martedì 12 dicembre 2023

J. G. Ballard

Siamo del 2030 (non manca molto) e l’America è stata evacuata un secolo prima in seguito alla crisi climatica ed energetica che l’ha travolta. Una missione partita dall’Europa su un veliero, l’Apollo, per verificare le condizioni del continente è attirata dal luccichio sulla East Coast. Quando sbarcano, l’oro visto sulla costa si rivela un miraggio di sabbia e ruggine, e, a una prima ricognizione, “non ci sono indigeni, né traccia di radioattività nel raggio di cento miglia” e il rischio “più grande è di sbattere contro un’auto parcheggiata”. La statua della libertà è affondata. New York è travolta da un’arida distesa di nulla. Anche se non hanno ancora trovato conferma, almeno nelle dimensioni apocalittiche di Hello America, le previsioni di Ballard restano come campanelli d’allarme che qualcosa non sia andato per il verso giusto, a partire dall’ipotesi della desertificazione. Per l’equipaggio dell’Apollo, come per i pellegrini del Mayflower a suo tempo non resta che il “movimento, ecco cos’era l’America, che esprimeva, la sua fiducia in se stessa”, e siamo soltanto all’inizio. È un viaggio verso l’interno, come redivivi pionieri lungo file interminabili di rottami (frutto del collasso di una società basata sulle auto e sul traffico) e incontrando frazioni di un popolo semianalfabeta che ha preso il nome di prodotti e di insegne. Tutto intorno sono rimasti cactus, yucca, artemisia e dune che si perdono oltre l’orizzonte. Da bere è rimasto soltanto l’alcol abbandonato nei centri commerciali e l’idea degli Stati Uniti in polvere e delle istituzioni svuotate va inquadrata nel periodo dell’apparizione di Hello America, nel 1981, all’apogeo della guerra fredda quando i progetti di vettori nucleari sempre più distruttivi partirono per la tangente come succede un po’ a tutti in questo romanzo. Tra missili Titan e Cruise, elicotteri senza pilota (che anticipavano gli attuali droni), alianti di cristallo e macchine a vapore in uno scenario in costante mutazione, Hello America è abbastanza caotico, con una sequenza finale degna di un film d’azione di terza categoria. Detto questo, Ballard allinea una lunghissima teoria di miti che vanno a comporre un quadro fluttuante e irriverente di “un’America impazzita”. L’equipaggio dell’Apollo si divide, si scontra (il capitano, Steiner, sparisce), subisce perdite, ma decide di arrivare a Washington e da lì in un susseguirsi di incontri, cominciano a pensare che “determinate cose andavano fatte, riti di passaggio in preparazione della loro effettiva partenza”. L’imperativo è guadagnare terreno, e tutti concordando, chiedendosi: “Sì, ma verso dove?”. La domanda è pleonastica, la direzione è ancora a ovest dove, al contrario, è tutto una giungla ed è soltanto una prima, palese contraddizione. Il trambusto cresce per gradi, riserva una sorpresa dopo l’altra e le varie compagnie di sbandati, altrettanti cliché sociali irrisi da Ballard, si presentano in forme picaresche. Arrivata a Las Vegas, la composita spedizione scopre che l’autoproclamato presidente degli Stati Uniti è Charles Manson e sta giocando con una roulette nucleare che segnerà i destini delle città americane. Tra proiezioni, ologrammi e robot con le sembianze di Frank Sinatra, Dean Martin, Judy Garland, Bing Crosby e dei precedenti presidenti, Hello America si via via ingarbugliando, anche se alcune immagini risaltano, nel delirio generale, più di altre. Nella parodia complessiva, un po’ fumetto, un po’ serie di sogni (come direbbe Bob Dylan, citato fin dall’inizio), la metafora viene svelata quando Ballard scrive che “servono gli orpelli del potere inerenti al potere stesso per legittimarlo” e non c’è dubbio che Hello America nella sua folle lucidità sappia cogliere il valore ultimo delle immagini, a partire (e per concludere) con John Wayne che “a noi può parere una barzelletta, invece è il cuore di tutto quanto”, ed è davvero così. Ma più di tutto dovrebbe far riflettere il fatto che l’altro Wayne, il protagonista di Hello America, è un clandestino che nella terra della libertà e nella patria dei coraggiosi si ritrova in mezzo a una specie di guerra civile con l’ennesimo dottor Stranamore pronto con il dito sul bottone.

martedì 5 dicembre 2023

Gustave Flaubert

In Io sono Charlotte Simmons Tom Wolfe descrive così l’impressione della sua tormentata protagonista nel corso di una delle sue prime lezioni universitarie: “Gustave Flaubert era uno scrittore molto diretto e lineare, ma usava un sacco di frasi elaborate, espressioni colloquiali e citava una serie di oggetti che lei doveva cercare sul dizionario, dato che Flaubert dava molta importanza ai dettagli”. Poco più avanti, il suo docente di letteratura francese, il professor Lewin precisa: “Flaubert, più che spiegare un punto chiave, voleva farlo vedere. E per mostrarlo aveva bisogno di un punto di vista”. È una circostanza che va tenuta ben presente quando si affronta La tentazione di Antonio (nella traduzione e con l’esaustiva introduzione di Bruno Nacci) che ripercorre, secondo la particolarissima interpretazione di Flaubert, il romitaggio di sant’Antonio. Nelle pieghe del deserto della Tebaide, l’anacoreta passa in rassegna tutte le divinità, si confronta con miti ed eremiti, con la materia e il sogno, l’immaginazione e la fede, e si ritrova in allucinazioni dove i peccati capitali, gola e lussuria prima di tutti prendono forma. Le descrizioni sono abbondanti e spumeggianti: “I vini ruscellano, i pesci palpitano, il sangue ribolle nei piatti, la polpa dei frutti si protende come labbra innamorate; e la tavola sale fino al suo petto, fino al mento, portando un solo piatto e un solo pane, proprio davanti alla sua faccia”. Alle libagioni patrizie, si contrappone il destino atroce della persecuzione dei martiri cristiani. Il contrasto è possente e Flaubert non manca di farlo notare: “Ma in breve è sazio di eccessi e stermini; lo prende la voglia di rotolarsi nell’abiezione. D’altra parte, il degrado di ciò che spaventa gli uomini è un oltraggio fatto al loro spirito, un modo diverso di stupirli; e poiché non c’è niente di più vile di una bestia bruta, Antonio si mette a quattro zampe sulla tavola e muggisce come un toro”. L’eccesso linguistico è all’ordine del giorno e il pellegrinaggio di Antonio è una colossale panoramica mitologica e cosmologica che si snoda come una tempesta sulle rive del Mar Rosso. Secondo Ilarione, già suo discepolo e il più loquace tra le apparizioni, “forse non è così difficile. Le esortazioni degli amici, il piacere d’insultare il popolo, il giuramento fatto, una certa vertigine, soccorrono mille circostanze”, ma per il santo le lusinghe sono una tortura e il conflitto si propaga in tutte le direzioni. Ilarione è assillante nello spingerlo ai limiti (“Ma fuori dal dogma, ci è permessa una completa libertà di ricerca”) e Antonio si rivela un viandante che caracolla nello spazio e nel tempo (ci vuole il raffinato glossario in appendice per districarsi nelle sue visioni) finché Flaubert non gli fa chiedere: “Cos’è un miracolo? Un avvenimento che ci appare fuori dalla natura. Ma forse che noi conosciamo tutta la sua potenza? E dal fatto che normalmente una cosa non ci stupisce, ne segue che la capiamo?”, e il dilemma diventa l’occasione per sfoggiare un florilegio erudito capace di collassare le culture classiche, greca e latina, in un’acrobazia teologica senza fine. L’accavallarsi di estasi e dispute (che spesso coincidono) è mostrato da Flaubert proprio attraverso la prospettiva di Antonio (ecco, il “punto di vista” di cui parlava Tom Wolfe) che, nella sua santità, ha l’enorme pregio di restare umano in mezzo a tanto travaglio divino e demoniaco. Dice, tra l’altro: “Il mio pensiero si dibatte per uscire dalla sua prigione. Mi sembra che mettendo insieme le mie forze ci riuscirò. A volte, nello spazio di un lampo, mi trovo come sospeso; poi torno a cadere”. La raffigurazione fluttua irriverente e cangiante ben sapendo che “quando il cuore è puro l’apostasia è permessa” e La tentazione di sant’Antonio ammette che l’insidia più grande non arriva dall’alto dei cieli o dal profondo degli inferi, ma da un angolo remoto del nostro essere.

lunedì 4 dicembre 2023

Mia Couto

Serpenti, uccelli, uomini e donne in cerca di un amore che non c’è, alberi, fiumi e intersezioni tra esseri senzienti e il resto della natura, una principessa russe e Sidney Poitier: nelle Voci all’imbrunire di Mia Couto si sommano simbologie e mitologie, la dimensione del sogno e della stregoneria, i bianchi e i neri, l’imperialismo e le ribellioni, le invocazioni e le carestie, il Mozambico e l’Africa intera. I contrasti sono ridotti in una scrittura volitiva, che riesce a contenere le vestigia coloniali e animiste, le “mura” urbane e la vita nelle lande rurali e desertiche, addensandole in storie che partono “da qualche cosa accaduta nella realtà”, ma come “se fosse successa all’altro capo del mondo”. I racconti hanno svolte e risvolti sorprendenti a partire da Il giorno in cui esplose Mabata-Bata, che comincia con un bue che si disintegra nell’aria. Il giovane pastore Azarias destinato dal protervo zio Raul a custodirlo rimane senza parole: “Fissò la disgrazia: il bue polverizzato, eco di silenzio, ombra di nulla”. In quel momento Azarias pensa a un fulmine o a un intervento divino, per poi scoprire che il povero animale è saltato su una mina. Le condizioni del Mozambico si evidenziano nei racconti di Mia Couto dove la realtà della guerra si somma alla magia e alla durezza della vita quotidiana: “Ciò che più duole, nella miseria, è l’ignoranza che essa ha di se stessa. Messi di fronte all’assenza di tutto, gli uomini si astengono dal sogno disarmandosi del desiderio di essere altri. Esiste nel nulla un’illusione di pienezza che fa fermare la vita e imbrunisce le voci”. C’è un continuo andirivieni nei dilemmi dei personaggi di Mia Couto perché “il dolore è polvere che ci annebbia la luce” e la rivoluzione non riesce nemmeno a prendersi cura dei sopravvissuti come si può vedere in La storia dei comparsi, dove la burocrazia e la corruzione trasformano le persone in creature invisibili. Le reazioni sono tra le più disparate. Per esempio, il personaggio principale di Le balene del Quissico, “unico abitante della tempesta, Bento João Mussavele si addentrava nel mare, si addentrava nel sogno”, prova ad accontentarsi e “se ne stava lì a sedere e basta. Nient’altro. Proprio così, sedutissimo. Il tempo non se la prendeva con lui. Lasciava fare”. Il protagonista di Alla fin fine, Carlota Gentina invece recita nell’incipit: “Io siamo tristi. Non sto sbagliando, dico bene. O forse: noi sono triste? Perché dentro di me non sono solo. Sono molti. E tutti questi si contendono la mia unica vita. Avremo le nostre morti. Ma il parto fu uno solo. Eccolo, il problema. Per questo quando racconto la mia storia mescolo, mulatto non di razze ma di esistenze”. Potrebbe essere l’identità dello stesso Mia Couto che altrove confessa: “Ho bisogno di essere un altro per essere me stesso”, e riesce a raccontare il dolore dell’illusione con La bambina dal futuro contorto, un racconto straziante, con il padre che, di fatto, tortura la figlia nella speranza di trasformarla in contorsionista, mentre “il tempo si riempie di nulla” e ogni sforzo è legato a una notizia che vaga nell’aria: “Ma in una terra così piccola è avvenimento soltanto ciò che viene da fuori. La cosa di cui si parla non è mai un fatto locale. Viene sempre da fuori, scuote le anime, incendia il tempo e poi si ritira. Se ne va così in fretta da non lasciare neppure braci con cui gli indigeni possano riaccendere quel fuoco, neanche se lo vogliono. Il mondo ha dei posti in cui la sua millenaria rotazione si ferma e riposa. Quello era uno di quei posti”. Lo sa anche Patanhoca, il serpentaio appassionato quando dice che racconterà come a prendere forma non sia “proprio la storia”, ma “pezzetti di storia. Pezzetti sbrecciati come le nostre vite. Riuniamo i frammenti, ma il mosaico non è mai completo”. E nelle Voci all’imbrunire si ritrova anche Mia Couto quando ammette che “nel tessuto della vita intreccio la lotta in cui divengo” e nel percorso si fa affascinante e coinvolgente.

martedì 21 novembre 2023

Jarvis Cocker

Quando Jarvis Cocker, già deus ex machina dei Pulp, svuota la soffitta avvia un “percorso di scavo interiore” che è, sì, uno slalom tra le masserizie e gli ammennicoli, ma soprattutto un “inventario” pop leggero & brillante nello stesso tempo. L’elenco di questa bizzarra archeologia personale comprende un po’ di tutto, dalle istantanee in vacanza a Ibiza ai Thunderbirds, dalla prima chitarra ai nastri di John Peel, da 2001: Odissea nello spazio ai dischi di Elvis Costello, Echo & The Bunnymen, Stranglers e Slits è un continuo rimbalzare di “ossessioni/ispirazioni”, prima tra le quali, rimane la musica. Per Jarvis Cocker, come per tutti alla sua età, sarà determinante il punk perché “era una rottura. Uno strappo netto con il passato. Un rifiuto della narrativa ufficiale. Non voleva adeguarsi. Esigeva un nuovo sound, nuove idee. & nuovi vestiti”. Apriva anche inedite possibilità all’adolescente di Sheffield nell’era della Thatcher, il convitato di pietra di Good Pop Bad Pop. La riduzione del linguaggio operato dalla propaganda politica attingeva senza alcun pudore proprio dalla spontaneità e dalla semplicità del pop che secondo Jarvis Cocker “era emancipazione. Era accessibile a tutti: bastava accendere la radio o la televisione o aprire una rivista. Il pop è stato creato per soddisfare i nostri desideri primordiali”. Dal ripostiglio di Jarvis Cocker appare anche uno strano apparecchio televisivo a gettoni che forse non si trova più nemmeno nei musei, ma che per il futuro leader dei Pulp ha rappresentato la chiave d’accesso a un vasto catalogo di possibilità: “Le classifiche pop britanniche erano una folle collisione di affari rampanti & democrazia popolare: la gente votava comprando i dischi & poi seguendo la loro ascesa in classifica. Era un passatempo nazionale. Addirittura ricordo certi ragazzi che portavano a scuola la radio per ascoltare le classifiche di metà settimana durante le pause. Quella sì che è dedizione. Erano popolari & commerciali, ma soprattutto, il che era decisivo, potevano partecipare tutti. Potevano accadere cose strane”. Attraverso quel piccolo tubo catodico, diventato via più grande, Jarvis Cocker riesce a individuare “la magia del pop” che poi è la “la sua imprevedibilità. Una hit doveva avere quel misterioso non so che capace di catturare l’immaginario popolare”. Il rapporto con il mezzo televisivo, in particolare, sarà ambivalente perché se può apparire che “cantare in playback è più reale” è anche vero che “la televisione non mostra il quadro completo”. Lì Good Pop Bad Pop compie un po’ una svolta e la cernita di Jarvis Cocker alza il tiro quando dice: “La vita è casuale, sì, ma quanto ci piacciono le storie. Vogliamo disperatamente che tutto abbia un senso. Quindi incastriamo le cose in modo tale che sembrino fare proprio questo. Così che possano raccontarci una storia. È come vedere volti nelle nuvole o i contorni di figure mitiche nel cielo di notte. Li vediamo perché vogliamo vederli. Proiettiamo un senso, una forma o un significato su ciò che ci circonda perché ci fa sentire meglio”. Alla fine, Good Pop Bad Pop è “un libro sul processo creativo” che si legge con disinvoltura a partire dal fatto che “una canzone è un’avventura che vivi dall’interno” per proseguire nell’incontro con Leonard Cohen, con il cinema di Fellini per arrivare ai Velvet Underground e, come è giusto che sia da lì, ad Andy Warhol che “aveva cambiato il modo delle persone di vedere la realtà quotidiana tutt’intorno. & dopo averlo fatto, il mondo intero si è accodato”. È molto probabile che sia stato lui, se non altro a livello subliminale, l’ispiratore dell’idea che “una cultura potesse rivelare di più su di sé attraverso i propri scarti anziché gli illustri (o presunti tali) artefatti”. È proprio con quell’afflato che Jarvis Cocker tende a raccontare “tutta la vita umana in forma pop” riuscendo a restare in equilibrio tra i rimasugli del passato e la propensione verso il futuro, ancora da scrivere.

martedì 10 ottobre 2023

Barbara Stiegler

All’origine del “nuovo imperativo politico” di Barbara Stiegler c’è la disputa tra Walter Lippmann, che ha scritto L’opinione pubblica (fondamentale) e il filosofo John Dewey che mette a confronto nelle sue parti essenziali “una democrazia rappresentativa, governata dall’alto dagli esperti” (Lippmann) e “una democrazia partecipativa, favorevole al continuo coinvolgimento dei cittadini nella sperimentazione collettiva” (Dewey). Il contrasto ha influenzato in pratica tutto il ventesimo secolo americano ed è al centro dell’analisi di Barbara Stiegler (tradotta, introdotta e annotata da Beatrice Magni). Lippmann aveva capito già a suo tempo che “un’intensificazione dei processi democratici di ricerca e di sperimentazione collettiva” non è più ineludibile. Sul fronte opposto, Dewey sosteneva che “un piccolo frammento impersonale, ostinato, automatico e cieco della macchina molecolare è la fonte ultima di ogni azione, quindi di significato e quindi di coscienza dell’universo”. Stessa linea di partenza, ma una distinzione netta ed è così che la dicotomia diventa il sale della scrupolosa dissertazione di Barbara Stiegler: tra impulse (impulso) e habit, (abitudini), tra economia pianificata e libero mercato, individualità e intelligenza collettiva, nei passaggi di “flusso e stasi”, “gradualismo e eterocronia”, passivo e attivo. È un attrito continuo che secondo Barbara Stiegler mette in risalto “la generalizzazione di un modo di strutturare le organizzazioni sociali, in cui si tratta ogni volta di ripristinare, in ogni situazione locale specifica, la gerarchia tra coloro che dirigono l’esperimento e coloro che ne sono il bersaglio passivo e compiacente”. L’elaborazione richiede di districarsi tra Adam Smith e Henri Bergson, nonché di riconoscere l’influenza di Darwin e dei principi evolutivi rispetto alla politica in cui “la continuità della vita significa il continuo riadattamento dell’ambiente ai bisogni degli organismi viventi”. È naturale che lo scontro, tutto nel campo liberale, avvenga assecondando “il legame tra la ricchezza delle nazioni, la divisione del lavoro e la sua regolazione attraverso il mercato” e di conseguenza. Le logiche del “laisser-faire” e dello “status quo” che appaiono contraddittorie sono complementari, perché, come precisa Stiegler, “la morale, propria della specie umana, emerge esattamente da questa tensione perpetua tra habit e impulse, sempre sul punto di entrare in conflitto”. È nella loro intersezione che si arriva al dissidio tra  “una politica attiva e volontaristica di sublimazione delle pulsioni” e “una giuridicizzazione generale delle relazioni sociali” che prevede come risultato conclusivo “l’esclusione definitiva dell’intelligenza collettiva”. È il momento in cui Barbara Stiegler ricorda che “la tensione tra il limite delle capacità di attenzione e il flusso illimitato delle informazioni da assimilare si riverbera in un’ulteriore tensione, quella tra la stasi del sapere scolastico e il flusso permanente del cambiamento”. È un punto di non ritorno ricorrente, ma bisogna riprendere Alexander Rüstow per riconoscerlo: “La prospettiva economica è insufficiente per valutare la situazione vitale. L’essere umano è un essere naturalmente sociale e, per la sua vita e per l’analisi della vita che egli conduce, l’inserimento sociale risulta decisivo”. Dovrebbe essere così, ma la realtà resta ancorata, né più né meno della diatriba tra Lippmann e Dewey, ai principi e alle logiche del mercato e secondo Barbara Stiegler, “questo spiega perché le uniche differenze ammesse nel campo politico siano piccole variazioni, il più possibile neutrali, tali da permettere la riforma graduale delle regole e da allontanare lo spettro del conflitto e della rivoluzione”. La vera sintesi vissuta nella democrazia è quella che Noam Chomsky chiama la “manifattura del consenso” e, in conclusione, la critica di Stiegler si fa circostanziata: “Facendo prevalere, in nome di presunti istinti naturali, l’istituzione economica della proprietà e il gusto per la competizione su tutte le altre forme di interazione, il liberalismo ha commesso un grave errore interpretativo sulle potenzialità molto più ampie dell’impulse. Nell’ambizione di voler liberare il movimento evolutivo dell’innovazione emancipando gli individui dalle limitazioni della società, li ha invece progressivamente intrappolati in vincoli ancora più restrittivi, arrivando persino a standardizzare i loro modi di sentire e pensare”. Un lavoro enorme, che richiede la pazienza di un intero corso universitario, ma che ha un’ottica tale da riassumere con precisione più di un secolo di filosofia, politica ed economia.

lunedì 9 ottobre 2023

Murray Bail

Quando Bertolt Brecht diceva che “oggi guardare un albero è quasi un delitto” non era lontano dalla profezia ed è proprio in quella direzione che si è avviato, con rara maestria, Murray Bail. Per Holland, il protagonista di Eucalyptus, “il mondo degli alberi offriva almeno una solida base. In fondo si trattava di un vero e proprio mondo libero da psicologismi, un universo chiuso e aperto al tempo stesso. Il compito di classificarlo e descriverlo era ragionevolmente complesso. Gli eucalipti, per esempio, erano soggetti difficili, ma si potevano considerare una cosa sola, come una persona riprodotta infinite volte”. Ci sono più di settecento specie e catalogarle tutte non è soltanto l’ossessione di Holland, ma anche il tentativo di ricordare che “l’immobilità è bellezza, sempre”. Ogni tipo rappresenta una ricchezza a sé, tutti condividono qualità vegetali importanti per gli uomini e soprattutto per le api, ma per Holland acquisteranno un valore particolare, assoluto. Quando ritrova la figlia Ellen (“Gli occhi e la mascella della ragazza recavano la sua inconfondibile impronta. Aveva anche lo stesso doppio sorriso, e lo stesso modo di aggrottare le sopracciglia quando doveva rispondere a una domanda. Con le donne del paese era molto educata”) l’elenco completo degli Eucalyptus diventa la prova d’amore per ogni pretendente. La conformazione fiabesca non rinuncia a identificare il particolarissimo territorio dell’Australia “dove i fiumi corrono troppo veloci verso il mare; una svista della natura che ha dato origine a una vasta zona morta, una regione di assurda desolazione, che a nulla serve se non a incoraggiare milioni di fotografi scadenti e a scatenare l’immaginazione di politici, giornalisti e altri pensatori”. È una prospettiva in cui “alcuni popoli, alcune nazioni, vivono in un’ombra perenne. Altri invece fanno ombra: una lunga ombra li precede, persino in chiesa o quando c’è il sole, che viene prosciugato dallo straccio sporco delle nubi”. Ed ecco che, nella trama di Eucalyptus, “il paesaggio s’insinua ancora nella nostra narrazione, anche se non per molto. Una baracca usata per tosare le pecore galleggia sulla propria ombra, ormeggiata alla casa padronale dalla linea indolente di una recinzione. Va da sé che la terra di cui parliamo è come ornata di recinti. La linea retta è sempre, marcatamente umana”. Proprio attraverso Ellen scopriamo che “esistono storie (così le venne spiegato) così inconsistenti da non potersi quasi definirle tali. Ce ne sono alcune che si esauriscono in una riga o due: frammenti senza una fine, troppo aderenti al reale. Sono storie solo in senso lato, o possibili storie”. All’ombra di una foresta “che è linguaggio”, Eucalyptus si eleva ricordandoci che “ogni soggetto al mondo ha la sua storia, è ovvio, che è il risultato di altre storie, e così all’infinito”. La presenza incombente degli alberi e della loro definizione è la prova vivente e ingombrante che “anche un semplice nome può generare una storia. L’imprevisto può manifestarsi nel piccolo e nel grande”. Murray Bail ha il pregevole e raffinato dono di lasciarsi trasportare dai suoi personaggi e la sua scrittura, lirica, elegante ed eclettica, riesce a ribadire che “eppure è innegabile che anche il più breve aneddoto (e qui non diciamo storia) è in grado di produrre un’eco dal potere strano, indelebile. Non dimentichiamo che per la stessa ragione gli artisti attribuiscono un grande valore a disegni e abbozzi”. Non a caso, Michael Ondaatje ha definito Eucalyptus “uno dei più straordinari e meravigliosi corteggiamenti nella storia della letteratura”. Di sicuro, è un romanzo intenso e singolare, che affascina e incanta e, sapendo che “i grandi alberi generano storie ancora più grandi”, asseconda uno sguardo capace di cogliere un frammento e di trasformarlo in qualcosa di infinito.

lunedì 2 ottobre 2023

James Yorkston

Capire cos’abbia valore è un dilemma universale che James Yorkston plasma e modella seguendo Fraser McLeod e i figli Paul e Joseph in un viaggio attraverso l’Irlanda che è “solo un grande denso, umido grigio” con “un pub ogni casa su due”. Una geografia è limitata e la destinazione provvisoria è Dublino dove il padre deve incontrare un editore che ha risposto all’invio dei suoi componimenti versi, ovvero Il libro dei gaeli in sé. Il riscontro ha acceso la speranza di un futuro migliore garantito dalla poesia, poco più di un sogno a occhi aperti. Trovare la direzione per i resti di “una famiglia di tre persone, con una valigia di qualità scadente” è un’impresa epica e dolorosa. Si succedono i mezzi di locomozione: l’autobus (quasi un miracolo), un carretto traballante, ma il più delle volte si ritrovano a camminare in un territorio depresso e ostile, dove “non cambia nulla tra un paese e un altro”. I due bambini costituiscono un microcosmo a parte: sono in lotta perenne con: a) la fame; b) il freddo; c) il sonno. L’idea di felicità è una patata fritta e starsene abbracciati al papà, ma gli eventi li portano a intraprendere ogni forma di resistenza che riescono a ideare nella lotta per la sopravvivenza. In una sosta attorno “a un fuocherello” Joseph e Paul “con le pance che brontolano ancora una volta”, si ritrovano a  chiedersi “se andremo avanti, se andremo via da qui”. Se il leitmotiv resta la strada, la vera poesia è la relazione tra i fratelli e l’amore filiale, a tratti condito con il sollievo della musica e delle canzoni. James Yorkston, che è un valido cantautore, ha il dono della voce e sa replicarla sviluppando Il libro dei gaeli come una lunga ballata: il racconto è lineare, la scrittura è essenziale, ruvida e a tratti persino grezza, ma perfettamente consona allo scopo perché segue da molto vicino i suoi protagonisti finché non si ritrovano nelle pieghe di Dublino. La città, che si rivela una volta di più un groviglio dalle profondità inesplorate, diventa una trappola. Scoprono che l’editore che aveva risposto è soltanto un anello nella lunga catena di illusioni e i bassifondi li inghiottono con una rapidità micidiale. L’intera famiglia si ritrova a prima mendicare sui marciapiedi, proprio per un caso del destino, e poi viene coinvolta in una torbida combine. A quel punto la poesia non serve più e l’intera famiglia può solo contare sull’inventiva dei due fratelli. I passaggi sono repentini, avvengono senza preavviso e in questo James Yorkston è molto acuto nel sottolineare le svolte. Se il percorso verso Dublino appare con tutti i connotati dell’iniziazione (con le prove incontrate lungo il tragitto) e nell’insieme le sfumature suggeriscono l’atmosfera di un romanzo picaresco, Il libro di gaeli si svolge in modo autonomo e coinvolgente. Ci sono almeno due livelli di lettura differenti: le azioni (e di cose ne succedono un bel po’) si svolgono in una definizione sfumata, come se fossero viste attraverso un vetro incrinato. Nello sguardo dei bambini sembra svolgersi tutto al rallentatore e invece la storia si snoda a colpi di frusta, con un background oscuro che riaffiorerà nei finali (sì, sono più di uno) mettendo definitivamente in chiaro quello che vale, oppure no. Per la poesia ci sarà sempre tempo, ma intanto Il libro dei gaeli puzza di alcol, di Irlanda, di strada, di vita, come pochi altri.

venerdì 1 settembre 2023

Adam Mars-Jones

Sullo sfondo del Regno Unito degli anni settanta, “un mondo antiquato”, ingessato e decadente, la storia di Box Hill ruota attorno al rapporto tra Colin e Ray. Colin è poco più che un bambino, Ray è un mistero. È il leader indiscusso di una banda di biker, che ha orizzonti e necessità limitate: le moto (inglesi), l’alcol, il poker e il sesso orale, da cui tutto è cominciato. Il nocciolo di Box Hill resta il legame tra Colin e Ray, nonostante le divagazioni di quest’ultimo e il precario equilibrio middle class della sua famiglia. Non è un rapporto paritario, neanche per sbaglio: Colin è soggiogato, per non dire usato, in modo brutale. Ray limita l’uso della parola allo stretto indispensabile, si fa capire soprattutto attraverso l’esperienza gestuale e fisica, anche dal punto di vista sessuale. La violenza della sottomissione è implicita ed esplicita: da parte di Colin c’è un’ambigua forma di accettazione all’interno del rapporto con Ray. Non è soltanto una passiva subordinazione: è un circuito chiuso in cui Colin trova la sua libertà, o almeno una parte della sua personalità, all’interno di una convivenza squilibrata. Il paradosso si trascina per tutto il romanzo: Box Hill è una storia spigolosa e Adam Mars-Jones non fa nulla per renderla più malleabile, mostrando senza pudori tutta la fragilità di Colin e della famiglia compresi gli sviluppi imprevisti che portano a una trama spezzata e in gran parte irrisolta. Tutto si svolge molto in fretta e l’occasione di ripristinare i fatti porta Colin a confessare: “Ho passato un sacco di tempo a ripetermi che su quanto accaduto a Box Hill nel 1975, il giorno del mio diciottesimo compleanno, non avevo avuto alcun controllo. Mi vedevo come uno di quei rapiti che vanno in fissa coi loro rapitori, solo che per via del carisma di Ray era successo tutto molto in fretta”. La scelta della prima persona implica un senso di responsabilità nel coesistere con le conseguenze a lungo termine di un legame tossico, e non potrebbe essere diversamente. Nel rileggerle Adam Mars-Jones alias Colin arriva al punto di ammettere che “prima o poi dovevo affrontare il brivido e il pericolo. Era solo questione di dove e quando”. Quasi per una legge del contrappasso nei confronti del brutale passato trascorso con Ray, Colin non guida né le moto (che nel frattempo sono diventate giapponesi), né l’auto. Diventerà un manovratore della metropolitana, (“Tutti trovano grottesco che ogni santo giorno affidino un treno a uno senza patente. La mia risposta è: sono competenze diversissime. I treni non devono superare rotatorie”) da dove ha una particolare visuale sui tentativi di suicidio, un pensiero ricorrente che lo riporta al senso di inadeguatezza vissuto con Ray. Nello sviluppo dritto e lineare come un binario, Adam Mars-Jones riporta ogni cosa con uno stile asciutto, essenziale, che si adatta alla perfezione al senso doloroso di Box Hill. Le ferite emergono con chiarezza, se non proprio con sincerità, ma manca qualcosa, forse una definizione finale o un’armonia complessiva. Di sicuro è un romanzo scomodo, irto di domande, e di questi tempi non è poco.

lunedì 31 luglio 2023

Clarissa Goenawan

Come la distanza di un riflesso è inesplicabile, così le scelte per amore sfilano come solchi sull’acqua, nitidi e invisibili nello stesso tempo. Il paradosso di Watersong, costruito con certosina pazienza e con una particolare grazia da Clarissa Goenawan, comincia proprio nel momento in cui Shoji Arai segue la fidanzata Yoko Sasaki, da Tokyo ad Akakawa. Sono quattro ore di strada, una in aereo, ma c’è tutto uno spazio nel mezzo, anche perché  scopre che il lavoro di Yoko è ascoltare, ed è ben pagato. Presto Shoji, per quanto riluttante, viene coinvolto: l’ambiente è criptico, e all’inizio non trova nessuno, finché non arriva una cliente importante, anche troppo. Mizuki è infatti la moglie di un potente politico, nonché proprietario dell’azienda e riconosce al suo interlocutore l’intimo privilegio di essere ascoltata. Secondo lei “il talento è solo fatica e fiducia in se stessi” e Shoji Arai, un passione nascosta per la scrittura, un passato da nuotatore, deve soltanto ascoltare, e ascoltare è un’arte. L’unica regola è che non deve intervenire, ma le regole sono fatte per essere trasgredite, soprattutto se nascondono soprusi e violenze, dato che Mizuki gli confessa: “A volte non so se quello che sto facendo è aspettare o dimenticare. È passato così tanto tempo. Sta diventando difficile distinguere le due cose”. Vedere è un’altra cosa rispetto ad ascoltare e Shoji Arai, ormai diventato un testimone, e di conseguenza Yoko, vanno contro un potere oscuro e malefico, che concentra influenze politiche, famigliari e criminali in un conglomerato invisibile, ma onnipotente, che li costringe alla fuga. Il prezzo da pagare è nascosto in un libro di poesie di William Carlos Williams avuto in regalo, ed è lecito immaginare, tra le parole lette da Shoji, quelle di Aprile (Dalla primavera trasportata al morale): “Le forme delle emozioni sono cristalline, con sfaccettature geometriche. Così ce ne rendiamo conto solo nel calor bianco della comprensione, quando una fiamma s’insinua rapida nel varco creato dall’apprendere”. L’alone di mistero che li circonda non è dovuto soltanto alla condizione di Mizuki, ma anche (e soprattutto) alla fragilità dei legami che restano fluidi come l’acqua, per quanto mai altrettanto trasparenti. Pare evidente, nel contesto di Watersong, che l’identità non ha corrispondenze nella solitudine e si forma soltanto come un’unità compiuta all’interno di una coppia, per quanto fragile, contraddittoria e limitata l’unione possa essere. Si capisce perché, nelle raffinate geometrie di Watersong, i personaggi maschili, salvo Shoji (ovviamente), tendano a sparire in fretta e spesso non di propria volontà: il misterioso signor Sato, un’enigmatica figura in guanti bianchi, Toru Odagiri (un reporter affrettato e maldestro), lo zio Hidetoshi, il professor Takeshi Goda e lo stesso Kazuhiro Katuo compaiono come figure ambigue e defilate. Le figure femminili invece si susseguono determinando tutte le svolte di Watersong, da Yoko a Mizuki, da Lyiun a Eri, una vecchia conoscenza che consiglia a Shoji: “Se sai di aver fatto un passo falso, prova a fare qualcosa di diverso. Risolvi il problema. Non crogiolarti nel rimpianto”. Sulla carta sembrerebbe un saggio suggerimento, nella realtà lo porterà ancora a camminare nei solchi dei ricordi e a cercare Yoko, di cui dovrebbe ricordare l’ammonimento: “Be’, tutti hanno un segreto che non vogliono che nessuno scopra mai”. È troppo tardi e Shoji Arai, inseguendo un ideale di amore, ha perseverato nell’errore nel tentativo di ricostruire il passato, o di rileggerlo e Clarissa Goenawan rimanda la conclusione all’epilogo, così come aveva cominciato tutto con la profezia acquatica del prologo. I cerchi sulla superficie si espandono e si annullano e Watersong lascia la sensazione di essere prigionieri di una corrente, inafferrabile, intricata e affascinante.

lunedì 3 luglio 2023

George Steiner

Le qualità di un uomo che rettifica ogni testo, anche quello di un foglio di giornale che rotola nel vento, sono messe a dura prova dalla dissoluzione delle ideologie del ventesimo secolo. Il Gufo alias Il correttore è consapevole che “ogni erratum è una menzogna definitiva” e si applica con totale partecipazione a verificare “i protocolli giudiziari, gli atti di compravendita, gli avvisi delle finanze pubbliche, i contratti, le quotazioni in borsa” e, ancora, “la giustificazione delle colonne di cifre più lunghe, gli sterminati elenchi di oggetti smarriti messi all’asta dalla posta o dall’azienda dei trasporti pubblici”. La deformazione professionale lo porta a cercare con ossessione la precisione e la correttezza mentre i sistemi collassano all’improvviso: l’esistenza frugale del Gufo si scontra con gli interrogativi delle grandi utopie e allora lavora “per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo”. Lo scopo è “l’esattezza. La santità dell’esattezza. Il rispetto di se stesso”, ma è difficile crederci mentre tutto intorno il tempo si sgretola trascinando nel crollo le illusioni, le certezze, i destini scritti nei libri di storia. Non c’è alcuna possibilità di controllo o di riforma per il Gufo, davanti alle folle che sventrano muri o al cospetto di torture indicibili. Troppi errori che non si possono rimuovere, troppe deviazioni incontrollabili, variabili di un futuro improprio, non previsto, non malleabile. Nel frammentario dialogo con i compagni, (padre) Carlo, Maura e Lombardi, alla ricerca di motivi spazzati dal caos, dalla violenza, dalle atrocità commesse in nome di un partito, di un dittatore, di un diktat, il Gufo cerca di tenere una posizione, di rispettare il confronto, di accumulare argomenti ma, nel buio, sembra non restare niente delle costruzioni umane, come se fossero soltanto teorie ormai bruciate, distrutte. La fragilità è intrinseca, l’inesattezza è dietro l’angolo e resta solo una notte con Maura, i corpi avvinghiati nell’ombra. George Steiner tesse una sottile trama, a tratti sfuggente e impercettibile, ma lascia scivolare alcune domande con un peso specifico enorme. Riesce a ridisegnare l’apparato emotivo di fronte alle grandi questioni della civiltà, dove la logica non trova risposte sufficienti, anzi, va in crisi e crolla. Il correttore è un romanzo che comprime le svolte storiche, proprio mentre diventano fenomeni dialettici. Quando il Gufo si vede compromesso in una realtà o la sua percezione che gli sfugge di mano, la razionalità delle parole appare quasi inutile, figurarsi se cambiare il nome a un partito o addirittura a una nazione può servire a qualcosa. Nei suoi tormenti quotidiani (e notturni), le aberrazioni sono vietate eppure il mondo sembra non poterne fare a meno, lasciandolo con la “convinzione fuggevole e folle che l’universo abbandonato, come una casa lasciata aperta dopo la partenza dei camion dell’impresa di traslochi, sarebbe sprofondato nell’oblio se lui non fosse riuscito a realizzare il suo scopo del momento”. Il correttore vive la solitudine della politica, che non ammette revisioni, e non lascia speranze, soltanto piccole, trascurabili note a piè di pagina.

mercoledì 31 maggio 2023

Predrag Matvejević

Secondo Raffaele La Capria ormai “la realtà è sopraffatta dalla sua rappresentazione” e per evitare le trappole dei luoghi comuni quella di Predrag Matvejević è “una Venezia fatta di scrittura che diventa materia e sensazione, materia e sensazione che riceviamo da Venezia, sensazioni di umido, di acqua, di marcio, di tempo, di bellezza, di passato, di malinconia, di miraggio, di marmo, di sabbia, di fango, di oro, di sfumato, di splendente, di torbido, di Venezia insomma, dell’indicibile Venezia”. Non poteva esserci introduzione migliore: quando Matvejević si immerge nella città, si accorge ben presto che “tra l’oscurità che cala e la nebbia che si infittisce, le forme diventano contorni. La banalità scompare”. La sua è un’esplorazione istintiva, segnata da un’osservazione spontanea, se non proprio affidandosi al caso, come se fosse una riduzione  pratica del destino. È una Venezia (e la sua Laguna) vista dal basso, fuggendo la panoramica del turista, inoltrandosi in vicoli e in sprazzi di mare, come refoli di scirocco ormai incontrollabili. La caccia al tesoro di Matvejević segue proprio le curvature nell’aria perché “a tradurre le forme del vento sono i rami curvi degli ulivi e dei pini, le erbe e le canne piega là dove sono esposte al turbine, macchie e cespugli, frumenti e biade allettati: in essi il vento ha lasciato le sue impronte, i suoi giochi, le sue figure”. La catalogazione della flora, sui muri e sul fondo dei canali, e della fauna segue una ricerca fatta di sguardi attenti alle sfumature dei tramonti così come alle geometrie dei ponti, dei cortili, dei pozzi e delle botteghe. Vengono portati in rilievo i cocci e le sculture “esterne” ed “erratiche”, i segni per le navigazioni, le scritte sui muri e persino l’onnipresente ruggine che appare “sfarzosa. La patina somiglia a una doratura”. È un paradosso, uno dei tanti della “città più inverosimile che sia”, che risale alla genesi della città. Nel suo Viaggio in Italia, Goethe sosteneva che, “non è stato per caso che quegli uomini (i veneziani) si sono rifugiati su quegli isolotti; non è stata una volontà straniera a incitare altri a unirsi a loro. La necessità li ha abituati a cercare la sicurezza nella situazione più sfavorevole, per loro diventata la più propizia: essa ha illuminato il loro spirito mentre, al Nord, il mondo intero era ancora nell’oscurità”. L’originalità di Venezia brilla nelle voci dei gondolieri, nelle navi affondate dai monaci per proteggersi dalle burrasche, negli anfitrioni che si distinguono tra un’ombra e l’altra. È così che Venezia “è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Predrag Matvejević colleziona anche vecchie e rudimentali fotografie, incisioni in rame, antiche mappe costruite assecondando voci e osservazioni riportate, annotazioni di una storia ricchissima e mutevole che si allunga su tutto l’Adriatico e per naturale estensione al Mediterraneo dove Venezia si colloca tra le altre città, Roma, Atene, Cartagine, Alessandria, Beirut, Napoli, Siracusa, Dubrovnik, Genova, Marsiglia, Siviglia, Istanbul, Gerusalemme, un mare cosmopolita. Un piccolo gioiello.

lunedì 29 maggio 2023

J. Á. González Sainz

Due racconti per Due.città, Trieste e Venezia, sprofondate nella storia, delimitate dalle frontiere, dalle coste e dalle lingue, popolate di ombre e di ricordi, di movimenti infiniti che attraversano il tempo, lo condensano in forme e lo conservano in architetture dove l’incontro e l’addio formano un’onda inarrestabile e dove ogni deviazione genera un varco, uno spazio, una nuova opportunità che è una potenziale intersezione, un attraversamento verso l’incognito e l’inesplorato. In Una leggera differenza di espressione, Trieste è lo scenario di un commiato che arriva come un sipario imprevisto (ma non imprevedibile) che copre con un velo indecifrabile tutta una mappa di emozioni. Claudio Magris dice che Trieste è “una città di scrittori grandi, mediocri o falliti, perché i contrasti che elidono e paralizzano la sua storia inducono a credere che solo scrivendo, esprimendo questo stallo possa dare consistenza alla propria persona”. Proprio così: Una leggera differenza di espressione riesce a cogliere alla perfezione l’atmosfera di “un destino che è il destino del caso, un buon risultato che è conseguenza dell’errore, una città che è tutte le città in un luogo che è tutti i luoghi e un tempo che è tutti questi ultimi tempi, il luogo di tutte le contraddizioni e di tutti gli incontri, con la montagna che prende la città alle spalle e il mare che le entra in faccia, e da tutte le parti, alle spalle e in faccia e sopra e altrettanto sotto, fuori ma anche perfino dentro, il vento come un avviso reiterato, la storia che non finisce di passare”. Qui Trieste e Venezia coincidono o, meglio, collidono, e condividono una dimensione arcana, ma neppure poi tanto. Se a Trieste il movente è la dissoluzione, a Venezia è la scelta, o la possibilità, la chance dietro l’angolo. Eppure Trieste appare aperta, indefinita e illimitata, uno sguardo su un’orizzonte di confini, mentre Venezia è chiusa, circoscritta, delimitata da sponde e incroci, dove ogni bivio presuppone una svolta. Il protagonista che affronta tutti i giorni L’altra strada nel tragitto da casa al lavoro, e viceversa, ammette la condizione kafkiana: “Non so come io riesca a rimanere ogni giorno imperturbabile, o forse soltanto intimorito, confuso, davanti all’eventualità che quell’altra calle mi porge di correggere un itinerario o di arricchirlo, di risolvere un’incognita o di appianare un dubbio”. La sua ambivalenza è un po’ la nostra perché “ci sono tante strade che una volta prese ti portano lontano, dopo alcuni metri oppure al termine di una lunga serie di svolte, sul bordo di un canale o semplicemente in una casa o in un cortile di un caseggiato, in un vicolo cielo! Ci sono tante strade senza uscita, tante calli morte che non vanno da nessuna parte!”. Nell’ambiguità del suo labirinto c’è qualcosa di ipnotico dato che, come scriveva Predrag Matvejević, “Venezia è diventata un’idea ed è rimasta a un tempo la città viva che l’umidità invade; è un’illusione e anche il luogo concreto che le onde adriatiche inondano; una rappresentazione della realtà e la realtà stessa che, a volte, si confondono l’una con l’altra o si oppongono a vicenda”. Il tormento che L’altra strada impone è uno stillicidio per il protagonista che “ogni giorno e ogni volta di ogni giorno” si ritrova  “davanti agli stessi crocevia” e, di nuovo, le Due.città si sovrappongono perché “non c’è in fondo altro modo di dissipare veramente il mistero se non con una perdita in ogni caso”. Dovrebbe essere chiaro fin dall’inizio, quando J. Á. González Sainz si premura di illustrare il destino di questi “racconti naufraghi”: “Ecco la dialettica narrativa: il gioco infinito della tensione, della ritorsione, del retro e dei ritorni. Non c’è niente senza ritorno, senza rovescio. E il rovesciare è il nostro compito, il ritornare”. Due.città è proprio come una moneta preziosa, testa o croce, avanti e indietro, doppio in uno, da conservare fino alla fine del viaggio, che, non si sa mai, come succede spesso a Trieste e/o a Venezia, potrebbe essere un’altra partenza.

mercoledì 24 maggio 2023

John le Carré

Dopo l’11 settembre, “i difensori della costituzione” sono alle prese con minacce invisibili, cellule “dormienti”, intrusioni di servizi segreti alleati sul territorio della repubblica federale tedesca. Tutti vogliono risposte e se non c’è un pericolo, è meglio inventarselo. Amburgo, una città dalle mille possibilità, diventa così l’humus ideale per John le Carré che assembla tutta una serie di cliché nei personaggi adatti, una volta radunati tutti insieme, a fornire un quadro esaustivo e, va da sé, un colpo di scena finale. Annabel Richter, avvocato, idealista, di buona famiglia, viaggia in bicicletta, si crede o si sente coraggiosa e si spende con generosità, ma anche con qualche ingenuità di troppo. Tommy Brue è un banchiere che deve nascondere un fallimento latente nei suoi uffici e un matrimonio che è già fallito (ed è il secondo) e deve provvedere ad alcuni conti riservati chiamati “lipizzani”, l’ultimo dei quali è appannaggio dell’unico erede del colonnello dell’Armata Rossa Grigori Borisović Karpov, ovvero Yssa o Ivan Karpov, avuto dalla fugace relazione con una donna cecena e arrivato per vie clandestine ad Amburgo. Si scoprirà che l’entità dell’eredità è di dodici milioni di dollari, non proprio una somma frugale ed è qui che, come una forza superiore, in gran parte incontrollabile, interviene una rete di servizi segreti (tedeschi, inglesi e americani) che complottano per trasformare una partita economica nella cattura di un potenziale finanziatore del terrorismo globale. Cominciano a manipolare uno dopo l’altro tutti i protagonisti, che, passo dopo passo diventano parti di una macchinazione che ha uno scopo ben preciso, per quanto invisibile. Yssa, tanto per cominciare, non ha documenti, è in fuga ed è entrato illegalmente in Germania. Annabel, che l’ha aiutato, con tutte le buon intenzioni di questo mondo, è altrettanto a rischio per aver violato le le leggi sull’immigrazione. Tommy Brue, neanche a dirlo, ha un buco nero (e neanche tanto metaforicamente) alle spalle, tra i conti “lipizzani”, le pratiche non sempre (quasi mai) legali della sua banca e altre deviazioni di percorso. Tommy è innamorato di Annabel, anche se si rende conto che è una questione fuori discussione, per non dire imbarazzante. Faisal Abdullah è inserito nella realtà tedesca, ed è garantito al novantacinque percento ma c’è sempre quell’ultima piccola percentuale che può creare un grande danno. Sono tutti ricattabili e spendibili e per il veterano dei servizi tedeschi Günther Bachmann (e la sua assistente Erna Frey) l’occasione è troppo ghiotta per non lasciarsi tentare: così coinvolge Annabel per manipolare Yssa e arrivare ad Abdullah, che rimane il bersaglio finale. Nel frattempo i servizi inglesi impongono a Tommy Brue di prestarsi al gioco e questi li asseconda tra un colpo di testa e l’altro anche perché il rapporto con il sottobosco dello spionaggio è di lunga data, e risale persino alla figura ingombrante del padre. La storia di Yssa il buono è una matrioska scoppiettante che non lascia tregua e John le Carré interpreta con la consueta abilità l’evolversi dei personaggi e delle situazioni in cui sono coinvolti e, in parallelo, sa leggere anche le deformazioni degli apparati di sicurezza che hanno generato un clima di paranoia dopo l’11 settembre, compreso il finale tranchant, ma molto realistico.

lunedì 22 maggio 2023

Robert Westall

Nel 1940 il disturbo da stress post-traumatico non era ancora stato diagnosticato. I reduci però ne soffrivano né più né meno di oggi. Anche Garmouth, una piccola cittadina inglese sulla costa, è oppressa da un lancinante disagio: ogni notte i bombardieri nazisti attaccano senza quartiere alimentando la paura dell’invasione. Con un aplomb molto britannico, la comunità di Garmouth cerca di sopravvivere, organizzando i soccorsi e le difese e provando a mantenere una parvenza di normalità nella vita quotidiana, frequentazioni scolastiche incluse. Chas, alias Charlie McGill, un ragazzo sensibile e acuto, osserva la lotta di ogni giorno da un punto di vista privilegiato, tenendo conto dei segnali che arrivano da piccoli dettagli. Se dopo il cessato allarme il carretto del latte era ancora carico era un “brutto segno”, perché “ogni bottiglia avanzata significava qualche famiglia bombardata durante la notte”. Per esorcizzare la minaccia di Una macchina da guerra, Chas e i suoi coetanei si sfidano a collezionare frammenti di ordigni: La sua, per quanto abbondante (“Undici alette di bombe incendiarie, ventisei proiettili usati, diciotto pezzi shrapnel, compreso uno lungo una trentina di centimetri, e cinquanta bossoli”), non può competere con quella del rivale Boddser Brown (“Un’ogiva di una decina di centimetri, un casco d’aviatore tedesco bello lucido, un mucchio di banconote tedesche con la faccia di Hitler stampata sopra e la foto di una ragazza tedesca con i codini che si chiama Mein Liebling”). Essendo un sognatore che deve sopportare tutto e tutti, Chas ha sviluppato la propensione a sparire nei boschi e quando trova i resti di un Heinkel 111 H, con tanto di mitragliatrice sulla torretta dorsale ancora intatta, non riesce a credere ai propri occhi. Una volta condivisa la scoperta con gli amici, decidono di costruire una fortezza, un avamposto trincerato nei dintorni della casa bombardata di uno di loro, un rifugio per la mitragliatrice (un trofeo esclusivo) e anche per prendere le distanze dai genitori. La vita nei cunicoli prevede l’aggiornamento continuo della struttura, con materiali rastrellati dalle case e dai giardini. Mentre i bombardamenti e le battaglie nei cieli continuano senza sosta, i ragazzi vogliono fare la loro parte e avere un ruolo da protagonisti, nel bene e nel male. Quando catturano un pilota nemico (ferito e stremato) si susseguono i colpi di scena, che Robert Westall sa raccontare con raffinata leggerezza, mettendo in rilievo tutte le follie e gli equivoci della guerra, che non è l’unico conflitto. C’è l’attrito con il mondo degli adulti, che sono provati e limitati, e non riescono a collocare i movimenti dei propri figli. C’è una faida contro i bulli, che imperversano nonostante i tempi drammatici, e non riescono a trovare un proprio posto e c’è una continua fuga dalla realtà, così come sono costretti a viverla, dato che “il mondo intero pareva diviso in due”. Con grande tatto, Robert Westall riesce a incastrare tutto in una trama lineare ed efficace capace di raccontare la deforme brutalità degli effetti della guerra con un punto di vista metaforico pulito e non privo di ironia. Basta e avanza.

giovedì 18 maggio 2023

Sarah Blau

Una serie di omicidi sullo sfondo di Tel Aviv. Stop. Tutte donne, vite preziose. Stop. Unico indizio: erano legate da un’antica amicizia, risalente ai tempi dell’università. Stop. È l’unica traccia e la più importante: la forma del thriller pare avere il duplice scopo di assecondare una trama più complessa che ha nel suo obiettivo la maternità, o meglio la decisione di non voler diventare madre a tutti i costi. Le altre vogliono essere diverse, a partire dal ruolo riproduttivo assegnato alle donne (in pratica, imposto), e il carattere perentorio della loro scelta lo si intuisce già dal titolo, che condensa le storie di un gruppo di studentesse di teologia che si erano ripromesse di difendere fino all’estremo la propria libertà, e il proprio corpo. Coltivavano in parallelo un’aderenza alle “donne bibliche che non hanno mai avuto figli”, come in cerca di fondamenta culturali per un patto in apparenza come tanti che si stringono in gioventù, ma che poi sono destinati a sfumare, il più delle volte. Sarebbe stato anche il destino che Le altre avrebbero incontrato, prima o poi, se solo ne avessero avuto la possibilità perché un serial killer le sta massacrando una alla volta, profanandole con rituali stregoneschi. Sheila Heller, una delle più convinte e ferventi tra Le altre, contiene agli occhi degli investigatori (non particolarmente brillanti, bisogna dirlo) tutti gli elementi per essere considerata il prossimo bersaglio, ma anche una serie di note stridenti che potrebbero associarla all’identikit del carnefice. È in una zona grigia dove può succedere di tutto e non fa nulla per impedirlo, anzi, sembra assecondare i suoi interlocutori quasi per inerzia e si ritrova proiettata indietro nel tempo, riscoprendo una volta di più che “il passato tornerà sempre a tormentarci, anche se quello che mi ha appena tirato un colpo in faccia è il futuro”. Tra un estremo temporale e l’altro, comunque sia, “giunge un momento nella vita di una donna in cui l’approssimazione è il miglior alleato” e per Sheila Heller è l’occasione di muoversi a sua volta concedendosi l’opportunità di scegliere, se non altro. Attorno a lei si moltiplicano ombre il più delle volte inoffensive (“Quel che c’è di bello nell’amicizia è che gli amici non devono per forza dirsi tutto, specialmente non la verità, che in genere è brutta e offensiva”), spesso titubanti e maldestre (in particolare le componenti maschili che sembrano quasi tangenti alle “altre”), ogni volta portatrici di perturbazioni e minuscole rivelazioni che conducono Sheila e tutti noi a ripeterci che siamo solo “la somma di ricordi ed esperienze, e nel momento stesso in cui siamo portati a riprendere in considerazione informazioni importanti che giacciono incontestate nelle profondità della coscienza, il nostro corpo, tutto il nostro essere, deve riallinearsi di conseguenza”. Su questi tratti in chiaroscuro, Sarah Blau costruisce tutta la trama,  che è una falsa pista adatta a prendere per mano il lettore verso uno snodo più cruciale, cioè il ruolo definitivo della donna nella consapevolezza di una decisione capitale, quella di diventare madre, oppure no. Senza dubbio, Le altre ruota attorno a quel cardine, ma in un angolo, ancora più intimo, c’è la sensazione che si sia qualcosa di sfuggente nelle nostre scelte che non riusciamo a controllare se non per fortuna, o per caso. Stop.

martedì 28 marzo 2023

August Strindberg

Quando arriva in una piccola e bucolica cittadina svedese l’avvocato Edvard Libotz è “un uomo intelligente, di mente aperta. Già alla lettura di un caso complicato poteva tratteggiarne una prima relazione in tribunale. Sempre riflessivo e sereno, si teneva al sodo e non consentiva mai all’avversario di perdersi in chiacchiere e giri viziosi”. Le sue doti dovrebbero essere una garanzia ed è accolto dall’anfitrione naturale, che è Askanius, l’oste per antonomasia, comprensivo e indulgente, colto e assertivo, capace di condividere con i clienti confidenze e saggezze, e qualche bicchierino di troppo. Eppure, è come se un sasso fosse arrivato all’improvviso al centro di uno stagno immobile da anni. Se in Libotz c’era “anche un desiderio di riconciliazione che lo induceva a sorvolare sui tranelli”, nel posto in cui è finito i conflitti locali portano i segni di una decadenza provinciale dove i peccati non si scontano mai. L’innocenza di Libotz ha qualcosa di ambiguo perché lo porta in continuazione a vivere situazioni imbarazzanti, a partire dal sofferto rapporto con il padre e con il resto della famiglia. Una solitudine asfissiante anche quando s’innamora di Karin, la cameriera di Askanius, eppure, anche se con grande fatica riesce a esternare i suoi sentimenti, con un fidanzamento ufficiale, tutto finisce in una cappa di incomunicabilità, entre tra gli uomini si parla, e fin troppo. Tjärne e Libotz conversano “con fervore, come due naufraghi su un’isola deserta. Di sciocchezze, di niente, solo al fine di udire una voce. Per paura d’inciampare nei tristi trascorsi, evitavano tutto ciò che riguardava le loro persone; facevano i brillanti per non andarsene per la propria strada, in solitudine; si addolcivano quella siesta; mostravano i loro lati più belli e più nobili”. Gli eventi si moltiplicano e le relative dinamiche colpiscono Libotz: con l’ingenuità e i limiti con cui si accompagna, tra due, tre fuochi diversi più che un capro espiatorio, sembra una vittima collaterale ante litteram. Prima si vede “citato in giudizio per diffamazione” dal commissario Sjögren, padre del suo infedele e truffaldino praticante e lì comincia “un processo come molti altri, dove il colpevole attaccava non solo l’innocente ma persino il danneggiato”, con un non raro capovolgimento di ruoli. D’altra parte Askanius abbandona la sua trattoria e apre un ristorante di lusso, di fronte a quello rinomato che esiste già. La scontro con la concorrenza non dura molto: per la legge del contrappasso entrambi vengono superati dal “monopolio”, un’entità misteriosa ma non così irreale, che impone il Grand Hotel, la ferrovia e tutte le pressioni del progresso che Il capro espiatorio lascia uscire dall’ombra per stravolgere le psicologie dei protagonisti. August Strindberg è un cesellatore che, con tocchi raffinati, definisce i personaggi pagina dopo pagina, seguendone l’evoluzione all’interno della storia e, ancora di più, della loro mutevole personalità. Libotz alias Il capro espiatorio è comunque al centro dell’attenzione, ma attorno a lui si sviluppa, come scrive Franco Perrelli che introduce e traduce Strindberg con grande perizia, “un’onesta testimonianza sull’essere uomini”, con la dimensione appurata del classico.

giovedì 16 marzo 2023

J. G. Ballard

Anche in questa antologia di articoli dal titolo altisonante, ma non fuori luogo, Ballard si conferma lucidissimo, puntuale e, il più delle volte, profetico. Spesso si tratta di recensioni di libri o film che usa come trampolino per le sue digressioni che sono sempre acute, sia che si tratti di discutere dei diari di Andy Warhol, delle luci e delle ombre di Edward Hopper, dell’immaginario di Dalì o di Guerre stellari. In Fine millennio: istruzioni per l’uso il rapporto con la fantascienza è una costante che riemerge con regolarità e non soltanto per i trascorsi di Ballard, ma proprio perché la considera esplicitamente “l’ultima forma letteraria prima della morte della parola scritta e del definitivo dominio dell’immagine. La fantascienza è stata una delle poche forme di narrativa moderna che abbia esplicitamente affrontato il tema del cambiamento (dal punto di vista sociale, tecnologico e ambientale), e non c’è dubbio che sia stata la sola narrativa a inventare miti, sogni e utopie sociali”. Ridisegnare “il tempo, lo spazio e l’identità” è forse il collegamento sotterraneo che unisce tutti i saggi qui raccolti anche nell’estrema eterogeneità dei temi, che comprendono anche ritratti di Nancy Reagan e consorte (imperdibili), Einstein e Freud, Walt Disney e la Coca-Cola, scampoli di autobiografia “da Shangai a Shepperton”. Le divagazioni sono in cima all’ordine del giorno perché, come dice Ballard, quasi per scusarsi, “gli scrittori, è ovvio possono far danzare quanti angeli vogliono sulla capocchia di uno spillo, e tirar fuori un intero universo da un guscio di noce o da una sola stanza”. Tra gli esempi a cui si dedica scorrono Francis Scott Fitzgerald, Henry Miller e Williams Burroughs con cui si ritorna, inevitabilmente alla fantascienza ricordando “le sue estrapolazioni, anche le più incredibili, sono sempre messe alla prova in un quadro emotivo o umano di qualche genere”. Da lì si intrecciano le previsioni di Ballard che, già riflettendo sull’incidenza dell’automobile sulle nostre vite, rivelava un raro sguardo capace di andare oltre l’immediato e di prefigurare con decenni di anticipo “la trasformazione della realtà in uno studio televisivo, nel quale potremo interpretare a un tempo il ruolo di pubblico, di produttore e di star”. Facoltà di preveggenza così precise non sono innate o fortuite, anzi, secondo Ballard “ci sono ragioni per credere che la nostra comprensione del futuro sia strettamente associata con le origini della parola, e che la ricostruzione immaginaria degli eventi necessaria per farci riconoscere il passato sia anch’essa legata all’invenzione del linguaggio” e che, di conseguenza, “il futuro fornisce una chiave per il presente migliore di quella che offre il passato”. Fedele alla sua vocazione apocalittica Fine millennio: istruzioni per l’uso trova proprio in quell’intersezione temporale, e nell’imminenza del fatidico 2000, tutta una gamma di valutazioni e così le riassume ad uso e consumo dei posteri: “Un inferno valido è un inferno che contempli una possibilità di redenzione, anche se questa non viene poi attinta, insomma le prigioni di un’architettura della grazia le cui guglie puntino a un paradiso di qualche tipo. Ma gli inferni istituzionali del nostro secolo si arriva con biglietti di sola andata, timbrati Nagasaki e Buchenwald, mondi di orrore terminale ancora più definitivi della tomba”. Non manca anche l’augurio di Ballard, che merita di essere riscoperto e riletto spesso: “Vorrei vedere più idee psicoletterarie, più concetti metabiologici e metachimici, più sistemi temporali individuali, più psicologie e spazi-tempi sintetici, più semimondi cupi come quelli che affiorano nei dipinti degli schizofrenici, insomma una poesia speculativa completa, una fantasia della scienza”. Un futuro tutto da scrivere.

martedì 14 marzo 2023

John Berger

Siamo noi che guardiamo gli animali o sono gli animali che ci guardano? È da questo dilemma che comincia l’indagine di John Berger Sul guardare. C’è un motivo sostanziale nel rapporto uomo e animale e l’atto di guardare lo definisce perché “gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse” e a differenza degli animali “l’uomo guarda sempre attraverso la propria ignoranza e la propria paura”. È un punto di partenza insolito, ma non anomalo per addentrarsi tra i principi dell’arte, della pittura, della fotografia e gli effetti dell’osservazione, o meglio del guardare, in generale e in particolare proprio perché “avviene a volte che la visione del singolo riesca a sopravanzare le forme sociali della cultura esistente, ivi compresa la forma sociale dell’arte. Quando ciò avviene, le opere nate da una tale visione vivono in una solitudine storica, oltre che personale”. John Berger riflette sugli artisti primitivi, ovvero outsider come il Postino Cheval che da una pietra costruì un sogno, su Bacon, La Tour, Paul Strand, Walker Evans e per ogni artista ha un modo di vedere e valutazioni che vanno ben oltre gli aspetti estetici. È un’attitudine a confrontarsi con l’opera d’arte che tiene in considerazioni tutte le variabili e vale per la fotografia (“Proprio perché conserva l’immagine di un evento o di una persona, la fotografia è da sempre collegata all’idea di storia”) come per la pittura (“Nessun contorno, nessun vuoto, nessuna asperità nei contorni tradisce un’esitazione nell’intensità della pittura. L’atto del dipingere è inseparabile dalla sofferenza patita. Poiché nessuna parte del corpo sfugge al dolore, la pittura non può in nessun punto cedere in precisione. La causa del dolore è irrilevante, ciò che conta è la fedeltà della pittura. Questa fedeltà nasceva dall’empatia d’amore”) o la scultura, vista attraverso le opere di Rodin o Giacometti, così come per ogni altra espressione visiva fino ad arrivare a Walt Disney. L’attenzione al contesto sociale e geografico è sempre rilevante come è evidente nel capitolo dedicato a Ralph Fasanella i cui dipinti “parlando di alcune lezioni che l’aspetto della città impartiva quasi fossero leggi”. Le affollate geometrie di Fasanella, che rileggono New York secondo una “prospettiva ambulante” (John Berger dixit) ci ricordano che “una città moderna non è solo un luogo; essa è anche, di per sé, molto prima di essere raffigurata in un quadro, una serie di immagini, un circuito di messaggi”. È in quel momento che Sul guardare supera la fenomenologia della critica dell’arte e si rivolge all’elaborazione del vedere in sé, liberandosi dagli schemi di “ciò-che-sta-per-accadere, ciò-che-si-deve-guadagnare svuota ciò-che-è”, e puntualizzando i significati più profondi della percezione dell’immagine. I contorni spaziali delle figure rimandano a coordinate temporali e secondo John Berger “il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto nella memoria sociale e dall’azione sociale. È necessario che il tempo costruito e narrato rispetti il processo della memoria che spera di stimolare”. È un gesto che “implica un atto di redenzione” che è un’intima rivoluzione perché “all’improvviso un’esperienza di osservazione disinteressata si apre e dà vita a una felicità che riconoscete immediatamente come vostra”. Da tenere sempre a portata di mano.