconcludente perché come spiega con una certa innocenza ma anche con grande sincerità Jean Michel Basquiat, i protagonisti di Post-Punk 1978-1984 sono “incompleti, abrasivi, di una bellezza stravagante”. Lo stesso Simon Reynolds, giunto in fondo alle settecento pagine del libro (che si legge come un romanzo) si chiede con grande onestà e altrettanta lucidità: “L’idea del cambiamento nella musica, con la musica, era solo un passatempo? Non lo so, ma sarò eternamente grato a questo periodo per avermi consentito di pretendere così tanto dalla musica”. Forse è proprio questa la chiave di lettura di Post-Punk 1978-1984: potranno non piacervi i Public Image Limited o gli Echo & The Bunnymen, si può sorridere nel riscoprire spiccioli di stagione come gli ABC o gli Heaven 17 o nel ritrovare gli embrioni degli U2 o i curiosi esperimenti di Don Was, destinato a diventare uno dei produttori più inseriti e richiesti dell’intero music business, ma la passione che sgorga da queste pagine è qualcosa che non ci è sconosciuto. Per dirlo con un altro testimone dell’epoca, Daniel Miller: “Quello che ci univa era il fatto che nessuno di noi sapeva cosa stesse facendo! Amavamo la musica alla follia, però, e avevamo le idee chiare su cosa ci piaceva e cosa volevamo”. Alla fine, Post-Punk 1978-1984 non parla soltanto di un frammento temporale o di uno stile particolare, ma dell’illusione che la musica, rock’n’roll, punk o quello che, possa contare davvero qualcosa, anche se non sempre e necessariamente deve essere spacciata per una rivoluzione.

mercoledì 9 gennaio 2019

Patrik Ourednik

Al giro di boa della prima metà del diciannovesimo secolo, con la repressione dei moti del 1848 ancora nell’aria, le vocazioni libertarie erano costrette all’angolo dalla crescente omologazione delle istituzioni e della loro forza che il protagonista di Istante propizio, 1855 riassume così: “Gli idoli hanno decine, centinaia di nomi; il più sincero di tutti è Che dirà la gente? Hanno decine, centinaia di nomi, ma un solo desiderio: abbattervi, distruggervi, eliminarvi, annientarvi, trasformarvi in un nulla”. È uno dei numerosi passaggi della lettera con cui Bruno, che sarà l’ideologo della colonia indipendente di Fraternitas, racconta all’amata Elisabetta cosa è successo. La corrispondenza è del 1902 e Patrik Ourednik la utilizza un po’ come pretesto introduttivo e in gran parte per svelare il background intellettuale di una socialità fondata su basi egalitarie, partendo dalla convinzione (tra le tante) che “la scienza e la filosofia non possono condurre alla libertà. La libertà è frutto della passione, non della ragione; la passione è un dono della natura, non della civiltà. La libertà nasce dalla nostra innocenza, che la scienza ci ha tolto”. Con queste premesse nasce l’idea di fondare un’enclave lontana dalle burocrazie e dalle liturgie europee e volontari e volontarie si radunano per partire verso il Brasile dove è stata acquistata un’area destinata a diventare Fraternitas. Il lungo viaggio è già sintomatico dei limiti e dei difetti impliciti al progetto: dubbi, contrasti, litigi e conflitti fermentano già durante la navigazione, infiammati dalle aspre condizioni della traversata, dalle differenze linguistiche, dalle diverse aspirazioni e dalle distanze politiche, per poi esplodere una volta arrivati. “Le fondamenta di una civiltà” sono difficili da solidificare e ben presto la dialettica di Fraternitas  è travolta dalle diatribe che nascono ogni sacrosanto giorno per i più disparati motivi: dal confronto con gli “indiani” e i “negri” agli effetti delle “copulazioni non pianificate”, dalla pigrizia all’alcol, dai furti allo scontro con le autorità, la terra promessa si sgretola da sola, quasi per inerzia. Tra i tanti paradossi del fallimento, non va dimenticato che l’accordo per prendere possesso della colonia brasiliana era stato concluso con un sovrano per poi essere rinegoziato con le neonate istituzioni repubblicane. Ispirato alla figura dell’agronomo (e anarchico) italiano Giovanni Rossi, che fondò la comune La Cecilia, con Istante propizio, 1855 Patrik Ourednik racconta in prima persona le prospettive di una “rivoluzione” attraverso le singole vicende umane, i turbamenti e le idiosincrasie, dal punto di vista del suo protagonista, che non manca di ricordare come “talvolta nel cuore della notte”, soccomba “a un sogno folle: che un giorno gli uomini non abbiano più bisogno di parole e pervengano a uno scambio retto dalla sola virtù dello sguardo, nell’amore e nella grazia infiniti, con la reciproca comprensione che si addice agli esseri liberi”. La forma del diario lascia libero Patrik Ourednik di interpretarne i pensieri, di collocare  in filigrana la storia (incompiuta) di Bruno ed Elisabetta, di suggerire che (senza dubbio) “un uomo libero è un uomo pericoloso”, ma soprattutto di mettere in risalto la congenita fragilità di Fraternitas. Come argomentava Fredric Jameson in Il desiderio chiamato utopia, non possono reggere “aspettative troppo ottimistiche come se offrissero visioni di mondi felici, spazi di collaborazione e appagamento, immagini queste che corrispondono al genere dell’idillio e della pastorale”. La distinzione è fin troppo precisa e Istante propizio, 1855 non fa altro che svolgerla in una misurata ed elegante tela narrativa, lasciando intendere che, a saldo delle buone intenzioni e delle validissime idee, in fondo “la libertà deve dare conto di ciò che la rende possibile”. È utile ricordarlo, anche a distanza di un paio di secoli.