lunedì 31 luglio 2023

Clarissa Goenawan

Come la distanza di un riflesso è inesplicabile, così le scelte per amore sfilano come solchi sull’acqua, nitidi e invisibili nello stesso tempo. Il paradosso di Watersong, costruito con certosina pazienza e con una particolare grazia da Clarissa Goenawan, comincia proprio nel momento in cui Shoji Arai segue la fidanzata Yoko Sasaki, da Tokyo ad Akakawa. Sono quattro ore di strada, una in aereo, ma c’è tutto uno spazio nel mezzo, anche perché  scopre che il lavoro di Yoko è ascoltare, ed è ben pagato. Presto Shoji, per quanto riluttante, viene coinvolto: l’ambiente è criptico, e all’inizio non trova nessuno, finché non arriva una cliente importante, anche troppo. Mizuki è infatti la moglie di un potente politico, nonché proprietario dell’azienda e riconosce al suo interlocutore l’intimo privilegio di essere ascoltata. Secondo lei “il talento è solo fatica e fiducia in se stessi” e Shoji Arai, un passione nascosta per la scrittura, un passato da nuotatore, deve soltanto ascoltare, e ascoltare è un’arte. L’unica regola è che non deve intervenire, ma le regole sono fatte per essere trasgredite, soprattutto se nascondono soprusi e violenze, dato che Mizuki gli confessa: “A volte non so se quello che sto facendo è aspettare o dimenticare. È passato così tanto tempo. Sta diventando difficile distinguere le due cose”. Vedere è un’altra cosa rispetto ad ascoltare e Shoji Arai, ormai diventato un testimone, e di conseguenza Yoko, vanno contro un potere oscuro e malefico, che concentra influenze politiche, famigliari e criminali in un conglomerato invisibile, ma onnipotente, che li costringe alla fuga. Il prezzo da pagare è nascosto in un libro di poesie di William Carlos Williams avuto in regalo, ed è lecito immaginare, tra le parole lette da Shoji, quelle di Aprile (Dalla primavera trasportata al morale): “Le forme delle emozioni sono cristalline, con sfaccettature geometriche. Così ce ne rendiamo conto solo nel calor bianco della comprensione, quando una fiamma s’insinua rapida nel varco creato dall’apprendere”. L’alone di mistero che li circonda non è dovuto soltanto alla condizione di Mizuki, ma anche (e soprattutto) alla fragilità dei legami che restano fluidi come l’acqua, per quanto mai altrettanto trasparenti. Pare evidente, nel contesto di Watersong, che l’identità non ha corrispondenze nella solitudine e si forma soltanto come un’unità compiuta all’interno di una coppia, per quanto fragile, contraddittoria e limitata l’unione possa essere. Si capisce perché, nelle raffinate geometrie di Watersong, i personaggi maschili, salvo Shoji (ovviamente), tendano a sparire in fretta e spesso non di propria volontà: il misterioso signor Sato, un’enigmatica figura in guanti bianchi, Toru Odagiri (un reporter affrettato e maldestro), lo zio Hidetoshi, il professor Takeshi Goda e lo stesso Kazuhiro Katuo compaiono come figure ambigue e defilate. Le figure femminili invece si susseguono determinando tutte le svolte di Watersong, da Yoko a Mizuki, da Lyiun a Eri, una vecchia conoscenza che consiglia a Shoji: “Se sai di aver fatto un passo falso, prova a fare qualcosa di diverso. Risolvi il problema. Non crogiolarti nel rimpianto”. Sulla carta sembrerebbe un saggio suggerimento, nella realtà lo porterà ancora a camminare nei solchi dei ricordi e a cercare Yoko, di cui dovrebbe ricordare l’ammonimento: “Be’, tutti hanno un segreto che non vogliono che nessuno scopra mai”. È troppo tardi e Shoji Arai, inseguendo un ideale di amore, ha perseverato nell’errore nel tentativo di ricostruire il passato, o di rileggerlo e Clarissa Goenawan rimanda la conclusione all’epilogo, così come aveva cominciato tutto con la profezia acquatica del prologo. I cerchi sulla superficie si espandono e si annullano e Watersong lascia la sensazione di essere prigionieri di una corrente, inafferrabile, intricata e affascinante.

lunedì 3 luglio 2023

George Steiner

Le qualità di un uomo che rettifica ogni testo, anche quello di un foglio di giornale che rotola nel vento, sono messe a dura prova dalla dissoluzione delle ideologie del ventesimo secolo. Il Gufo alias Il correttore è consapevole che “ogni erratum è una menzogna definitiva” e si applica con totale partecipazione a verificare “i protocolli giudiziari, gli atti di compravendita, gli avvisi delle finanze pubbliche, i contratti, le quotazioni in borsa” e, ancora, “la giustificazione delle colonne di cifre più lunghe, gli sterminati elenchi di oggetti smarriti messi all’asta dalla posta o dall’azienda dei trasporti pubblici”. La deformazione professionale lo porta a cercare con ossessione la precisione e la correttezza mentre i sistemi collassano all’improvviso: l’esistenza frugale del Gufo si scontra con gli interrogativi delle grandi utopie e allora lavora “per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo”. Lo scopo è “l’esattezza. La santità dell’esattezza. Il rispetto di se stesso”, ma è difficile crederci mentre tutto intorno il tempo si sgretola trascinando nel crollo le illusioni, le certezze, i destini scritti nei libri di storia. Non c’è alcuna possibilità di controllo o di riforma per il Gufo, davanti alle folle che sventrano muri o al cospetto di torture indicibili. Troppi errori che non si possono rimuovere, troppe deviazioni incontrollabili, variabili di un futuro improprio, non previsto, non malleabile. Nel frammentario dialogo con i compagni, (padre) Carlo, Maura e Lombardi, alla ricerca di motivi spazzati dal caos, dalla violenza, dalle atrocità commesse in nome di un partito, di un dittatore, di un diktat, il Gufo cerca di tenere una posizione, di rispettare il confronto, di accumulare argomenti ma, nel buio, sembra non restare niente delle costruzioni umane, come se fossero soltanto teorie ormai bruciate, distrutte. La fragilità è intrinseca, l’inesattezza è dietro l’angolo e resta solo una notte con Maura, i corpi avvinghiati nell’ombra. George Steiner tesse una sottile trama, a tratti sfuggente e impercettibile, ma lascia scivolare alcune domande con un peso specifico enorme. Riesce a ridisegnare l’apparato emotivo di fronte alle grandi questioni della civiltà, dove la logica non trova risposte sufficienti, anzi, va in crisi e crolla. Il correttore è un romanzo che comprime le svolte storiche, proprio mentre diventano fenomeni dialettici. Quando il Gufo si vede compromesso in una realtà o la sua percezione che gli sfugge di mano, la razionalità delle parole appare quasi inutile, figurarsi se cambiare il nome a un partito o addirittura a una nazione può servire a qualcosa. Nei suoi tormenti quotidiani (e notturni), le aberrazioni sono vietate eppure il mondo sembra non poterne fare a meno, lasciandolo con la “convinzione fuggevole e folle che l’universo abbandonato, come una casa lasciata aperta dopo la partenza dei camion dell’impresa di traslochi, sarebbe sprofondato nell’oblio se lui non fosse riuscito a realizzare il suo scopo del momento”. Il correttore vive la solitudine della politica, che non ammette revisioni, e non lascia speranze, soltanto piccole, trascurabili note a piè di pagina.