giovedì 31 maggio 2018

Mei Fong

Il numero 8, considerato simbolo della fortuna, prosperità e ricchezza in Cina (in Giappone è addirittura sacro) deve aver influito nella scelta di avviare la politica del Figlio unico nel 1980. Un programma di ingegneria sociale che puntava a ridimensionare la questione demografica, che è sempre “la” questione, sia quando è in tumultuosa espansione (all’epoca, in Cina), sia quando non lo è (in Italia, per esempio). Mei Fong riprende il discorso in un tripudio di 8, perché parte a cavallo del 2008, tra il tragico terremoto nel Sichuan e l’apertura delle Olimpiadi (avvenuta l’8 agosto alle 8, 8 minuti e 8 secondi dell’ora legale), ricordando che piegare il destino resta comunque un azzardo dato che, “ecco, in sostanza, come nacque la politica del figlio unico: un obiettivo economico, del tutto arbitrario, che ha cambiato il corso di milioni di vite umane”. Con trecentomila ufficiali addetti al programma e sottoposti a loro volta a rigidi controlli burocratici, le forzature (eufemismo) tra aborti, adozioni, contraccezioni non furono l’eccezione e la logica draconiana “meno quantità, più qualità” ha portato ad aberrazioni che hanno convinto Mei Fong a ripetere spesso che “gli animali sono meglio degli esseri umani”. Un luogo comune che qui ha un suo senso perché le legittime, spontanee e naturali inclinazioni degli individui vennero sorpassate e annullate dagli scopi supremi individuati dalla “commissione di stato per la pianificazione familiare”. La definizione parla da sé: le strutture orwelliane destinate a imporre il Figlio unico, sorvolando sulla sottile, impercettibile differenza tra persuasione e coercizione, hanno mantenuto fede agli obiettivi, ma non hanno potuto prevedere gli effetti collaterali, primo fra tutti l’invecchiamento della popolazione. In questo c’è una straordinaria, per quanto paradossale, coincidenza con l’Italia dove il Figlio unico (per la precisione: era 1,64 nel 1980 ed è arrivato in caduta libera all’1,37 del 2015 ) è stato una costante statistica parallela a quella cinese, ma per motivi mai approfonditi e comunque del tutto avulsi dalle logiche istituzionali. In Cina, Mei Fong non tenta di definire l’impatto di una prova così complessa in una nazione multietnica, già complicata dalla storia e dalla geografia e infine sottoposta al doppio regime, quello del partito e quello del mercato. L’analisi tende piuttosto a evidenziare gli sviluppi e i contrasti e Mei Fong è elastica quel tanto che basta da avere una visione concentrata sui provvedimenti e sulle leggi e nello stesso tempo da affrontare lo sviluppo generale verso la condizione femminile, quindi il matrimonio e i rapporti affettivi, in definitiva la natura stessa dei legami e della sessualità. Figlio unico non è soltanto la rappresentazione più efficace del passato e presente di un esperimento estremo: Mei Fong non si limita agli aspetti statistici, sociali ed economici ma affronta con scrupolo la ricognizione sulla sostenibilità di scelte e/o imposizioni nella sfera più intima delle persone. L’aspetto umano, dalle sofferenze delle donne al destino dei figli unici (valga su tutti la storia di Liu Ting) fino ai rapporti tra le generazioni, viene messo in risalto attraverso una ricostruzione diretta, sul campo, e insieme a una moltitudine di fonti accertate. Frutto di un lavoro denso e caparbio, Figlio unico permette a Mei Fong di giungere alla conclusione che “alla fine, il grande danno inferto dalla politica del figlio unico è aver costretto le persone a pensare razionalmente, forse troppo razionalmente, alla possibilità di diventare genitori, che invece è un grande salto nel buio, capace di estendere all’infinito la nostra comprensione di ciò che significa vivere e amare”. Per la cronaca, la politica del Figlio unico è stata abolita nel 2013, senza rimpianti e con molti, molti dubbi sui suoi effetti a lungo termine. In un anno privo di 8, non poteva che andare così.

lunedì 28 maggio 2018

Jonathan Coe

Si parte con un gruppo di studenti di Birmingham, nell’Inghilterra della prima metà degli anni Settanta. Scuola, musica, amore, amicizia, per loro. Conflitti sindacali, tradimenti, fughe e crisi esistenziali, per i genitori. Il clima è plumbeo, l’aria è pesante e l’impero in caduta libera. L’unica certezza, dovesse servire è che “i brocchi non ce la fanno. Sono di razza inferiore”. Una miscela esplosiva che Jonathan Coe racconta tracciando il panorama inequivocabile di una nazione decadente ed ingrigita e, nello stesso tempo, dell'impotenza di comprenderne l’evoluzione: “Era il mondo, il mondo in quanto tale, che era fuori dalla sua portata, tutta quella costruzione assurdamente grande, complicata, casuale, incommensurabile, quella marea incessante di relazioni umane, politiche, culture, storie”. Infatti sono proprio i piccoli dettagli dei legami personali che formano l’ordito principale che delinea La banda dei brocchi e su cui s’intrecciano anche cronaca e storia, dagli attentati dell’IRA (e qui non è difficile intuire un parallelo con il bellissimo Eureka Street di Robert McLiam Wilson) all’evoluzione delle vite di Trotter, Harding, Anderton e Chase. Attirati, come è sano e giusto che sia, dalle passioni musicali, in cui vedono uno dei rari momenti in cui sentirsi “meravigliosamente e inaspettatamente a posto”, perché “i piccoli problemi, come il fatto che eri senza soldi e non sapevi dove andare a dormire scomparivano in quel mare di accordi e sudore e birra e distorsioni e corpi che saltavano e si lanciavano frenetici per aria e poi per terra come pazzi senza quasi seguire il ritmo della musica”. Dettaglio, quest’ultimo, di importanza centrale per La banda dei brocchi: non soltanto perché c’è uno strato sottile, ma continuo e inesorabile di richiami musicali che, una volta di più, spiega quanto sia penetrato in profondità il linguaggio pop nella quotidianità delle nostre esistenze. La propensione alla musica è continua ed eccentrica, dove tutto è grigio e monotono, ed è una delle rare certezze che La banda dei brocchi vive nell’autunno del Regno Unito del 1973 e/o 1974. Solo che la stagione conflittuale e stridente di un’intera nazione si riflette anche sulla musica. La banda dei brocchi ripercorre un’epoca che dall’età d’oro del progressive quasi naturalmente, per reazione (o per rivoluzione), sfocia nel terremoto del 1977 e dintorni. Dai Jethro Tull agli Henry Cow (gruppo citatissimo), dalle derive fantasy degli Yes (basta ricordare le coloratissime copertine di Roger Dean) ai Genesis si passa al duro realismo dei Clash. Forse, anche due modi diversi di vedere e vivere la propria condizione: da una parte l’evasione, i voli pindarici, l’estetismo dei suoni e della tecnica; dall’altra, il rifiuto iconoclasta, spregiudicato, senza regole e incontrollabile. La banda dei brocchi è proprio lì in mezzo: “Era la fine del 1976, ricordate? Perfino in una terra di nessuno culturale com’era Birmingham si stava spargendo la voce di un nuovo genere di musica che si cominciava a sentire in posti come Londra e Manchester. Si bisbigliavano i nomi di gruppi come i Damned o i Clash e, naturalmente, i Sex Pistols. Era la gloriosa rinascita del singolo da due minuti. Basta assoli di chitarra. I concept albums erano finiti. I Mellotron? Verboten. Erano gli albori del punk o, nell’azzeccata definizione di Tony Parsons, del rock da sussidio di disoccupazione”. Le conseguenze saranno immediate, come acconta un membro della La banda dei brocchi: “C’erano certi gruppi di cui un anno prima discuteva animatamente con i suoi amici, e oggi anche solo i loro nomi avrebbero provocato veri ululati di scherno se faceva tanto di menzionarli”. Succede spesso anche a noi.

venerdì 25 maggio 2018

Jean-Claude Izzo

“Bastardo di Marsiglia, mezzosangue figlio della cultura spagnola e francese”, Jean-Claude Izzo è un appassionato anfitrione del Mediterraneo, visto con l’acuta percezione di un’odissea moderna, eppure in qualche modo primitiva e definitiva, dovuta alla certezza che “questo è essenziale, quando viaggiamo su queste rive: concederci quello che non potremo mai portarci via, che esiste nel solo istante in cui guardiamo, e che non fa parte dei ricordi ma del piacere di vivere”. La rete di Aglio, menta e basilico attinge in mari diversi: parte con la letteratura, dall’Edipo Re a Jim Harrison, attraverso una voracità insaziabile di storie, personaggi, lingue, atmosfere, perché “l’immaginario è una realtà, a volte più reale della stessa realtà” e si perde nel dedalo labirintico di Marsiglia, una città con la forma di avamposto lungo le coste trasformate in frontiera. La trasformazione del Mediterraneo è l’elemento che fonde e mescola le parti di Aglio, menta e basilico in una sorta di guida, molto scrupolosa a ricorsi storici e alle forme geografiche. Il tema ricorrente dell’esilio, della transizione, di quella che Izzo chiama “erranza” svela forme d’incontro e indica i riflessi su altre sponde che invece sono state allontanate, deturpate, consumate e, come ha ben compreso Jean-Claude Izzo “è qui che si gioca tutto. Fra il vecchio pensiero economico, separatista, segregazionista (della banca mondiale e dei capitali privati internazionali) e una nuova cultura, diversa, meticcia, in cui l’uomo rimanga padrone sia del suo tempo sia del suo spazio geografico e sociale”. Nel suo Mediterraneo è tutto meticcio, annodato e colorito: le letture, la musica, e così l’intreccio delle voci, come la trama dei ricordi e la composizione dei cibi.  L’idea di “una porta che rimanga aperta, sempre” è celebrata proprio dalla cultura di Aglio, menta e basilico (e pomodori, e frittura, e pizza mangiata sugli scogli), con il vino che rappresenta il giusto lubrificante per “l’oltraggio”, che poi è un altro modo per ricordare che “la felicità non ti viene mai regalata, te la devi inventare”. Basta poco: nello sguardo minuzioso di Jean-Claude Izzo filtra il Mediterraneo delle felicità possibili che dipende molto dall’arte di arrangiarsi con “con quello che offre la giornata”, sapendo che tutto sommato “domani è domani, tutta un’altra storia”. Non è fatalismo rinnovato per l’occasione: è una ricerca dell’essenziale, nei sapori e negli incontri, negli spazi e nelle parole, rimuginando sull’intima natura di un luogo che presuppone comunque un’altra partenza, finché come diceva un altro cultore del Mediterraneo, Predrag Matvejević, “diventa meno importante da dove siamo partiti e più fin dove siamo giunti: quel che si è visto e come. Talvolta tutti i mari sembrano uno solo, specie quando la traversata è lunga; talvolta ognuno di essi è un altro mare”. Pur nella sua forma assemblata, Aglio, menta e basilico è proprio così: mette in primo piano “l’importanza di permettere alla realtà di trovare la sua logica” e in contemporanea cerca di fuggirgli, preferendo la contemplazione di un attimo, la ricchezza infinita di “ore e ore ad attendere quel momento, più magico di qualsiasi altro, in cui un cargo entrerà alla luce del sole al tramonto sul mare e vi scomparirà per una frazione di secondo. Il tempo di credere che tutto è possibile”. Persino ricordarsi di un bacio, solo perché sapeva di aglio: una contraddizione di termini che, grazie all’arguzia di Jean-Claude Izzo, da sola spiega l’intero ecosistema del Mediterraneo.

mercoledì 23 maggio 2018

Zigmunt Bauman

Si fa presto a dire barbari. L’identificazione era usata, fin dai tempi di Platone, per tracciare una linea di demarcazione, una frontiera nei paesaggi mentali tra il conosciuto e l’incognito che stava oltre il confine. Il luogo comune voleva che, passati i margini della civiltà ellenica, tutti fossero barbari. Una precisazione geografica, più che politica. Nel corso dei secoli quell’idea, dato che “la consapevolezza dell’esistenza di altri stili di vita mette a disagio, dal momento che rappresenta una sfida alla modalità quotidianamente accettata e praticata senza porsi domande né dubbi”, è stata modellata per ogni scopo, per ogni obiettivo, primi tra tutti quelli economici e, di conseguenza, militari. Come precisa Zigmunt Bauman nelle pagine iniziali di questo breve saggio, intenso e molto attuale, “il concetto di barbarie durante la modernità è stato usato come strumento e giustificazione per la conquista del mondo. Fornì la foglia di fico per nascondere le orribili e vergognose atrocità dell’imperialismo e del colonialismo. Permise di ribaltare le responsabilità: spostare l’obbrobrio etico e la condanna morale degli assassini alle loro vittime. Tale ribaltamento fu forse il più ingegnoso tra i meccanismi creati e impiegati nella lunga tradizione della strategia di incolpare le vittime”. Tra barbari e barbarie c’è una certa differenza che non va più cercata lungo un’ipotetica linea d’ombra che segue frontiere invisibili. Chi erano i barbari nella prigione di Abu Ghraib? Chi sono i barbari a Guantanamo? Dov’erano i barbari mentre nell’Europa “civile e liberale”, come ricorda Enzo Traverso, diventava “il laboratorio delle violenze del ventesimo secolo”? Il libro di Zigmunt Bauman risponde a queste domande in modo lucido e sintetico. E’ un’analisi linguistica, antropologica, sociologica, storica e geopolitica condensata in sessanta pagine che seguono “lo spettro dei barbari” e ne comprendono a fondo l’evoluzione, fino ad oggi, perché “la barbarie ha smesso di significare una fase preliminare precedente all’avvento della civiltà per assumere quello della ritirata della civiltà, apparentemente già vittoriosa. Ha assunto il significato di una negazione e in generale di fallimento dell’ordine civile”. Il barbaro è ovunque e la barbarie è in agguato in modo subdolo: non si tratta di orde vandaliche ai margini dell’impero o di invasioni imprevedibili, ma di una regressione in cui a furia di ritenere inferiori tutti gli altri, per comodità, per utilità, si sono perse le naturali dinamiche della convivenza e stanno scemando anche le regole perché, come scrive Zigmunt Bauman, “nell’attuale fase storica della civiltà, la totale o parziale assenza, sospensione, pigrizia, indifferenza o volontaria inefficacia della legge (a prescindere che sia esercitata, intesa o minacciata), sta diventando uno dei modi più comuni con cui la legge si manifesta”. Per questo si parla di “spettro dei barbari”: è uno specchio deformato che rimanda la sua stessa immagine. I barbari sono gli altri, finché possiamo dirlo noi. Un ritratto micidiale dei nostri giorni.

martedì 22 maggio 2018

Gabriel García Márquez

A poco più di vent’anni Gabriel García Márquez si ritrova a condurre una rubrica giornaliera in cui gli è permesso disquisire un po’ su tutto, dalle analisi riguardo L’importanza della lettera X alle notizie più spicciole e divertenti fino a conclusioni piuttosto lungimiranti quando scrive, nel maggio 1948, che “il nostro tempo lo riceviamo sprovvisto di quegli elementi che facevano della vita una giornata poetica. Ci è stato consegnato un mondo meccanico, artificiale, in cui la tecnica inaugura una nuova politica della vita”. Un’attenzione precisata in un articolo del mese successivo, dove mostra, anche nel ristretto spazio, di avere capito che “la gente di quest’epoca preferisce (preferiamo?) una pubblicità ingegnosa a tutte le parole di Pigmalione. Almeno, la prima ci lascia la soddisfazione di essere ingannati senza che ce ne rendiamo conto”. Gli Scritti costieri 1948-1952 sono ricchi di variazioni sul tema, dalla letteratura (Truman Capote, William Faulkner, Aldous Huxley, Sartre, Kafka) al cinema (Ladri di biciclette) fino al teatro, ma García Márquez scrive impunemente e con lo stesso entusiasta stile dell’autobus delle nove e dell’arte di fare colazione, del suicidio di Babbo Natale e delle possibilità dell’antropofagia, dell’amore tra tartarughe e tra gli esseri umani (perché “l’amore è sempre stato una piccola catastrofe”), della decadenza del diavolo e della peregrinazione della giraffa, di Candido e di Tarzan. Questa scintillante (e infinita) selezione giustifica quello che scriveva nel gennaio 1950: “Adesso, tuttavia, noi poveri normali vediamo arrivare con soddisfazione l’istante in cui ci sarà permesso, impunemente, di allentare le briglie alla nostra pazzia. Il carnevale ci permetterà di vestirci, di mascherarci nel modo che segretamente abbiamo desiderato durante i giorni normali. Così, vestiti come avremmo voluto esserlo sempre, saremmo stati trasportati in un sanatorio. Adesso no. Forse perché l’esercizio del diritto di essere matti è l’unico che ci permette di sentirci completamente naturali”. Eppure, anche nel suo variopinto balzare da un argomento all’altro, García Márquez non dimentica il ruolo (in qualche modo) istituzionale che occupa e se ne avvede così nel maggio 1950: “L’uomo della strada è, sicuramente, la persona che più preoccupa noi che scriviamo per i quotidiani. L’uomo della strada è uno, molteplice e contraddittorio, e non è solo d’accordo o in disaccordo, al contempo, su una stessa cosa, ma discute pure rabbiosamente con se stesso senza mai arrivare a una conclusione definitiva”. È un dato di fatto che costringe García Márquez a valutare in modo diverso la prolificità della usa rubrica rendendosi ben presto conto che “l’opinione pubblica, secondo l’opinione generale, è una signora che trascorre il tempo a dire qualcosa, pensando qualcosa di qualcosa, nella maggior parte dei casi, molto di niente o niente di molto, e il cui unico svago consueto consiste nel decifrare gli innumerevoli cruciverba oziosi che le offrono i quotidiani”. La grandiosità degli Scritti costieri 1948-1952 è anche il loro limite intrinseco nell’imprigionarlo in uno spazio e in una condizione che, per quanto soddisfacenti, non erano nemmeno lontanamente sufficienti per García Márquez. Quando per motivi famigliari si deve allontanare dalla rubrica, il caporedattore (e a sua volta scrittore) Héctor Rojas Herazo lo descrive così: “La temporanea assenza di García Márquez dalla sua incombenza quotidiana apre un vuoto fraterno in questa casa. Ogni giorno, la sua prosa trasparente, esatta, nervosa, si affacciava sul quotidiano trascorrere degli eventi. Sapeva, dall’eterogeneo cumulo di notizie, selezionare con l’innata eleganza del giornalista di razza quelle che, in basse alle loro possibili suggestioni, potevano offrire il miglior nutrimento ai lettori mattutini. Il suo stile si è imposto con rapidità nel nostro ambiente. A tal fine, possiede cultura e buon gusto, capacità veramente esemplari, grazie alla sua attività di scrittore di racconti e romanzi”. Ne stava già parlando al futuro.

lunedì 21 maggio 2018

Bernardo Atxaga

Fernando si sente diverso dagli altri bambini e un pomeriggio in riva al fiume, dove è andato a pescare le trote, vede arrivare la madre di un suo coetaneo, Raúl, accompagnata da Moro, un doberman. Se la immagina “completamente nuda”, la invita a fare il bagno e per tutta risposta lei se ne va. La rarefatta sensualità di quell’ incontro, che rimane (va da sé) inespressa è l’elemento da cui si moltiplicano e si sommano le vicende dei Sei soldati. Il primo incrocio di Fernando con gli altri personaggi avviene sul treno che li porta a destinazione per il servizio militare. Sono passati parecchi anni e, nello stesso scompartimento, Raúl nemmeno riconosce Fernando che nella sua solitudine ha sviluppato una personalità contorta, tanto da accorgerci che   “talvolta penso che una delle caratteristiche che mi distingue dagli altri è il modo in cui funziona la mia testa. Per dirla in breve, la mia testa va da sola, indipendentemente dalla mia volontà e spesso stento a capire dove vuole arrivare”. Fernando segue Raúl come ultima connessione con il suo sogno erotico dell’infanzia, ma non è l’unico ad avere qualcosa da nascondere. Lo stesso Raúl è partito “con una missione specifica da portare a termine” e nello zaino ha “cinquemila volantini che testimoniavano in cifre la corruzione esistente nell’esercito”. Un bel modo di presentarsi all’appello. Il periodo della leva, determinato dall’ordine, dalla disciplina (ma anche dalla protervia e dall’insipienza dei superiori) comprime le personalità facendone emergere le sporgenze, ed ecco che tra i Sei soldati si sviluppa una rete di tensioni tutte da esplorare. Bernardo Atxaga le tratteggia con rapide pennellate, pochi tratti e un linguaggio limpido, vispo e per certi versi anche allegro. Un tono che resta inalterato per tutto il corso del racconto ed è la caratteristica memorabile di Sei soldati. Arrivati in caserma, per sfuggire alle ritorsioni della perquisizione, Raúl nasconde i volantini pacifisti e antimilitaristi nell’armadietto di Zanguitu. Di origine contadine, è stato un compagno di viaggio carico di cibo e di silenzi che viene subito arrestato e incarcerato. Attorno alla prigionia, allietata dalla benevolenza di un sergente (Valverde) che è un custode sui generis, si sviluppa tutto il resto del racconto. Dietro le sbarre appare Eliseo detto Uccellino (nomignolo che deriva da una storia che scorre parallela e che l’ha portato in galera), il compagno di cella di Zanguitu che lo convince a collaborare con Galeano alias Mendoza e poi con Carlo (il sesto e ultimo protagonista) a scoprire la “serpe”. Gli ufficiali sono infatti sulle tracce di un soldato che sta collezionando una lunga scia di furti, falsi, truffe e stupri nelle piscine pubbliche. La vita militare li fa incontrare tutti, ognuno con il proprio fardello e la propria diversità e l’intreccio si snoda un po’ casuale e un po’ ordito con molta grazia da Bernardo Atxaga che confeziona un breve racconto in perfetto equilibrio tra la mezza dozzina di diverse prospettive dei personaggi e la trama lasciata scorrere in libertà proprio come il fiume che introduce la storia dei Sei soldati così come la sigilla alla fine.

giovedì 17 maggio 2018

Geoff Dyer

Quando ha intrapreso lo spericolato viaggio che l’ha portato a Natura morta con custodia di sax, Geoff Dyer ammise di trovarsi “in una posizione di notevole vantaggio perché ero costretto a improvvisare”. L’aderenza allo stile e all’essenza delle storie che andava scoprendo si è rivelata via via nella scelta di forme insolite e sfuggenti del racconto, ma anche nel lasciarsi andare verso ricostruzioni molto “free”. Natura morta con custodia di sax è un modo scaltro e brillante di leggere il jazz facendo attenzione alle singole personalità, che poi sono caratteristiche di un mood, di uno stile, di una vita. I protagonisti sono proprio loro, i musicisti, che Geoff Dyer ritrae attraverso una lente bifocale, un po’ dentro e un po’ fuori, tutti avvolti e connessi nel racconto on the road di Harry Carney, trombonista e autista di Duke Ellington, che funziona da anfitrione e compagno di viaggio: “Il carburatore è a posto, l’olio pure: quest’auto non ha bisogno di niente. Ha solo bisogno della strada”. Come se fosse rimasto incantato dal potere e dall’atmosfera delle fotografie, non meno della musica, il lavoro di Geoff Dyer è un passionale raccolto della wildlife dei jazzisti, a partire da una scelta tra i più tormentati, rissosi, irascibili, incontrollabili: Lester Young (“Suonava come se fosse lì lì per mollare tutto, pur sapendo che non l’avrebbe mai fatto: ecco da dove veniva la tensione”), Thelonious Monk (“Gli piaceva essere riconosciuto: non era tanto il sentirsi famoso, quanto un modo di allargare la sua casa”), Ben Webster (“Si portava dietro la solitudine come la custodia di uno strumento. Non se ne staccava mai”), Charles Mingus (“Non sapeva perché fosse fatto a quel modo, ma sapeva che doveva essere così e non altrimenti”) e poi Bud Powell, Chet Baker, Art Pepper, nonché Duke Ellington: “Era difficile che la musica gli venisse in mente già come musica. Tutto cominciava con uno stato d’animo, un’impressione, qualcosa che aveva visto o sentito e che soltanto dopo lui traduceva in melodia”. A grandi linee, è lo stesso processo processo che segue Geoff Dyer: riesce a reggere l’equilibrio tra la fiction, la ricostruzione storica e (persino) un po’ di critica musicale, proprio grazie alle caratteristiche dei protagonisti, ma anche alla curiosa forma, molto accattivante del libro in sé. Natura morta con custodia sax celebra la leggenda sporcandosi le mani, togliendo quell’alone di polvere e quella patina di intoccabilità ai jazzisti, rendendoli più umani, sofferenze, dolori e follie comprese nella giusta convinzione che “nel jazz le emozioni bisogna guadagnarsele perché è difficile suonare il sassofono con la tenerezza, continuare a tenere il ritmo e insieme strappare lacrime dal cuore. Sono emozioni che si pagano di persona: chi conosce la storia della musica sa cosa vuol dire”. Anche su questo non si è sbagliato: la struttura è molto libera e l’impasto delle voci che si sovrappongono a quella di Geoff Dyer tradisce una passione non comune e fa di Natura morta con custodia di sax un biglietto di sola andata per uno  “stato costituzionalmente psicopatico, manifestantesi attraverso dipendenza da sostanze stupefacenti (canapa indiana, barbiturici), alcolismo cronico e tendenza a vivere senza fissa dimora… Problema puramente disciplinare”. In altre parole: jazz.

lunedì 7 maggio 2018

Maajid Nawaz

Giovane ribelle e writer che cresce nelle strade di Southend, nell’Essex, ascoltando rap, poi affiliato a un’organizzazione islamista, imprigionato in Egitto e infine paladino dei diritti civili, l’ordalia di Maajid Nawaz incorpora molte contraddizioni e si dipana attraverso tre fasi ben distinte eppure congruenti, che si alimentano l’una con l’altra. Lo sradicamento è la componente del primo passaggio, un percorso difficile che Maajid Nawaz deve vivere in una Gran Bretagna che, come la descriveva Salman Rushdie in Patrie immaginarie, “è oggi costituita da due mondi totalmente differenti e quello in cui abiti dipende dal colore della tua pelle”. Dalle offese verbali agli scontri fisici fino all’indifferenza delle istituzioni, l’adolescenza di Maajid Nawaz è una lotta quotidiana sullo sfondo di un incubo ballardiano: “Se non hai provato la paura e l’impotenza che ti fa provare il razzismo violento e organizzato, è difficile capire. Tutto il tuo corpo, per via del colore della pelle, è un bersaglio mobile. E non puoi uscire dalla tua pelle, o far finta che non esista”. Non sorprende che Maajid Nawaz giunga alle stesse conclusioni di Ta-Nehisi Coates (sull’altra sponda dell’Atlantico). Come lui ascoltava Fuck Tha Police dei N.W.A. e spiegava che “la nostra stessa terminologia, relazioni di razza, divario tra razze, giustizia razziale, profili razziali, privilegio bianco, persino supremazia bianca, serve a offuscare il fatto che il razzismo è un’esperienza viscerale, che stacca pezzi di cervello, blocca vie respiratorie, strappa muscoli, estrae organi, spacca ossa, rompe denti. Non devi mai distogliere lo sguardo. Devi ricordare sempre che la sociologia, la storia, l’economia, i grafici, le carte, l’analisi delle regressioni, tutto questo atterra, con grande violenza, sul corpo”. La risposta a questa brutale negazione dell’essenza della vita è la radicalizzazione che Maajid Nawaz insiste nell’identificare come conseguenza diretta e inevitabile dello sradicamento e del razzismo. Anche per quello che è “un problema di rispetto” (e in fondo è tutto lì), Maajid Nawaz aderisce a un gruppo che come obiettivo ultimo ha il ritorno al califfato e ne diventa uno dei principali promotori: in questi frangenti Radical affronta con dovizia di particolari e con una ricchezza di aneddoti la ricchezza e la complessità di un mondo (quello islamico) per  molti ancora indecifrabile. Reso miope dall’entusiasmo, se non proprio dal fanatismo, Maajid Nawaz cerca di tessere una serie di rapporti, ma dall’11 settembre 2001, lo stato di guerra ha ridotto in modo sensibile l’idea stessa dei diritti civili. Quando si trasferisce ad Alessandria (con moglie e figlio) viene arrestato perché se l’organizzazione fondamentalista di cui fa parte è ancora legale in Gran Bretagna, in Egitto è bandita, anche perché ritenuta responsabile dell’assassinio di Sadat. Incarcerato senza alcuna procedura formale, durante la detenzione in Egitto, che sembra uno spezzone tratto da Il libro del buio di Tahar Ben Jelloun, Maajid Nawaz scopre che “è molto più semplice essere crudeli ed egoisti se si è immersi in un’illusione di arroganza e superiorità, che sia religiosa e politica”. Lo vivrà anche nei risvolti autobiografici (la separazione dalla moglie, i contrasti con la madre), una volta liberato e tornato a Londra, per arrivare a capire, tra le conclusioni, che “ci è voluto del tempo per risolvere molti dei pressanti interrogativi posti dalle questioni identitarie in un mondo globalizzato come il nostro. All’inizio, ritirarsi nell’identità di gruppo può essere uno strumento per combattere la discriminazione legale e istituzionale. Però, al di là delle leggi, arriva un momento in cui le divisioni di classe, economiche e culturali, possono essere superate solo puntando sulla reciproca integrazione e sulla partecipazione di tutti nella società”. È l’ultima parte, quella tesa a rivendicare una ragionevole forma di convivenza, dai contorni più umani, e non stupisce che sia la più difficile: quello che insegna Radical, una volta di più, è che la democrazia resta un’imperfezione tanto meravigliosa  quanto fragile.