mercoledì 31 ottobre 2018

Graham Swift

Racchiuso in una trama lineare, esile, schematica, La luce del giorno ci ricorda che ogni volta “Succede qualcosa. Si apre una porta, si varca una soglia della quale si ignorava l’esistenza. Avrebbe anche potuto non succedere, avremmo anche potuto non sapere. La maggior parte della vita, forse, è solo la durata di una pena che si sconta”. La raffinatezza di Graham Swift sta nell’inseguire con assiduità il profilo dei suoi personaggi, pedinandoli passo dopo passo, centellinando le parole, e tenendo presente che “siamo cacciatori, ecco quello che siamo, sempre all’inseguimento, alla ricerca della cosa che manca, la parte mancante della nostra vita”. La luce del giorno si svolge tutto attorno a un limitato cast di protagonisti che s’incrociano secondo un ordine sfuggente e del tutto imponderabile perché nella grammatica di Graham Swift “la verità è che c’incontriamo, ci separiamo, andiamo per la nostra strada. Non esistono leggi, non esistono regole. Non siamo qui per seguirci a vicenda, per proteggerci scambievolmente la vita”. Tutto comincia quando George Webb, investigatore privato con un passato ombroso riceve l’incarico da Sarah Nash di seguire il marito, Bob Nash, e l’amante di lui, Kristina Lazic, all’aeroporto di Heathrow, Londra. Lo schema è un cliché, senza dubbio, ma l’interrogativo che si insinua già nelle fasi iniziali sposta La luce del giorno su un altro piano, dove c’è meno intrigo e più tormento: “Come succede? Come si compie la nostra scelta? Qualcuno entra nella nostra vita, e non possiamo più vivere senza di lui o senza di lei. Eppure, senza di lui o senza di lei eravamo vissuti fino a quel momento”. L’imprevisto è l’ombra che delimita La luce del giorno e rimane nascosto in agguato mentre George Webb si assicura che la giovane concubina prenda il volo per Ginevra, prima tappa di un ritorno a casa, verso la Croazia. Il lavoro viene svolto con attenzione e discrezione, ma al ritorno nell’elegante quartiere di Wimbledon e dintorni, Sarah ammazza il marito. , Probabilmente, una vendetta consumata tra le mura domestiche, con il forno caldo e la bottiglia di vino pregiato già stappata. Un omicidio, come tanti, forse. Difficile da decifrare, essendo l’estremo frutto di qualcosa che “potrebbe non capitare mai, potremmo non venire mai a saperlo. Una molla carica dentro di noi in attesa di scattare”. Ancora una volta, La luce del giorno è un equilibrio di rifrazioni: pur centrale nella narrazione, come non potrebbe essere altrimenti, l’elemento delittuoso resta relativo, è soltanto l’effetto, il risultato finale di un continuo proliferare di dubbi. Graham Swift sa che “ci sono dei momenti, ci saranno sempre, in cui non vorresti essere te stesso, non vorresti esserlo mai stato. O in cui riesci quasi a credere che in realtà sia stata un’altra persona, non tu, come avresti potuto essere tu?, a fare ciò che si dice tu abbia fatto”, e riporta l’attenzione al viaggio, persino banale, verso l’aeroporto e quindi all’enigmatico George Webb. La luce del giorno si accende attorno al passato, al presente e a un po’ del suo futuro. È l’epicentro di una serie di personaggi che si muovono in coppia e, quando sono soli, si mostrano in tutta la loro doppiezza, sapendo di non avere alternative (“Scelta? Ce l’hai nel sangue. È quello che faccio, che sono. È quello che facciamo tutti, credo, ognuno a modo suo. Qualcosa nel sangue, nel naso”). Una reazione a catena li unisce: Bob e Sarah Nash, Bob e Kristina, George e la figlia Helen, Helen e Clare, e poi Rachel e Rita che sembra guardarli tutti entrare ed uscire dalla porta dell’ufficio dell'investigatore privato perché è proprio così “c’è sempre quel momento, il momento in cui una porta si apre. E si entra nella vita di un’altra persona”, e tutto cambia, anche La luce del giorno.

mercoledì 24 ottobre 2018

Josip Osti

Una città assediata che pagava a caro prezzo la sua straordinaria identità: come ricorda Tony Judt in Postwar, nella tragedia delle guerre balcaniche, la distruzione di Sarajevo è stato “un particolare motivo di dolore. Anche nelle sue ridotte dimensioni, la capitale bosniaca era realmente cosmopolita: forse l’ultimo dei centri urbani multietnici, multilingue ed ecumenici che un tempo erano stati il vanto dell’Europa centrale e del Mediterraneo orientale”. È l’epicentro di un tessuto lacerato mentre tutto intorno il mondo non riesce a credere ai propri occhi, o meglio, a quello che vede in televisione. Le cronache quotidiane sono uno stillicidio di sangue e l’impotenza di fronte a un massacro metodico diventa la più grande prevaricazione. Josip Osti parte proprio da una routine lancinante: “Appena apro gli occhi, ascolto le prime notizie, li chiudo, quando ascolto le ultime” anche se Le notizie da e per Sarajevo sono sempre peggiori ma a Ljubljana spunta una giornata serena e luminosa. I titoli sono già composizioni e riportano alle headline giornaliere: Il 27 maggio una granata è esplosa in mezzo alla folla che aspettava al centro di Sarajevo di ottenere del pane; per questo motivo una ventina di persone sono morte e il triplo sono rimaste ferite seriamente o più leggermente. Josip Osti è un testimone scomodo, la poesia è un’istantanea in grado di trasmettere l’idea che “Sarajevo è un disegno in bianco e nero” e già nella minimale distinzione cromatica netta “assomiglia a Guernica”. Non è l’unica associazione con la pittura, anzi: quando Josip Osti richiama Chagall e Magritte, ribadisce il tentativo di collocare il terrore, la paura in un contesto surreale dove “l’arte di sopravvivere è essere più veloci della pallottola o non corrergli incontro”. Mentre la cenere di pagine bruciate cade su Sarajevo al posto della neve, restano soltanto i ricordi a cui ancorarsi e mentre Josip Osti in Bandiera bianca  ammette di aver “vissuto in un giardino di parole sotto un tetto di libri”, il tempo fugge come una marea e “di notte, i bambini sono invecchiati, gli anziani sono ritornati bambini, i bambini si sono seduti immobili e pensierosi, come i saggi, i vecchi invece che si ricordano dei giochi non terminati di una volta, non cessano di fare domande alle quali i bambini non sanno dare risposte esaurienti”. Quel passato è disintegrato dalle granate e ferito dai colpi degli sniper, un Vicolo cieco in cui “alcuni muoiono, altri rinnovano i ricordi”. L’ostinato tentativo di dare una chance alla normalità, anche se “Sarajevo è di giorno in giorno sempre più in fiamme” e “per le strade della città, durante il coprifuoco, passeggiavano anche le belve e i matti”, come scrive Josip Osti in Il tempo è meraviglioso ma gli abitanti di Sarajevo non si meravigliano più di niente, è destinato a rimanere solo un’estrema, dignitosa speranza. Josip Osti usa un’immagine crepuscolare per esprimere quella sensazione, accennando prima a Quanto più grande è la fiamma della candela tanto più piccola è la sua scura ombra delineata sul muro, per poi articolarla in modo più compiuto: “Bisogna credere a quelli che dicono che niente brucia sino all’indomani, bisogna credere (anche perché non rimane altro) che la logica della vita sottometterà la logica della guerra, che la gente tornerà alle piccole faccende quotidiane, ma a Sarajevo chi sopravviverà camminerà per le strade invisibile tra gli invisibili”. Finché in una Lettera a Kavafis, quasi confessandosi al grande poeta, si lascia andare: “Nella città assediata la gente, come nelle tue poesie, non sapeva cosa sarebbe stato di sé, senza i barbari, ma alla fine sapeva che non ci sarebbe stata alcuna salvezza”. L’unica opzione è nella Fuga dalla propria pelle, dal corpo fragile e vulnerabile, in cerca di rifugio nella poesia che “è tutto ciò che non è prosa della buia quotidianità, paradiso di questo e dell’altro mondo, tutto ciò che non è l’inferno di Sarajevo”. L’ultimo strillo è già un epitaffio: Non si sa chi sarà il vincitore, ma si sa già chi è lo sconfitto, e l’elenco dettagliato comprende “chi sta da quale parte, sotto quale bandiera, chi sta in città, chi sulle montagne intorno, chi è armato, chi è a mani nude, chi attacca, chi si difende, chi distrugge, chi pulisce le rovine, chi uccide, chi è ucciso, chi è il vincitore, chi lo sconfitto, nella lotta dei condannati a morte”. Quando su Sarajevo cala il silenzio, a Josip Osti resta la malinconica certezza che “hanno cambiato il mondo, ma non l’hanno compreso” e sembra proprio di sentire La voce dall’altra parte del muro che non esiste più avvertire di “non chiedere se questa guerra è realtà o un ricordo del passato”: la fine di una città, e di tutto un secolo.

mercoledì 17 ottobre 2018

Joe Thomas

Nei suoi dipinti, Priscila de Carvalho costruisce città che restano sospese in aria, con linee ferroviarie che si spezzano, elicotteri d’assalto che vagano in cerca di bersagli, grattacieli che arrancano disordinati nel cielo, scale contorte e tante piccole finestre illuminate. Uno dei suoi quadri, Off-Duty Militias, è al centro del rebus di Paradise City ed è una sorta di specchio magico con cui Joe Thomas ci lascia intravedere l’essenza di São Paulo. Fin troppo facile far notare le esplosive contraddizioni tra la verticalità dei grattacieli e le favela incastonate nel fango, il disperato (e ormai insostenibile) fabbisogno di case e la straripante ricchezza (e da lì, la corruzione) generata dal mercato immobiliare. È più interessante, nello svolgersi di Paradise City, rintracciare dentro le caotiche architetture di São Paulo quello che Lewis Mumford chiamava “un ambiguo rapporto con il futuro” e, ancora di più, quel “sistema anarchico e arcaico di segni e di simboli” alla fonte della comunicazione quotidiana, che poi è, in effetti, la sua trama. Massimo De Felice, sociologo che a São Paulo ha dedicato la sua analisi dei Paesaggi post-urbani cita un parola portoghese, “meio-ambiente”, per condensare il senso della megalopoli. La traduzione non è immediata, ma il significato è che “il territorio e la natura non solo non possono essere pensati semplicemente come realtà che ci sono intorno, ma devono essere considerati come elementi che ci costituiscono, come informazioni, sostanze e realtà materiali che risiedono, al tempo stesso, dentro e fuori di noi”. São Paulo è l’alfa e l’omega di Mario Leme, investigatore della polizia (civile) inseguito dal fantasma della moglie, Renata, che ha avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo all’ennesima sparatoria tra forze speciali (militari) e trafficanti. La guerra strisciante nel territorio urbano non risparmia nessuno e Leme è annodato al cappio del ricordo di Renata che lo trascina giù, verso la favela di Paraisópolis alias Paradise City, dove lei (avvocato e attivista) aveva un piccolo baluardo di resistenza umana. In preda alla malinconia, Leme torna spesso in quell’angolo e, proprio lì, assiste ad un altro omicidio. Non una grande novità a São Paulo (“Alcuni giorni sopravviviamo senza un graffio. Altri, no”), solo che ordini superiori gli impediscono di indagare, anzi gli impongono di archiviarlo come incidente. I “sussurri” di Renata lo spingono invece a inoltrarsi in un labirinto borgesiano fatto di case vuote, porte che si aprono e si chiudono, edifici che collassano, donne che scompaiono, diseredati che vagano come spettri e autorevoli membri della comunità coinvolti in ogni possibile speculazione (economica e politica), seguendo “appetiti e istinti: nessun bisogno di riflettere sulle possibili conseguenze”. Leme ha solo due alleati, Lisboa (un collega molto più pragmatico di lui) e Antonia (di cui si innamorerà) per smascherare l’ipocrisia con cui sono resi presentabili volti che nascondono avidità, cinismo e una spicciola propensione a risolvere gli attriti con il ricorso sistematico all’omicidio. Di segnali (e di indizi), Leme ne trova in continuazione, perché si muove in un habitat che pulsa senza sosta, finché la rivelazione non gli arriva osservando dall’alto, ospite (in pericolo) di un lussuoso palazzo:  “Da lassù, la realtà di São Paulo era esposta con chiarezza: una piaga di venti milioni di ratti che correvano e frugavano qua e là alla ricerca di cibo. Ground Zero. È quasi incredibile che i ricchi trovino il coraggio di scendere lì in mezzo di tanto in tanto”. Il finale, come i tratti visionari di Priscila de Carvalho, rimane in sospeso e si capisce che il lavoro di Leme è soltanto all’inizio. Piuttosto, merita una precisazione il titolo: Paradise City, che poi è la versione anglosassone di  Paraisópolis deriva dalla canzone dei Guns N’ Roses, ma, vista la materia torbida e incandescente di  São Paulo, forse era più appropriato Welcome To The Jungle.

giovedì 11 ottobre 2018

Blaise Cendrars

Vita caotica e disperata, vicinissimo ad Apollinaire, poeta e narratore, Frédéric Sauser alias Blaise Cendrars è uno di quegli scrittori folli e arroganti che sembrano saltare fuori all’improvviso da un romanzo di Henry Miller. Nella sua esistenza ha fatto un po’ di tutto e quello che non gli è riuscito nella realtà è stato capace di inventarselo, con una verve cruda e visionaria nello stesso tempo. Diversamente in La mano mozza non ha proprio dovuto immaginarsi nulla: il libro è uno dei resoconti più spietati e coraggiosi della prima guerra mondiale e, nello specifico, dei fronti dell’Artois e della Champagne. Un diario particolareggiato dove Cendrars non risparmia il minimo dettaglio, quasi a voler lasciare impresse sulla carta le esperienze che quotidianamente viveva in trincea. Senza alcuna traccia di retorica, con uno sguardo lucidissimo nel vedere gli effetti devastanti che “l’arte militare” produce sulla civiltà, o su quello che ne resta: “Contemplavo costernato quell’alba livida e il suo spoglio nel fango. Non c’era nulla di solido nel paesaggio sgocciolante, misero, sconvolto, sbrindellato, e io stesso ero lì come un accattone sulla soglia del mondo, inzuppato, invischiato e spalmato di merda da capo a piedi, cinicamente felice di trovarmi in quel luogo e di vedere tutto ciò coi miei occhi. M’affretto a dire che la guerra non è per niente bella e che, specie per quanto ne può vedere uno che v’è immischiato dentro come semplice esecutore, uomo sperduto nei ranghi, matricola tra milioni d’altre, è fin troppo stupida e non sembra obbedire a nessun piano d’insieme ma al caso”. Nemici che vivono ad un passo, ufficiali che si nascondono spaventati, paesi rasi al suolo, vino e sangue che si mescolano in un tempo che sembra non passare mai. Nell’intervallo tra un attacco e l’altro, tra un bombardamento dell’artiglieria e le scariche delle mitragliatrici, confusi da ordini tanto folli quanto perentori, gli uomini diventati soldati cercano in tutti i modi di ricucire brandelli di vita, mentre lottano con i pidocchi, resistono al freddo e alla fame, e attendono un destino ineluttabile, che hanno già visto nel monotono ripetersi di giornate tragiche. Cendrars è sempre meticoloso, attento e dolente nel riportare ogni distinto episodio e altrettanto crudo e lapidario nel raccontarlo: “Quando si sono vissute cose simili, chi ci crede più agli slogan degli strateghi. Si mangia la foglia. L’arte militare è briga da vecchie soldatacci incalliti nel mestiere. Uno sporco trantran. Marcia e crepa. E noi marciavamo. E noi crepavamo”. Lui, volontario come tanti, ne uscì vivo, ma La mano mozza del titolo è proprio la sua, visto che perse il braccio destro in seguito alle ferite riportate durante un assalto. Eppure, senza un minimo di autocommiserazione, ha raccontato la guerra come pochi altri hanno saputo fare, sfidando il cinismo di una cronaca diretta, gergale, allineando uno dopo l’altro (certo, “fu un bel massacro”) le storie dei compagni caduti sul campo “tutti morti, tutti caduti, crepati, spappolati, annientati, smembrati, dimenticati, polverizzati, ridotti a zero, e per niente, e che cantavano perché si cantava molto nella squadra”. Come se volesse dargli ancora un po’ di vita: per quanto popolata da fantasmi, paure, incubi, La mano mozza è un florilegio di umanità a cui soltanto la folle libertà di Blaise Cendrars poteva prestare una voce.

venerdì 5 ottobre 2018

Zoé Valdés

Cuba, oggi: “Eccomi in strada, pedalando come ogni mattina, con la testa tra le nuvole, in qualsiasi momento potrei finire sotto un camion. Vado verso l’ufficio: il lavoro. Che lavoro? Sono due anni che faccio tutti i giorni la stessa cosa: pedalare da casa mia all’ufficio, timbrare il cartellino, sedermi alla scrivania, leggere delle riviste straniere che continuano ad arrivare con due o tre mesi, se non anni, di ritardo e vivere tra le nuvole. Non possiamo stampare la nostra rivista di letteratura, di cui sono il caporedattore, per via dei problemi materiali che attanagliano il paese, il periodo speciale e tutto quello che stiamo passando, come ben sappiamo, senza contare quello che ci resta da sopportare. All’ora di pranzo ho quasi sempre finito di vivere nelle nuvole”. Non è difficile capire il perché, una volta avviati verso Il nulla quotidiano descritto da Zoé Valdés: in quel momento tutte le contraddizioni cubane, l’embargo e l’isolamento internazionale si scontrano sui piatti vuoti e anche tenere in vita una rivista letteraria diventa qualcosa di avulso dal vivere quotidiano, tutto concentrato sui diffusi tentativi di sopravvivere. Per Patria, la protagonista, sembra essere tutto più difficile fin dalla nascita (e chissà che il nome non nasconda qualche intento metaforico) attraverso una stagione di amori e passioni che la vede scontrarsi inevitabilmente con l’intricata e a tratti inesplicabile realtà cubana. Zoé Valdés ha il pregio di scrivere un romanzo coraggioso e pungente, che non si adegua né all’esotico pauperismo di altri narratori cubani, né al tentativo di abdicare alla propria identità. Con qualche punta di lirismo, riesce a ritrarre il mondo di Patria e di Cuba, cogliendone esattamente il tempo e la sua dimensione, vagamente prossima ad un cosmico buco nero: “La giornata lavorativa è finita, non perché sia giunta l’ora di andarcene, ma perché è di nuovo andata via la luce e non solo il computer e la fotocopiatrice, ma anche le macchine da scrivere sono elettriche, e la nuova ragazza che lavora alla banca dati ha ancora una volta perso tutto perché non ha fatto in tempo a salvare le informazioni, domani dovrà ricominciare da capo e forse quando starà per finire la luce se ne andrà di nuovo e lei dovrà ripartire da zero, e così via nei secoli, dei secoli, amen”. La voce è acerba, forte, orgogliosa persino nell’ostentare i propri limiti, quando Zoé Valdés alias Patria conclude così la battaglia con Il nulla quotidiano: “Sono il prodotto di pessime professoresse di spagnolo. Non mi faccio illusioni, ho dubbi nella costruzione delle frasi lunghe, mi perdo in un guazzabuglio di chiacchiere inutili, avrei dovuto leggere di più Lezama Lima e Proust. Mi sbaglio con la concordanza dei tempi, lo so, non c’è bisogno di dirmelo”. Del resto non serve la Recherche per raccontare “il dolore quotidiano, il terrore di saperci improvvisamente inutili, il rancore verso il nulla” e nello splendore e nel dolore di Cuba, a Patria non rimane non rimane che l’emozione dello stupore: “Piango perché oggi tutto mi succede inaspettatamente, a me cui non succede mai niente, che faccio sempre la stessa cosa: pedalare ed essere tra le nuvole”. Coinvolgente.

mercoledì 3 ottobre 2018

Laura Barnett

A sessantacinque anni, Cass Wheeler decide di affidarsi ancora alla musica e, nel giorno della presentazione del suo Greatest Hits, rivive ogni pagina di un diario emozionante e doloroso. Aveva cominciato ascoltando “Bob Dylan. I Beatles. I Kingsmen”, poi Rolling Stones, Fleetwood Mac e Beach Boys. La magia scaturita da quei dischi era che “la sua urgenza, il suo frenetico frastuono, sembrava essere l’unica cosa in grado di scuoterla e di farle sentire qualcosa”. Una passione intima, preziosa, perché la musica “era vera, reale e rispondeva solo alle proprie regole”, e l’ha aiutata a superare la fuga della madre e la depressione incalzante del padre. Sulle corde delle chitarre e attraverso le canzoni, Cass ha trovato anche la complicità e l’amore di Ivor Tait, a sua volta cantante e chitarrista che diventerà partner sul palco e nell’avventura discografica nonché suo marito. Cass Wheeler è ottenuta da un assemblaggio di Joan Baez (la fonte d’ispirazione principale), Carol King, Carly Simon, Judy Collins, Sandy Denny (“che teneva in pugno il pubblico in quel locale a lume di candela”) e (forse più di tutte) Joni Mitchell, ma a guardare bene ci starebbe anche un piccolo accostamento con Linda e Richard Thompson. Lo stile è originato dal folk si evolve dentro il pop, dalla bucolica campagna inglese alla Swinging London, e da lì via nella rivisitazione dell’aura dell’epoca con le droghe e le promiscuità, le trasformazioni e le mode, i viaggi e i tour in America, l’evoluzione dell’industria discografica e della tecnologia , con gli alti (e soprattutto) i bassi, senza “nessuna crepatura o spostamento improvviso, nessuno schianto né caduta, ma un processo di cedimento lento e graduale, il bello che si trasforma in brutto e la luce che finisce per scivolare nel buio”.  Il tono scelto da Laura Barnett è lineare, accomodante, senza particolari pretese stilistiche, semplice e con una leggerezza ideale per passare attraverso le forche caudine dello show biz e negli anfratti più dolorosi della vita. Usa con disinvoltura i luoghi comuni e i cliché di cui si nutrono i meccanismi del pop, facendoli diventare altrettanti passaggi nel raggiungere la formazione del Greatest Hits che diventa così una retrospettiva della vita e non soltanto della produzione musicale di Cass Wheeler. Mentre l’antologia prende forma nel soggiorno della sua casa, attorniata soltanto dall’inner circle più fedele e rispettoso, e con un bicchiere di vino in sospeso, Cass Wheeler si accorge di aver vissuto una simbiosi costante su un filo di rasoio: la musica offre tutto, ma prende tanto, e a lei rimane sempre un vuoto, una lacuna, una ferita. La sua personalità è fragile e tenace nello stesso tempo: ha saputo superare ostacoli brutali, ma non riesce a districarsi dalle ombre e, nel giorno del Greatest Hits, ammette che “un senso, in questa vita vertiginosa, esasperante, impossibile e meravigliosa, non si può davvero trovare; come, certo, neanche al suo apice, al suo crescendo, nella sua fatidica perdita”. Non di meno, proprio grazie alle canzoni, Laura Barnett riesce a generare una certa armonia tra la cantautrice e la sua vita privata: dove un equilibrio resta abbastanza improbabile, nei temi evocativi e/o introspettivi (interpretati nella realtà da Kathryn Williams in Songs From The Novel Greatest Hits) vanno cercate le corrispondenze di un’autobiografia travagliata, spesa tra l’idea di cogliere ogni opportunità verso il successo e d’altra parte all’inseguimento di una fugace felicità. Allo scadere del giorno del Greatest Hits, “tre minuti a mezzanotte”, ecco l’epifania (e il dilemma) nella notte inglese: c’è un prezzo da pagare, ma per capire se ne vale la pena (oppure no) bisogna arrivare fino in fondo.