lunedì 5 dicembre 2022

Anna Kańtoch

La protagonista di Buio è una donna che comprende molto bene la condizione aggrovigliata dei suoi pensieri: “Noi sembriamo tutti un po’ fuori luogo, sempre un po’ maldestri, sudaticci e trasandati, è già un po’ che ho capito che si può riconoscere da queste cose. Invece loro, gli altri, emanano sempre una pittoresca eccellenza, come se sbucassero dallo schermo del cinema”. Personaggi, interpreti, ed è già una separazione nitida, frutto di una consapevolezza sorprendente, che si manifesta approfondendo la distinzione con il resto del mondo, quello che si presume viva nella normalità: “Hanno avuto bisogno di una forma, che gli abbiamo dato noi, e loro ci hanno costruito dentro qualcosa che noi non potremo mai comprendere”. Questa presa di posizione si applica alla perfezione al fratello Franciszek e alla moglie Wanda che la ospitano, dopo la sua degenza in una clinica per disturbi mentali, ma che sono assenti e freddi. Lei, senza nome e con una fragile identità, deve accontentarsi: “Sto vivendo come gli altri, senza pensare di essere così diversa, ma ho visto quel che ho visto”. Seguirla ne Buio significa affondare nelle ombre dell’infanzia: “Quanti ricordi. Il passato non mi è mai vicino, ma ora ce l’ho qui a portata di mano, bisogna solo volerlo vedere. È come togliere la luna dal cielo, c’è solo da diventare di nuovo bambini e credere di poterci riuscire”. È  lì che si sdoppia perché a sua volta Buio è un luogo nella Pomerania, ma è anche una meta irraggiungibile della mente dove può succedere di tutto, anche la ricomposizione di un delitto, di una tragedia, di un mistero: “Mi volto verso un’eco di passi leggeri. Dietro di me ci sono io bambina, col mio vestito estivo, i piedi scalzi sporchi di fango e aghi nel bosco”. Nel Buio, i segreti si incrociano attorno a Jadwiga Rathe e alla sua inspiegabile fine. Essendo un’attrice shakespeariana, viene spontaneo pensare all’Enrico IV quando si dice che “i pensieri, schiavi della vita, e la vita, pagliaccio del tempo, e il tempo, che contiene tutto il mondo, devono fermarsi”. Sarebbe l’ideale, ma gli elementi naturali e soprannaturali formano l’ibrido vischioso in cui il doppelgänger della protagonista si muove in cerca del suo destino. Buio diventa davvero nebbia e tenebra ed è rivelatore l’inserimento degli amati versi tratti da Calamus, una delle sezioni più intense delle Foglie d’erba di Walt Whitman. La stessa origine del titolo, che riprende il nome di una pianta aromatica che ha il suo habitat nelle paludi e l’essenza colma di contraddizioni, si associa ai contrasti tra le luci (lontane) di Varsavia e le foreste impenetrabili, le visioni oniriche e le asperità terrene, due guerre mondiali (è il 1935, ma c’è un continuo feedback temporale verso il 1914), altrettante invasioni (quella nazista prima e quella sovietica poi) che si affastellano tra passato e futuro. Nel Buio è tutto doppio e il senso di Anna Kańtoch per il tempo fluttua avanti e indietro assecondando gli estremi e affrontando un livello dopo l’altro inoltrandosi in aree oscure dove la psicologia è appena sufficiente a definire un campo d’indagine, di sicuro abbastanza complesso da richiedere ben altre misure. Un corto circuito tra l’infanzia e l’incombenza dell’età adulta (“La cosa più importante è che quanto più sbiadiscono i ricordi adulti, tanto più vividi si fanno i ricordi dell’infanzia”), ha bisogno di un altro tipo di presenza, e di coscienza. Questa è la frattura che Buio prova a comporre, la distanza che bisogna compiere dato che “l’essere adulti dev’essere proprio questo, un tocco freddo e liscio, che attira e terrorizza al contempo”. La scrittura di Anna Kańtoch è acido sul velluto, la carezza di un fantasma che lascia brividi di gelo, un volto deformato da un specchio, un silenzio pieno di enigmi perché “è proprio questo il nostro problema, non possiamo fidarci di ciò che sentiamo o vediamo”. Si chiama sensibilità, ma il più delle volte è considerata una malattia.

martedì 25 ottobre 2022

J. G. Ballard

I miracoli della vita avvengono in un arco temporale e spaziale che comincia e finisce a Shangai, dove Ballard è nato e cresciuto. È lì che comincia tutto ed è chiaro fin dall’inizio: “Il mio coinvolgimento con la scrittura risale alla mia infanzia, verso la fine degli anni trenta, e fu forse una risposta alla grande tensione che sentivo fra gli adulti in mezzo a cui vivevo”. A Shangai, come spiega Ballard, “tutto era possibile, e si poteva vendere e comprare qualsiasi cosa. In un certo senso, si potrebbe dire che era un set cinematografico, ma quel tempo a me pareva reale, e io credo che una buona parte della mia narrativa sia stata un tentativo di evocare quell’atmosfera in un modo diverso dal semplice ricordo”. Tra I miracoli della vita, rientrano, nella prima e più consistente parte, la descrizione dei famigliari, appartenenti allo stesso secolo, ma a un’altra epoca, l’infanzia nel campo di prigionia di Lunghua e le prime associazioni letterarie con Hemingway e Steinbeck, scoperti grazie ai soldati americani. Tutti elementi che conducono Ballard alla considerazione che “a Shangai il fantastico, che per la maggior parte delle persone sta dentro alla propria testa, per me stava fuori, lo vedevo ovunque mi giravo, e adesso penso che lo sforzo principale che facevo da ragazzo fosse quello di cercare, in tutta quella finzione, la realtà. Ma in qualche modo continuai a farlo anche quando, dopo la guerra, arrivai in Inghilterra, in un mondo che era quasi troppo reale. Da scrittore, ho trattato l’Inghilterra come se fosse una strana finzione, e il mio compito era quello di tirarne fuori la verità, come la mia controparte da bambino faceva con le guardie d’onore fatte di gobbi e i templi senza porte”. C’è un intervallo importante, quando Ballard si arruola nella Royal Air Force e viene trasferito in Canada per l’addestramento. Nel bel mezzo del nulla, una prima, fondamentale epifania: “Interiorizzavo la fantascienza, cercando la patologia che stava alla base della società dei consumi, del paesaggio televisivo e della corsa all’armamento nucleare, un vasto e inesplorato continente di possibilità narrative”. Nel tratto autobiografico il tono e la forma sono molto più lineari che nei romanzi e sono anche più sciolti, quasi colloquiali, persino generosi nel descrivere le sue sensazioni. Lo shock del ritorno a Londra lo spinge a convincersi a “diventare uno scrittore specializzato nel prevedere e, se possibile, provocare il cambiamento. Il cambiamento, pensavo, era ciò di cui l’Inghilterra aveva disperatamente bisogno: lo penso ancora adesso”. È una percezione acuta, che si distinguerà in tutta la sua narrativa: “Il cambiamento era nell’aria e influenzava, nel bene e nel male, la psicologia della nazione. Il cambiamento era ciò di cui scrivevo, soprattutto le tendenze più riposte dei mutamenti che già cominciavano a rivelarsi nel comportamento della gente. Persuasori invisibili stavano manipolando la politica e i mercati del consumo, influenzando abitudini e presupposti in un modo che ancora pochi comprendevano”. Detto questo trovano rilevanza la formazione letteraria, compresa l’importanza di Freud, i legami con Michael Moorcock, Kingsley Amis, Eduardo Paolozzi e Chris Evans, la perdita della moglie e il rapporto con i figli, e, dettaglio non trascurabile, i due anni a studiare anatomia “tra i più importanti della mia vita”. La conseguenza diretta è che La mostra delle atrocità e Crash sono i titoli più in evidenza tra I miracoli della vita e L’impero del sole è un ricordo che non muore mai come lo stesso Ballard suggerisce, concludendo che “per certi versi tutta la mia narrativa è la dissezione di una patologia profonda di cui fui testimone a Shangai, e poi nel mondo postbellico, dalla minaccia di guerra nucleare all’assassinio del presidente Kennedy, dalla morte di mia moglie alla violenza che ha puntellato la cultura dell’intrattenimento negli ultimi decenni del secolo. Ma può essere anche che quei due anni nell’aula di dissezione fossero un modo inconscio, per me, di mantenere viva Shangai con altri mezzi”. L’ammissione trasforma I miracoli della vita in una specie di testamento spirituale che Ballard rende esplicito quando dice: “Mi ero arrampicato sino a un miraggio, avevo accettato che, a modo suo, esso fosse reale, poi ci ero passato in mezzo ed ero uscito dalla parte opposta”. Lucidissimo, fino alla fine.

domenica 23 ottobre 2022

Abdourahman A. Waberi

“Tutti gli inizi sono poetici, il seguito già meno” scrive Abdourahman A. Waberi al centro di questa intensa polifonia della guerra e dell’esilio, due ferite che, nei secoli, hanno sottolineato a lungo la vita dell’Africa. Bisogna proprio addentrarsi in Transit per comprendere fino in fondo la sua intuizione, che è anche una lettura specifica del titolo. Il luogo d’elezione (e di partenza) del romanzo è Gibuti, una vastità di deserto che si affaccia sull’oceano, ma i protagonisti invisibili di Transit (Bashir e Harbi) si ritrovano nella terra di nessuno dell’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi. Dall’incontro fortuito e del tutto casuale (i due in comune hanno soltanto la vaga cognizione dei profughi e l’amarezza dell’esodo) si dipanano e si intrecciano le reciproche storie, che affondano tanto nella drammatica realtà dell’Africa in fuga quanto nelle radici della cultura orale e nomade. Per entrambi l’unica consapevolezza è che “ora come ora siamo in sospeso su questa terra senz’altra promessa che quella dell’umiliazione, in compagnia di tutti gli altri rifiuti del pianeta, allo stesso tempo carnefici, vittime e testimoni”. Nella condizione estrema di passaggio si accorgono che “siamo e rimaniamo in definitiva dei granelli di sabbia arenati nel deserto di un altro. Nessuno che ci insegua e nessun segno di ospitalità all’orizzonte. Non abbiamo nemmeno più le nostre stuoie sulle quali dormivamo dopo aver sollevato il telo che funge da parete divisoria tra l’angolo dei bambini e quello dei genitori. Ci siamo lasciati dietro di noi le nostre storie, le nostre melodie, i nostri testi di magia e i nostri antenati. Il pericolo che incombe su di noi è questo: se si vive esclusivamente nel presente si rischia di essere sepolti con il presente”. Abdourahman A. Waberi realizza così un romanzo a più e più voci, architettando strutture ardite ma anche estremamente fluide, grazie a una lingua e a un ritmo tambureggiante, che avvince e sorprende: “Tutti quanti si stordiscono di dicerie, dicono: sì sì ci vendicheremo questa volta qui, per non pensare ai loro guai. Le nostre pance sprigionano un rumore d’acqua in piena, un rumore di torrente che scorre sulle pietre. Come se divorassimo a quattro palmenti il mango amaro che fa schifo persino agli insetti e alle formiche”. Transit offre uno sguardo privo di retorica, denso di argomenti, con un taglio narrativo fresco e a tratti sorprendente sommando le forme ancestrali di racconto (“Tutti questi sortilegi si agitano nella bocca dei nostri cantori, i barometri dell’opinione pubblica che temono il silenzio del corpo. La lingua del fantastico li spinge a spiegare i misteri nascosti della natura e dell’umanità riunite”) a cui si alterna la musica occidentale, dal blues al rock’n’roll. Lungo queste particolari vie dei canti il tormento del conflitto, l’anelito all’indipendenza (“Non dimentichiamo che noi non abbiamo mai accettato la dominazione del colonialista. Anche davanti al fatto compiuto e alla legge del più forte, noi resistevamo in sordina, in segreto”), la mera sopravvivenza si legano alla memoria è non è un caso che il più giovane tra i personaggi di Transit, Abdo-Julien, affermi: “Gli erranti, gli apolidi, che sono i veri e propri creatori, come i nomadi del deserto, servono solo a una cosa almeno quaggiù in terra. Sono le nostre guide, di questo il nonno è convinto, quelle che ci indicano i sentieri da percorrere per la traversata dell’esistenza. Ci raccontano inoltre, e con innumerevoli dettagli, il loro carosello affettivo”. È così Abdourahman A. Waberi ritrova “il potere di trasformare in parole il canto più profondo della terra, diffidando degli spiccioli di parole di tutti i giorni” e permeando Transit di una forza inequivocabile.

martedì 18 ottobre 2022

Alfred Kubin

Sollecitato dal ricordo di un vecchio compagno di scuola, il protagonista che narra le vicissitudini e le avventure verso L’altra parte, convince la moglie ad accettare l’invito a traslocare da Monaco al Regno del Sogno, un luogo dove “c’è tutto ciò che occorre”, retto dalla convinzione che “non c’è nulla che valga più di una vita semplice e ordinata”. Il viaggio attraverso la Germania porta verso una sorta di città-stato, costruita per isolarsi dal resto del mondo, popolata da “una quantità di persone cui un tenebroso destino aveva conferito un’impronta singolare”. All’inizio è tutto facile, nonostante Perla sia “un’unità inafferrabile”, colma di stranezze, al punto che nella sua quotidianità“ci si abituava talmente alle cose più inverosimili, che si finiva per non accorgersene più” e, di conseguenza, “se si aveva il proprio posticino ben riparato, ci si arrendeva rassegnati al nuovo destino”. Non è molto, rispetto all’illusione iniziale: nel Regno del Sogno, dove tutto è opaco, “le notti erano soffuse da una strana luce crepuscolare che offuscava ogni cosa”, ma questa sensazione di indeterminatezza è continua e palpabile, persino nell’atmosfera “c’era sempre quella sostanza indefinibile, la si fiutava e si finiva per sentirla con tutto il corpo. Di giorno nessuno ammetteva di aver visto qualcosa, la città era come al solito morta, vuota, inerte”. La scoperta si fa angosciante: ben lungi dall’essere un’area vitale, men che meno l’ideale “rifugio per gli insoddisfatti della civiltà moderna”, L’altra parte sperimentata di persona, così come è narrata da Alfred Kubin, è cupa e fluttuante: è una dimensione parallela composta da un misterioso intersecarsi di condizioni e posizioni sfuggenti, prima tra tutti quella impersonata dal fondatore, padre e sovrano indiscusso. Claus Patera è una figura mefistofelica, nella dimensione del Regno del Sogno, che coincide in gran parte con la sua personalità oscura e ambigua. Quando irrompe l’avventuriero americano, Hercules Bell, la costituzione di Perla si rivela fragile e vacua e il suo equilibrio è destinato ad andare in frantumi. Una catastrofe apocalittica e il protagonista si ritrova prigioniero dei sogni, mentre Perla è sprofondata in un abisso da incubo, fatto di guerra e distruzione. La “disgregazione” del Regno del Sogno è un effetto potente che trasporta il romanzo dritto nel caso. Un’epidemia di sonnolenza, la guerra tra Bell, spinto da quello che viene chiamato “l’audace spirito di iniziativa dell’America” e Patera, ormai interprete unico della decadenza della propria creatura, conduce Perla alla dissoluzione al punto che viene travolta da un’invasione degli animali, e da lì in poi da un turbine di presagi, presentimenti e simbolismi che rendono i resti del Regno del sogno via via più criptici e turbolenti, per lunghi tratti claustrofobici e opprimenti. Scritto in modo febbrile, visionario e senza dubbio profetico, L’altra parte di Alfred Kubin anticipa molti temi kafkiani, con una scrittura istintiva, densa di riferimenti mitteleuropei e con lo stile proprio dell’outsider, ma in prospettiva è inevitabile riflettere sulle sue percezioni apocalittiche all’inizio del ventesimo secolo, che poi si riveleranno in tutta la loro atroce realtà.

giovedì 15 settembre 2022

Clarissa Goenawan

Miwako Sumida nasconde un segreto, forse più di uno, e non è l’unica. Come se avesse delle doti particolari in ogni incontro scatena qualcosa di indecifrabile, nonostante la gentilezza, la discrezione e l’ospitalità implicite nelle tradizioni culturali giapponesi. Dentro questa cornice formale però si annidano spaccature e conflitti, sotterfugi e rivelazioni, fughe ed errori. Il fatto è che Mikado Sumida ha paura dell’amore, ed è più che giustificata, come si scoprirà poi. La sua personalità è nascosta da una coltre di timidezza, scontrosità e da ragioni tutte sue che diventano una frontiera invalicabile per Ryusei Yanagi, un coetaneo che si innamora e la segue a “piccoli passi” nella speranza di raggiungerla. Si trovano in una libreria dove lei consuma romanzi d’amore, ma la loro storia rimane quasi a livello platonico, e si risolve più in un attrito costante che in un abbraccio. Sono poco più che adolescenti cresciuti soli e troppo in fretta, che la vita scolastica non riesce ad afferrare e che nella famiglia non trovano spazio: nel grande disordine della vita e delle cose, i “bambini trasparenti” diventano esseri randagi come anime erranti, che vagano sullo sfondo di un Giappone leggiadro ed evanescente in cerca di accettazione e di perdono. Non a caso, un ruolo specifico tocca anche a Tama, un gatto girovago che viene adottato dall’elaborato triangolo composto da Miwako, Ryusei e Fumio o Fumi Yanagi.  Così le persone reali (e non) si incontrano, ma è tutto double face: un continuo riversarsi di immagini e tracce, una sopra l’altra, che si manifestano in modi e atmosfere molto distanti. Le luci al neon e la pioggia, un ponte di corda verso una valle e un albero disintegrato da un fulmine, una colazione con “riso al vapore con pesce ayu alla griglia, zuppa di miso, omelette e sottaceti a fette” e un budino di latte, Tokyo in autunno e “un campo di fragole in un tiepido giorno d’estate”, credenze popolari e lettere nascoste, pagine di diario inventate per una rivista letteraria e dolorose confessioni a cuore aperto e a occhi chiusi, appuntamenti al nightclub e pellegrinaggi ai santuari si specchiano nella tormentata caccia all’identità dei protagonisti (a cui va aggiunta anche Chie Ohno). Nel loro battagliare, gli rimane soltanto di ascoltare Henry Wotton quando diceva a Dorian Gray che “la giovinezza è l'unica cosa che vale la pena di avere”, ma Il mondo perfetto di Miwako Sumida la consuma in fretta, spesso in silenzio, come un pasto riscaldato alla fine di un lungo cammino. Avanza giusto quello, e i resti di amicizie fragili e disperate. Le affinità con l’esordio di Rainbirds sono parecchie: porte che si aprono e si chiudono, il contrasto tra l’asettica realtà urbana e quella bucolica del villaggio, gente che scompare e riappare all’improvviso, voci imprigionate nelle conversazioni telefoniche, ma Il mondo perfetto di Miwako Sumida è un origami dei sentimenti e a ogni piega la trama si riflette su se stessa: l’inizio si ritrova alla fine, (di congiunzioni e separazioni è fatto il romanzo) che Clarissa Goenawan racconta con pazienza e con una delicatezza acuta, abrasiva, tagliente, frutto di un grande equilibrio che riesce a contenere simbolismi spettacolari, ombre e fantasmi, prodotti dei sogni e dei ricordi, della morte e di un amore traballante inseguito a testa bassa. Un romanzo singolare, che bisogna leggere una pagina alla volta, tanto è denso, ma che è davvero toccante.

mercoledì 7 settembre 2022

John Le Carré

Gli scenari all’alba del 1991 come cornice sono cambiati in modo radicale. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia portano John Le Carré a identificare nuovi nemici che si annidano nel groviglio di politici, avventurieri e, più di tutti, trafficanti d’armi. Richard Roper li riassume tutti in un solo personaggio, “l’uomo peggiore del mondo”, che ha solide intersezioni con il potere costituito a Londra. È ricchissimo, sfuggente, abile e crudele. Il direttore di notte ovvero Jonathan Pine l’ha incontrato già una volta, al Cairo, quando si era innamorato di Sophie, assassinata dagli amici e colleghi in affari di Roper. Il suo fantasma aleggia in continuazione ed è uno dei motivi, se non l’unico, che porta Jonathan Pine ad accettare un ruolo di primo piano nell’affaire Limpet, una complessa operazione ordita dalle agenzie su entrambe le sponde dell’Atlantico. I particolari che si snodano all’interno del romanzo mostrano che John Le Carré sa districarsi nell’intricato labirinto dei servizi segreti e riesce a renderlo affascinante. Lo stile è avvolgente, con i dialoghi che intrecciano trame su trame, e i dettagli sembrano infilati a sua discrezione, così numerosi e ridondanti, ma leggendoli bene paiono distribuiti secondo uno schema matematico, un raffinato intarsio che sovrintende al caos degli eventi con “un certa drammaticità, un senso più intenso della situazione”. L’operazione Limpet è così vista da due prospettive diverse, quella di Jonathan Pine e delle sue camaleontiche personalità e quella che ruota attorno agli “spiocrati” tra la Londra e gli States che,   seguendo una fitta ragnatela di imperscrutabili ragioni portano a sua volta Jonathan Pine a considerare le manipolazioni della personalità come un’opportunità “perché stava cominciando a capire che nel teatro dov’era entrato un attore poteva interpretare molte parti in un’unica giornata di lavoro”. Infiltratosi, non senza danni, nell’entourage di Roper, che occupa un’intera isola nei Caraibi, Jonathan Pine aggiunge, un’altra volta, motivi del tutto personali alla sua missione: al fantasma di Sophie, si sovrappone il fascino di Jemina alias Jeds (anche i nomi sono doppi), la tormentata fidanzata del capo, a cui non sa proprio resistere. Le pagine rimbalzano e si specchiano tra le contorte manovre nei corridoi governativi londinesi e le lussureggianti residenze di Roper, tra guardie del corpo e intermediari, corrotti e corruttori, manovre e sotterfugi. Sapendo che “il tempo è attenzione. Il tempo è innocenza”, John Le Carré non si preoccupa più del tanto di condividere le coerenze formali, per quanto lo stile sia preciso e puntuale. Piuttosto, pare più attento all’urgenza della storia in sé, al suo sviluppo, alle contorsioni dei personaggi (e vale la pena, tra gli altri, di riconoscere almeno il maggiore Corkoran, il luogotenente di Roper), e a ricordare, come dice Roper che tutto “questo non è un crimine. È politica. Non ha senso sentirsi superiori. Il mondo va così”. Non fa una piega: era la verità durante la guerra fredda, così come trent’anni fa: gli eventi bellici del Golfo, che all’epoca inaugurava il crepuscolo del ventesimo secolo, spalancava le porte a una folle proliferazione di armi, e se proprio bisogna aggiungere qualcosa che non è mai cambiato in tutto questo tempo è, come dice lo stesso Le Carré, introducendo Il direttore di notte, che “nessuno parla delle vittime”, ed è vero anche quello.

mercoledì 10 agosto 2022

Derek Jarman

Se Chroma era e resta un lascito etico ed estetico, Testamento di un santo è l’eredità di quell’idea che “fosse possibile produrre un cambiamento con azioni individuali, senza legarsi a un progetto politico convenzionale”. Si tratta di “parole coraggiose” e Derek Jarman è candido nelle sue ammissioni, non nasconde nulla (ma proprio nulla): esplicito e sferzante, Testamento di un santo è una somma di appunti che sono “una serie di introduzioni a questioni e cose da fare incomplete. Come la memoria, ha buchi, amnesie, schegge di passato, un presente frammentario. A quelli che non l’hanno vissuto, tutto ciò che potrebbe sembrare poco chiaro; quelli di noi che lo stanno vivendo riconosceranno le tracce”. Una rivisitazione urticante che tocca nervi ancora scoperti e che permette di mettere in discussione le costruzioni della società, le posizioni acquisite e inderogabili delle istituzioni e la moderazione noiosa dei benpensanti. Come dice Derek Jarman, “noi passavamo il nostro tempo a disfarci di paure e paranoie e loro passavano il loro tempo a procurarsele, chiunque loro fossero”. È un conflitto che comincia prestissimo e che viene riportato nelle pagine di Testamento di un santo in cui sembra di leggere un diario, ancora vividissimo: “Ero giovane e insicuro. Potevo essere bello e attraente ma non amavo me stesso. Provenivo da un collegio dove ero stato angariato. Questo mi rese riservato. Cercai di ripararmi, costruii difese contro il mondo. Credo che non riuscirò mai a liberarmene”. Nelle strade di Londra, la “lotta per scoprire chi sei” è una questione di sopravvivenza perché, grazie e una moralità avvizzita e ipocrita, “l’amore era un crimine peggiore del sesso”. La testimonianza di Derek Jarman si fa via via lapidaria: “Ho vissuto in questo paese per cinquant’anni discriminato, circondato dall’odio; per ignorarlo mi sono isolato, ho cambiato in modo sottile la mia vita. Nessuno è un’isola, ma tutti si sono creati la propria isola personale per far fronte al pregiudizio e alla censura. Il tempo delle buone maniere dovette finire”. Una convinzione che non si è mai piegata: “La battaglia consiste nell’immaginare una generazione, ciò che viene preso dal passato e come gli si dà corpo, che cosa è promosso e che cosa non lo è”. Con la sensazione, crudele e concreta, di avere una data di scadenza, Derek Jarman diceva: “Guardavo la vita scorrere, la gente che si innamorava, e io non facevo più parte di tutto questo. Vivevo in un’altra terra, una no-man’s land. Furono anni duri, quelli”. Il picco simbolico fu probabilmente l’emanazione Clausola 28 di Margaret Thatcher, una delle leggi più omofobe di sempre, e allora scorrono fotogrammi di un’epoca spietata dove, ricorda ancora Derek Jarman, “tutti noi abbiamo dovuto combattere con la mancanza di comprensione; abbiamo dovuto vivere sotto una grande nuvola scura di censura e ignoranza. Siamo spaventati da voi, da noi stessi e dal virus”. L’AIDS è il vero convitato di pietra nel Testamento di un santo al punto che Derek Jarman dice: “Non augurerei a nessuno gli Ottanta, sono stati anni in cui tutto il marcio saliva spumeggiando alla superficie. Se non rientravi tra gli oggetti di questo caos, potevi anche non accorgertene. Era infatti possibile sopravvivere al decennio preoccupandosi solo dell’ipoteca e dei soldi risparmiati sulle tasse. Era anche possibile, per quelli di noi che video cosa stava accadendo, girare gli occhi dall’altra parte”. Prende così forma un manifesto d’intenti che si srotola con una partecipazione assoluta e, come spiega lo stesso Derek Jarman, “questo è il motivo per cui c’è tanto sesso in questo libro, perché è quello di cui nessuno ha voglia di discutere. È importante per noi parlare di sesso, per definire noi stessi in un mondo che non ha mai parlato di noi e neppure ci ha permesso di farlo. Chi non riesce a capirlo, è proprio stupido. Quando cominci a parlarne, ti senti vivo. Se vivi nel terrore psicologico, che patti puoi fare con i tuoi oppressori? Ho ragione a vederla così, perché così le cose funzionavano e funzionano; ma diverso è il modo in cui le ho raccontate”. Intimo, doloroso, personale eppure universale, Testamento di un santo vale anche come monito a chi crede che “le libertà elementari dell’individuo”, a partire dall’espressione della sessualità, si possano difendere per legge.

mercoledì 20 luglio 2022

J. G. Ballard

Tra la Western Avenue e le derivazioni della M4, l’autostrada che porta l’aeroporto di Heathrow, le direzioni di viaggio si confondono, Londra resta un agglomerato indefinito alle spalle dove “il matrimonio tra ragione e incubo” viene celebrato in un’esplosione di luci abbagliante. Appena fuori dal perimetro invisibile della metropoli, nel rapido flusso degli automezzi e degli aerei “l’enorme energia del ventesimo secolo, sufficiente a spingere il pianeta in una nuova orbita attorno a un astro più felice, veniva così spesa per mantenere quell’immensa pausa immota”. Lo spazio, la velocità, il tempo sospeso tra un guard rail e l’altro, conducono Crash in una continua triangolazione tra l’architettura dei collegamenti suburbani e le curve degli accoppiamenti: Robert Vaughan, che è un “angelo ossessivo delle superstrade” e lo stesso Ballard, che si presta come personaggio nel riflesso del protagonista, inseguono frammenti di vita e di morte sull’asfalto, coinvolgendo Catherine, Renata, Helen, Gabrielle nonché Liz Taylor. Nel vortice senza tregua di acrobazie erotiche e lamiere contorte, le immagini di Crash fluttuano come “un’emorragia del sole”. L’indifferenza di Vaughan alle fatali conseguenze di atti di insensata logica costringono Ballard ad ammettere che “i suoi atti di violenza erano ormai diventati tanto imprevedibilmente casuali da lasciarmi in pratica nella condizione di spettatore prigioniero e nulla più”. La constatazione, poco amichevole, è che “viviamo in un mondo quasi infantile, nel quale può trovare istantanea soddisfazione ogni domanda, ogni possibilità, si tratti di stili di vita, di viaggi, o di ruoli e identità sessuali”. Si tratta di “un sistema di ammiccante violenza ed eccitazione”, dove l’immaginazione è costretta dentro uno schermo,  uno specchio, un obiettivo e la realtà, come disse Ballard in un’intervista, si presenta come “un mondo transitorio”, un prodotto della “dipartita della facoltà emotiva” che Crash sublima con una scrittura chirurgica e spietata: collisioni e amplessi sono visti attraverso una lente maniacale con ogni particolare che diventa a sua volta un disturbante diversivo per evidenziare il “reame di violenza e tecnologia” in cui proliferano i cervelli di Ballard e Vaughan. Non è facile capire chi è l’alter ego di chi: Ballard si accorge che “per la prima volta una psicopatologia benevola ci chiamava ammiccando: una psicopatologia che aveva il suo tempio nelle decine di migliaia di veicoli in movimento sulle autostrade, nei giganteschi reattori di linea in volo sopra le nostre teste, nelle più umili strutture stampate e nei più umili laminati commerciali”. È come entrare in un raccordo autostradale senza uscite, un labirinto di allucinazioni, che si moltiplicano all’infinito tra profili meccanici e membra umane. Ballard è un voyeur che va oltre il voyeur: indaga il corpo e l’automobile, le espressioni e i bersagli principali della pubblicità, e non a caso sia lui che Vaughan sono ingranaggi nei meccanismi perversi della televisione. Nel dissezionare “queste potenti fusioni di finzione e realtà”, Ballard richiama Kennedy, Picasso, Camus, convitati a concepire un romanzo come “una metafora estrema per una situazione estrema, un corredo di misure disperate cui ricorrere solo in momenti di crisi estrema”. Crash è un “trauma di sogni” ed è un romanzo spietato e compulsivo che legge dentro e attraverso i nostri tempi, anche a distanza di mezzo secolo, perché come ha detto Ballard, noi esseri umani “abbiamo un immaginario molto più cupo di quanto ci piaccia pensare. Siamo retti dalla ragione e dal tornaconto personale, ma solo quando essere razionali ci conviene, e per buona parte del nostro tempo scegliamo di essere intrattenuti da film, romanzi e fumetti che dispiegano un livello di crudeltà e violenza davvero impensabile”. Uno straordinario sguardo nell’oscurità del futuro e di sempre.

giovedì 14 luglio 2022

Simon Critchley

Quando Nerone ordina a Seneca di togliersi la vita, si manifesta platealmente quel conflitto tra autorità e libertà che si esprime nella violenza, prima, e nella morte poi. È un momento storico singolare e crudele, ma è anche uno dei tanti esempi allineati da Simon Critchley. Nelle Note sul suicidio (nella traduzione di Alberto Cristofori) sostiene che “essere liberi è desiderare direttamente il bene, e agire e vivere in modo tale da persistere in questo desiderio senza esitazioni e senza eccezioni”, e di riflesso,  “uccidersi sottintende un potere sulla vita che non appartiene a noi, ma solo alla divinità, comunque concepita”. Il dilemma che attraversa fedi, istituzioni, tradizioni è uno dei tanti esplorati dalle Note sul suicidio, dove Simon Critchley non si accontenta di trovare il generico contorno di “un senso della vita” e rilancia chiedendo “in virtù di cosa la vita è o non è significativa?”. La scelta senza ritorno è l’incognita proprio nel mezzo ed è per quello che Note sul suicidio è un libro fatto di domande, acute e ottuse, nel senso di profonde e continue e insistenti. Simon Critchley pare più a suo agio nel proporre la filosofia gli estremi filosofici, da Thomas Hobbes a David Hume in parallelo alle informali evocazioni pop, dai Black Box Recorder a Morrissey a Kurt Cobain e fin qui le Note sul suicidio si distinguono per alcune prese di posizione polemiche, soprattutto verso i social, che vanno lette e rilette. Il tono è sempre garbato perché l’argomento è complesso, spinoso e delicato e Simon Critchley è consapevole che “il tema del suicidio ci rende stranamente volubili”. L’ha sperimentato in prima persona quando ha voluto realizzare un corso di scrittura creativa a New York dedicato ai messaggi d’addio dei suicidi. Un progetto estemporaneo, che faceva parte di un’installazione artistica dalle dimensioni limitate, visto che per ammissione dello stesso Simon Critchley, si presentò una quindicina di persone. Nell’intento era compresa la “provocazione rispetto al numero sempre crescente di corsi di scrittura creativa”, ma le attenzioni maggiori furono riservate al tema del suicidio in sé, che resta scandaloso e in gran parte intoccabile. Invece Simon Critchley riesce nell’impresa di fornire un quadro chiaro ed esaustivo, libero da pregiudizi e idiosincrasie e contando sul fatto che “scrivere è un prendere licenza dalla vita, un temporaneo abbandono del mondo e delle proprie meschine preoccupazioni per tentare di vederci più chiaro. Scrivendo, si fa un passo indietro e fuori della vita, per guardarla in modo più spassionato, nello stesso tempo da una distanza maggiore e da una maggiore prossimità. Con un occhio più fermo. Si possono mettere a tacere le cose, scrivendo: fantasmi, tormenti, rimpianti, e i ricordi che ci scorticano vivi”. E, come è riportato negli Annali di Tacito, all’inizio della lunga agonia imposta dall’imperatore, Seneca lasciava in eredità solo “l’unico bene che possedeva, che era anche il più bello, l’immagine della propria vita”, adeguandosi stoicamente all’estremo passaggio. Poi, come dice ancora Simon Critchley, se l’esistenza umana “è semplicemente un aspetto della vasta vibrazione vitale di un universo di materia”, le Note sul suicidio possono essere lette soltanto come l’inizio di un’indagine che, va da sé, tende all’infinito.

mercoledì 13 luglio 2022

Tracey Thorn

Rispetto alla sua “amica rock’n’roll”, Tracey Thorn partiva da una posizione leggermente più vantaggiosa, essendo la metà degli Everything But The Girl con Ben Watt (poi anche marito). Per Lindy Morrison, batterista e fondatrice dei Go-Betweens con Robert Forster e Grant McLennan, la vita all’interno di un gruppo pop è stata un po’ più complicata. Come scrive Tracey Thorn, lei “è quella che deve giustificarsi, deve rendere conto, deve spiegare per l’ennesima volta che cavolo pensa di fare qua”. Nel tentativo reiterato di rileggere la storia di Lindy Morrison e di rimetterla nella giusta collocazione rispetto ai suoi compagni d’avventura, il punto di vista femminile e femminista viene ribadito utilizzando diversi livelli, racconto, diario, epistolario, ma tenendo ben presente il ruolo strategico. Ricordate, come diceva Jonathan Lethem, il più famoso tra i fans dei Go-Betweens, che “insomma, i songwriter vanno e vengono, ma il batterista è la band”. Il cliché, validissimo, corrisponde ancora, e qui ci sono ricordi a non finire:  dalle esperienze giovanili contro l’apartheid australiano alla scoperta delle trame di Londra e dell’eroina in compagnia di Nick Cave, l’indomita Lindy Morrison è la protagonista assoluta, ma a dettare i tempi sono soprattutto le tensioni interne ai Go-Betweens che Tracey Thorn riassume così: “I gruppi si sciolgono per le tensioni dovute ai conflitti di personalità, ma quegli stessi antagonismi possono anche tenerli uniti, fornendo uno speciale tipo di tensione e frizione interna, una lotta per il potere, uno stimolo irritante”. La due vite, la sua e quella di Lindy Morrison si avvicinano, si allontanano, s’intrecciano e si dipanano nell’arco di trent’anni, anche se il legame resta a dispetto delle distanze e delle differenze perché per entrambe “l’amicizia femminile non è una cosa frivola; è una necessità”. Diventa sempre più urgente mentre la situazione nei Go-Betweens va degenerando: il gruppo negli anni è diventato un oggetto di culto seguito da una schiera di appassionati, ma non è mai riuscito a ottenere i riscontri necessari alla sopravvivenza. Gli sforzi, dai tour massacranti ai rapporti difficili con la stampa per non dire con l’industria discografica hanno reso via via più difficile la convivenza con i due songwriter dei Go-Betweens, e Lindy Morrison si ritrova in rapida successione a perdere il compagno, Robert Forster, e il gruppo stesso che si scioglie nel 1989. Dall’altra parte, Tracey Thorn, che invece ha trovato una parvenza di stabilità, ed è diventata madre, spiega che per Lindy Morrison “è stata dura lasciarsi tutto alle spalle. Per anni fa dei sogni sulla band, anzi degli incubi, in cui sono in tour e non riescono a trovare il palco, oppure si perdono e non riescono a prendere l’aereo. Nel sonno urla contro Robert e Grant, perseguitata dai ricordi”. La seconda vita di Lindy Morrison, senza i Go-Betweens, è all’insegna del riappropriarsi di un’identità troppo a lungo compressa in un segmento controllato dagli estremi maschili, con una convinzione che traspare in ogni passaggio nel multiforme dialogo con Tracey Thorn, in particolare quando dice: “Significa che voglio sentirmi totalmente libera in quanto donna. E non voglio sentirmi in alcun modo oppressa da vecchi atteggiamenti che gli uomini ci hanno imposto”. Ma, al di là delle sacrosante rivendicazioni, la narrazione, molto diretta, molto informale di Tracey Thorn è piena di musica, passione, coraggio, dolore, come se fosse l’istantanea di tutta una vita.

lunedì 27 giugno 2022

Shane McGowan

Iconoclasta, irriverente, mai assoggettato, ribelle “pieno d’odio e di idee” e, in definitiva, sempre onesto e sincero, Shane McGowan resta uno splendido outsider, uno di quelli per cui si riesce ancora a sperare che ci sia un posto per i perdenti in questo mondo. Lui l’ha trovato, pur con tutti i guai, i conflitti e le peripezie di cui si è reso protagonista e che sono una componente ridondante nel libro costruito attorno al confronto con la compagna, e poi moglie, Victoria Mary Clarke. Una pinta con Shane McGowan è disordinato e divertente mentre riporta in presa diretta al bizzarro milieu del cantante dei Pogues, ma perde l’occasione di approfondire la sua poetica, e questo è probabilmente il limite maggiore, insieme a una certa autoindulgenza. Il racconto è spesso informale (anche troppo a volte, dove il dialogo tra i due diventa alticcio e un po’ banale), ma la condizione è quella fin dall’inizio, quando Shane McGowan narra l’infanzia in Irlanda e in particolare la vita in campagna, dove “il mio primo ricordo è di tutta la famiglia che costruisce un letto e non riesce a farlo passare dalla porta d’ingresso. Non siamo riusciti a farlo passare attraverso quella cazzo di porta. Quindi abbiamo dovuto smontarlo fuori e rimontarlo dentro casa”. Gli aneddoti si sprecano e forse andavano collocati in una trama più completa: a tratti l’impressione è quella di vedere e ascoltare una coppia litigiosa seduta al tavolo di un pub che discute allegramente dell’IRA e di James Joyce, dell’alcol e dei Faces, di Brendan Behan e di Elvis Costello (particolarmente maltratto da Shane McGowan). La ricostruzione è frizzante e caotica, senza filtri e il dialogo tra i due tende a essere esclusivo, per cui è necessario fare un po’ la tara a quello che si dicono. La parte più consistente ruota in gran parte attorno al periodo punk di Shane McGowan, con i Sex Pistols a turbare la quiete pubblica e a imporre gli stili e le mode del momento. Compreso il suo primo gruppo che si chiamava Nipple Erectors, gli erettori di capezzoli, così, tanto per gradire. Dalle risse all’abbigliamento, i dettagli si sprecano e sono fonte di battibecchi con Victoria Mary Clarke ed è con lo stesso spirito che Shane McGowan affronta i rapporti all’interno dei Pogues chiamati, non senza una buona dose d’ironia, “la democrazia”. Dal 1984 al 1991, è l’anima di una festa mobile dove la sua avversione per le regole, le imposizioni e i luoghi comuni è l’ingrediente più piccante. Sono i momenti in cui viene messo in risalto il carattere di Shane McGowan, che ha il pregio di difendere comunque l’autenticità contro la professionalità e, qui, nella faticosa convivenza con l’industria discografica, viene fuori di tutto, compresa la verità: “La gente ci entra pensando che sia qualcosa di artistico, e non lo è. È un’azienda. È solo una cazzo di industria, sai, proprio come qualsiasi altra. È come lanciare merda contro un muro e un po’ resta attaccata. Chi ne fa parte non sa cosa sta facendo, sai. Il music business racchiude probabilmente ogni cazzo di aspetto orribile delle altre industrie. Ha tutta la pubblicità, tutto il cazzo di clamore, tutta la cosa di venderti merda e profumarla di rose, di continuo”. Certo, rimane uno squarcio reale della vita di Shane McGowan, che forse avrebbe meritato un’organizzazione un po’ più accurata, ma l’imperfezione è parte del personaggio, che pure in questo caso si conferma libero e candido, fin troppo, as usual.

lunedì 20 giugno 2022

Tony Judt

Parlando con Philip Roth, Milan Kundera spiegava: “La gente ama dire: la rivoluzione è bella, è solo il terrore che ne deriva a essere male. Ma questo non è vero. Il male è già presente nel bello, l’inferno è già contenuto nel sogno del paradiso, e se vogliamo comprendere l’essenza dell’inferno dobbiamo esaminare l’essenza del paradiso da cui esso deriva”. Questa simbiosi è alla fonte della complessa ricostruzione degli annali europei dal 1945 al 2005 che Tony Judt approfondisce in Postwar. Come la definisce nella prefazione, “la storia della riduzione del continente” comincia all’indomani della caduta di Berlino, assecondando convinto la percezione di Anne O’Hare McCormick: “Il problema umano che questa guerra ci lascerà in eredità non è stato ancora immaginato, e tanto meno affrontato, da nessuno. Non si è mai verificata una simile distruzione, una disintegrazione così completa della struttura stessa della vita”. Tony Judt capisce e chiarisce subito che quella delimitazione è una sorta di linea di partenza: “In retrospettiva, è ironico pensare che, dopo aver combattuto una spaventosa guerra per ridurre il potere della Germania nel cuore stesso del continente, i vincitori sia siano dimostrati talmente incapaci di giungere a un accordo sulla soluzione postbellica per tenere a bada il colosso che finirono per spartirselo al fine di trarre separatamente vantaggio dalla sua ristabilita forza”. Dal piano Marshall all’inizio della guerra fredda, con la formazione della NATO e del patto di Varsavia, Postwar si rivela ben presto un lavoro enciclopedico che parte da un presupposto (molto solido): il destino seguito alla seconda guerra mondiale deve la sua natura proprio ai resti e agli effetti di quel conflitto. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, nella sua analisi, è centrale lo sviluppo delle politiche economiche nella dicotomia comunismo/capitalismo, dove Tony Judt non risparmia nessuno. Senza fare distinzioni tra gli abusi di potere (“In politica, la corruzione è in larga misura una conseguenza delle condizioni che la favoriscono”) e criticando con precisione chirurgica anche le politiche della Thatcher. Su alcuni temi le posizioni sono contraddittorie (in particolare sull’industrializzazione italiana), ma si tratta di questioni fisiologiche nella dissertazione, così ampia e ricca, di una lunghissima transizione che Tony Judt racconta dedicando la giusta attenzione alle evoluzioni architettoniche e urbanistiche, ai fenomeni culturali e alla rappresentazione della realtà, nei suoi diversi modelli (a partire dal cinema, in particolare quello americano, e alla sua prevalenza sull’immaginario del dopoguerra). Vale anche per l’importanza dedicata alla cultura pop (i Beatles più di tutti), perché “ogni generazione vede il mondo come se fosse nuovo. La generazione degli anni Sessanta vide il mondo non soltanto come nuovo, ma anche come giovane” (e lo dicevano anche gli Who, quando cantavano “talkin’ about my generation”), al punto da arrivare alla conclusione che “ogni significativa rivoluzione politica è anticipata da una trasformazione del panorama intellettuale”. Gli anni cruciali (il 1968, il 1989), le battaglie per i “diritti civili, legali, politici”, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, le guerre nei Balcani e lo sviluppo dell’Unione Europea scorrono senza sosta e la ricostruzione è avvincente: lo stile di Tony Judt segue una linea pulita e chiarissima e l’elaborazione è dettagliata, per quanto nel finale è resa evidente la distanza tra la storia e la memoria, il passato che viene cambiato ciclicamente, e viene riletto dalle successive trasformazioni e mutazioni. Detto questo, la tesi di fondo su cui regge l’impalcatura di Postwar resta concreta e validissima ed è che “la nostra storia” dipende ancora dalle scelte e dalle conseguenze del dopoguerra e, a ben guardare quello che sta succedendo, bisogna dire che Tony Judt ha visto giusto, e per tempo.

mercoledì 11 maggio 2022

Tuğba Doğan

Una canzone misteriosa risuona nella notte di Istanbul. Non c’è nessun musicista, eppure la ascoltano tutti, perché “ognuno ha un ritornello segreto. Per tutta la vita lo ripete di nascosto”. La sente soprattutto Salih, che è appena stato licenziato e ha deciso di partire per il Brasile, che potrebbe essere ovunque, essendosi convinto che “tutto era avvelenato, ormai. Nulla scorreva più. Da moltissimo tempo. Nemmeno un’apocalisse riusciva a scoppiare in tutto e per tutto. O magari l’apocalisse era in realtà una cosa così: non si trattava di una catastrofe gigantesca che aveva un inizio e una fine e non risparmiava nessuno, bensì di un qualcosa che si protraeva nella vita quotidiana attraverso strane, minuscole rotture dell’ordine, e che ogni giorno intaccava un punto nuovo, portandolo alla distruzione. Non era niente che avesse un inizio improvviso e raggiungesse il compimento in modo deflagrante, o che generasse un cambiamento, nulla che ricordasse un crollo; piuttosto, somigliava all’istante appena prima del crollo, niente che promettesse una rinascita; un tempo intermedio rimasto costretto chissà dove, una stasi assoluta nell’evoluzione del genere umano, una crisi, un malanno, una glaciazione che coinvolgeva l’intera umanità”. Questa è la condizione in cui si ritrova Salih: è a un bivio, vuole partire perché il conflitto latente sul lavoro (è un cronista) è esploso in modo irrimediabile, e non gli resta alternativa, se non andarsene. La cena d’addio è sottolineata da un’esplosione di sapori che, per contrasto, si riflettono negli umori degli ospiti. Oltre alla partenza di Salih, si devono confrontare con un’imprevista e stramba confessione e l’improvvisa dipartita di due di loro, compresa la proprietaria del ristorante, perché “quando la vita desidera veramente una svolta, intervengono le combinazioni”. Il bistrò delle delizie ne ospita in quantità, e Salih, immobile cerca di riordinare i suoi trascorsi, a partire dalla liaison fatale con Nihan come se dovesse organizzare i bagagli, sapendo che “ogni viaggio, in fondo, si compie non nello spazio ma nel tempo”. E così nell’elaborato menù che Il bistrò delle delizie serve per l’occasione, Salih ricorda Nihan a Berlino, Praga, Lisbona, Roma, Barcellona, Avignone, Vienna, città che sono soltanto ricordi e tappe e a ribadire che “la comunicazione impossibile dell’amore aggiunge ulteriori stratificazioni al tempo, le seziona con un dolore assoluto e impareggiabile e dona un senso allo spazio”. In tutto questo, Tuğba Doğan lascia fluire le parole, lavorando di cesello sull’atmosfera, sulle sfumature, attorno a un’impostazione che è insieme modernissima e crepuscolare: il suggerimento, esplicito, è ammirare Il bistrò delle delizie come I sonnambuli di Edward Hopper, quale riferimento dei riflessi dell’alienazione in una grande metropoli. Istanbul, come tutta la Turchia, è una ragnatela ombrosa avvolta nel silenzio, che è sinonimo di sopravvivenza. Il dilemma di Salih è comprendere che la partenza non può essere la soluzione e può essere scambiata per una fuga anche se ormai è inevitabile perché “a volte la gente di convince di essere accomunata da uno stesso sentimento per poter alleggerire la propria solitudine, mentre in realtà chissà quali menzogne sta vivendo”. La storia si annoda tra ombre e luci, Tuğba Doğan condensa “accenti, toni, allusioni, richiami, approvazioni, obiezioni” e la logica della scrittura corrisponde al destino della lettura perché “leggendo, una persona smette di essere se stessa e si trasforma in altre, diventa molti individui nello stesso istante”. Il bistrò delle delizie diventa così una sorta di buco nero dove il tempo collassa e Salih si ritrova a lottare con la memoria. Se “la scrittura è capace di far dimenticare tutto, perché imprigiona ogni cosa nelle parole selezionate in quel preciso momento, mentre la memoria non funziona affatto così, ogni volta riorganizza, raffigura, inventa”, per Salih diventa una danza di fantasmi e una tortura. Non può sfuggirgli, e così è la musica che “prima ti fa credere che esista un mondo totalmente diverso, bellissimo, ma poi quel mondo non ti restituisce nulla”. Affascinante.

lunedì 9 maggio 2022

Bill Bruford

C’è una questione che ricorre spesso nel libro di Bill Buford ed è: perché nessuno chiede mai a un batterista della sua vita, della famiglia, dei legami? Il libro risponde a quell’interrogativo partendo da un’altra serie di domande che nascondono altrettanti luoghi comuni. Come hai cominciato? Da dove prendi il sound? Ti piacciono le interviste? Vedi ancora gli altri? E soprattutto: sì, ma di giorno cosa fai? Questo succede perché Bill Bruford non è Robert Fripp (quella è un’altra delle domande fondamentali: com’è lavorare con lui?) e pur essendo un eccellente musicista, ha sempre avuto un rapporto controverso con il successo e la popolarità. Come dice lui stesso in un passaggio piuttosto eloquente: “Si dice che il primo obiettivo di un musicista sia di sopravvivere al fallimento, il secondo di sopravvivere al successo. Io ho dovuto sopportare il primo solo per poco tempo e dal secondo non ho ricevuto danni permanenti, quindi mi considero relativamente fortunato e resto un accanito sostenitore della via di mezzo”. Dagli inizi, quando la sorella gli regala un paio di spazzole e per Bill Bruford “il ritmo sembrava ovunque ma nessuno sembrava accorgersene” all’esordio nel 1968 (e da allora è uno dei maggiori batteristi sulla scena internazionale), fino all’approdo ad alcuni tra i maggiori gruppi della seconda metà del ventesimo secolo dagli Yes ai Genesis ai King Crimson e alla ritrovata identità di jazzista, la ricostruzione della sua biografia è sincera, ricca di aneddoti, di spunti polemici ed è persino dolente nel raccontare il suo intimo rapporto con la musica. Nella parte conclusiva, quando Bill Bruford riflette sul suo annunciato ritiro diventa una specie di confessione a cuore aperto: “Con questa cosa potente che chiamiamo musica ognuno gioca a proprio rischio e pericolo. La musica, non intesa come puro divertimento, bensì come energia, è una forza che produce effetti su chiunque. I ricercatori cominciano a ipotizzare che il suo uso, o il suo abuso, giochi un ruolo ben più importante di quanto la gente abbia voluto credere finora, nel determinare il carattere e la direzione della civilizzazione. Il potere della musica è sfaccettato, talvolta incredibilmente violento, ed è impossibile comprenderlo pienamente”. Ma nel libro c’è di più perché in quarant’anni di attività Bill Bruford non è stato soltanto un (grande) batterista, ma per sostenere la musica si è ritrovato a reinventarsi in dozzine di ruoli diversi e a confrontarsi con avvocati, giornalisti, promoter, manager e un tempo che non è mai stato il suo. La sua storia diventa una specie di manuale di sopravvivenza per chiunque decida di dedicare a uno strumento qualcosa in più delle ore lasciate a un hobby. Ci sono così tante domande che rimangono senza risposte da pensare che Bill Bruford voglia suggerire di approfondire quel dubbio che tutti fingono di non vedere perché l’unica, vera domanda è sempre quella: sì, ma ne vale la pena? In molti di momenti di terrore (al Madison Square Garden, in quei minuti interminabili in cui la sua nuovissima batteria elettronica non ne vuole sapere di funzionare, per esempio) Bill Bruford sembra arrendersi all’evidenza, ma poi nella sua lunga e prolifica esperienza fissa un limite importante: “La musica, tanto per chi l’ascolta quanto per chi la fa, consente di vivere l’esperienza reale di un possibile stato ideale”. E, sì, ne vale la pena.

giovedì 28 aprile 2022

Jorge Amado

Senza la pretesa di conferirsi chissà quali particolari doti, Jorge Amado è un turista molto umile che si lascia ammaliare spesso e volentieri. La “seduzione del viaggio” sta tutta nel “partire e capire e amare il paesaggio della terra e della gente che incontreremo” e nel raccogliere le sue impressioni parte dall’idea di “scrivere un libro da modernista, più deciso a scrivere che a viaggiare”. Così, le Americhe di Jorge Amado cominciano da Porto Alegre e già lì si intuisce che sarà un tour intenso e colorito: “Alla fine ci fu una cena collettiva al ristorante. Fuori era autunno. Arrivarono telegrammi, una lettera di un lettore sconosciuto. Non ci furono discorsi. Intorno alla democratica tavola c’erano signore e poeti, scrittori e giornalisti, pittori e amici, qualcuno mi portò il messaggio di una donna: che a Porto Alegre c’era gente cui piacevo, che mi considerava un amico. Un gruppetto di lettrici si affacciò all’entrata del ristorante per salutarmi. In seguito andammo a una mostra di quadri. Là fuori il meraviglioso autunno di Porto Alegre”. Lo sguardo affamato di novità comprende Considerazioni sull’abitare, Stazioni dalla rumorosa allegria, Spiagge e colline, Chiacchiere al freddo con vomito e neve, e dovrebbero essere sufficienti i titoli dei capitoli a rendere l’idea dello spirito con cui Jorge Amado osserva, annota e riporta ogni singolo passaggio: nelle sue descrizioni i compagni di navigazione diventano quasi personaggi di un romanzo e nella meraviglia per la Cordigliera delle Ande si aprono pagine di grande liricità (“L’impressione esatta che ci dà la bellezza che viene dalle montagne di tutti i colori, dai fiumi che scorrono a cascata, è che siamo in un paese da fiaba, un paese dove possono svolgersi tutte le storie antiche di giganti e mostri che il passato ha ingoiato. È terribile, la bellezza è anche cattiva, a volte spaventa, umilia e domina”), poi rinnovate di fronte all’oceano (“Tu vai sul mare camminando, sei nave, sei acqua, sei pesce, il tuo volto non c’è più, sei solo oceano”). Amado riesce a focalizzare le peculiarità di ogni paese, Argentina, Cile, Perù Ecuador, Uruguay (dove per esempio, illustra il legame tra uomo e cavallo) nonché le differenze e le distanze tra le diverse latitudini del Brasile, comprese alcune distinzioni territoriali in cui evidenzia che “il Nordeste è terra di romanzieri, mentre il Sud è terra di amabili poeti e lucidi saggisti”. Con l’esplicita vocazione a “partire e capire e amare il paesaggio della terra della gente che incontreremo”, il meglio delle sue cronache itineranti arriva nel decantare i valori e l’incanto degli agglomerati urbani di Estância, Montevideo, Lima, Chancay, Mendoza. La “descrizione impossibile di una città” diventa palpabile a Buenos Aires dove “si discute di tutta l’America” e “anche nelle strade illuminate c’è mistero. Anche nel centro di una grande città c’è una vita misteriosa, sensuale e dolorosa” ed è nei contorni di quelle ombre che spesso i silenzi diventano altrettanto determinanti delle parole finché Jorge Amado ammette che “non si riesce a scrivere di quello che si ama”. Il resoconto è intervallato da un’irregolare corrispondenza e se è vero che “il turista non ha il coraggio di raccontare le sue delusioni”, bisogna aggiungere che In giro per le Americhe di Jorge Amado è anche un’introduzione preliminare alla letteratura (e all’editoria) latinoamericana ed è in quel momento, ovvero quando le impressioni si trasformano in scrittura, che “per un momento smettiamo di essere turisti” e allora diventa importante, anzi fondamentale, anche un rinoceronte che non c’è. È un passaggio singolare, ma condensa tutta la magia di In giro per le Americhe che resta un libro piccolo, arguto e molto prezioso.

martedì 22 febbraio 2022

Elias Canetti

Frasi sparse in prima, seconda e terza persona, citazioni, progetti, note di viaggio, diari e impressioni delle letture o dal cinema, riflessioni e descrizioni, tematiche da ampliare, buchi da riempire, righe da trasformare, segnalazioni quotidiane, forme di pensiero, assoluti (“Affrancarsi dai bisogni più recenti. Ne dipendiamo come tutti gli altri, e non per i bisogni in sé”), tempo bloccato in forma di parola, riscoperte di poesie come scavi nel tempo e romanzi come quadri generali, del passato o del futuro, strumenti di comunicazione dentro e attraverso gli anni, parole scritte sui bloc notes da quattro soldi, storie da registrare e chiavi di lettura, perché “chi legge se stesso, ha un’altra esistenza, fuori dallo specchio”: lo spirito di Un regno di matite è quello dichiarato nelle prime pagine, ovvero “quando i pensieri corrono, lasciali correre”, e qui si va di fretta, senza aggiuntivi o riempitivi e nello stesso modo Elias Canetti celebra l’assioma per cui “si scrive, per essere diversi. Chi imbroglia scrivendo rimane ciò che comunque è”. Un regno di matite è un’antologia di piccoli frammenti, aforismi, residui e appunti che però, anche in un quadro del tutto disarticolato, formano un tracciato in cui si incontrano, tra gli altri, Kafka, Karl Kraus, Kant, Joyce, Robert Walser, Blake, Hegel, Shakespeare, Goethe, spesso liquidati con una battuta (“Se fossi Freud me la darei a gambe”), ben sapendo che “la vera lode è lo stupore”. Ma Un regno di matite è anche un dialogo con se stesso (“Rinfrancarsi con i diari. Come la si conosce questa gentaglia, se stessi”) e con l’attualità. Intorno alla guerra in Bosnia, Elias Canetti scrive, insieme al ritratto impietoso di Radovan Karadzic, l’epitaffio del ventesimo secolo: “Bisogna domandarsi come sarebbe stato possibile sopravvivere a questo secolo senza le sue speranze. Per me è incominciato con la guerra balcanica (1912) ed è rifluito, ottant’anni dopo (1992) nella guerra balcanica. Come capacitarsene? Dipenderà da una legge? Eppure, in mezzo, ci sono due conflitti mondiali”. In Un regno di matite prendono forma tutte le “ossessioni che rendono completo un uomo, che lo sostengono come un’ossatura di cui non lo si potrà mai privare. Ossessioni che vanno perfino contro la comprensione di tutti, per quanto se ne parli la lingua e si rimanga intelligibili a dispetto di ogni apparente assurdità, incrollabili, ma anche incrollabilmente chiari. Di più da sé non si può pretendere, di meno sarebbe deplorevole”. Il tratto è personale perché secondo Elias Canetti “in una biografia deve esserci molto da decifrare e indovinare, e le presunte soluzioni devono potersi anche rivelare errate. Alcuni aspetti occorre siano disposti in modo tale da rimanere per sempre occulti. Ogni intromissione pretenziosa e fuorviante farà i conti col ridicolo. Una biografia è misteriosa come la vita di cui parla. Una vita esplicita non è stata una vita”. E qui, di conseguenza, Elias Canetti si concede alcune note autobiografiche (“Non ho mai concluso una pace meschina. Non sono mai affogato tra le chiacchiere. Ho custodito in me il sapere duro, insostenibile”), un suggerimento per assecondare il senso ultimo della memoria (“Bisognerebbe ricominciare l’infanzia da capo. Ci sono molte infanzie, la maggior parte va dispersa”) e per rendersi singolari (“Restare indietro, sempre, non assecondare mai quanto al momento è in voga. L’effetto ritardato è tutto, il recupero differito del tempo”) senza dimenticare quello che è probabilmente il consiglio più azzeccato: “Occorre l’onestà di chiamare per nome il limite contro il quale abbiamo urtato”. Dovrebbe bastare così.

lunedì 14 febbraio 2022

Hermann Broch

Il primo insieme è quello naturale della famiglia dove gli elementi sono connessi tra loro da rapporti elettrici. Nel vuoto lasciato dal padre, gli Hieck sono un’equazione composita dove la madre, Katharine, deve bilanciare le forze opposte e divergenti dei figli. Susanne, animata da un afflato religioso, è concentrata sulla preghiera, a cui rimanda ogni considerazione, mentre “la vita rumoreggia, là fuori, grande e intensa”. Otto, il più prosaico ed effervescente, è solleticato da vaghe velleità artistiche, ma il più delle volte si concede di godersela con l’amico Karl. Siamo a Vienna, all’inizio del ventesimo secolo, e “la condizione del mondo” è tale da concedere ancora occasioni a sufficienza. Al contrario, Richard è ossessionato dalla matematica, non solo per via degli studi e poi della professione accademica, ma perché la considera “una limpida rete di luminose verità e bisognava procedere a tentoni, di nodo in nodo, sì, era una cosa del genere, un intreccio celeste complicato come il mondo, un intreccio che bisognava sciogliere per possedere, alla fine, la realtà”. Il secondo insieme che L’incognita (nella traduzione e con la cura di Luca Crescenzi) sottintende di vedere le figure in movimento per intero, con tutti i gesti, le relazioni e le connessioni e qui la scrittura cristallina ed equilibrata di Hermann Broch lascia intravedere una filigrana raffinata come il lavoro di un artigiano, ma che riesce a sopportare sia per “la realtà della terra concreta e visibile”, sia “il contrassegno accidentale di avvenimenti immani”. La dicotomia in sé prevede un nuovo livello dove la razionalità è in bilico sull’orlo del paradosso. Come scrive Hermann Broch nei Lineamenti del romanzo, “la vita intellettuale di Richard Hieck è dunque soltanto una possibilità fra le tante” e si comprende quando arriva a dire che “all’improvviso gli fu chiaro: l’imprevedibile è il peccato nel mondo. Tutto quanto è sciolto dal nesso casuale e dalle leggi, fosse anche un unico suono solitario vagante nello spazio, è peccato. Tutto ciò che è isolato è privo di senso e al tempo stesso è peccato”. La fede assoluta nella scienza è una delle infinite contraddizioni di termini che attraversano L’incognita finché Kapperbrunn, assistente universitario e poi collega di Richard Hieck non spiega che “la matematica è una sorta di impresa disperata dello spirito umano... Di per sé non ce ne sarebbe alcun bisogno, ma è una specie di isola del decoro, e per questo mi piace”. L’ammissione, considerevole in sé, apre un nuovo campo, ed è qui che “c’è un errore o c’è un miracolo”. In apparenza, Richard Hieck dissimula le emozioni dell’incontro con una ricercatrice (o due, ma siamo in un’area in cui le somme non tornano mai), sostenendo che “quel sapere era l’amore e che anche l’amore non è altro che sapere”. Sarà vero, ma è proprio dove L’incognita si manifesta con tutta la sua forza, incrinando la solidità della conoscenza intellettuale che, come precisa Hermann Broch, “è in primo luogo razionale e scientifica”. Lo scontro con la realtà, nello specifico nei turbamenti affettivi di Richar Hieck, viene celebrato da un passaggio lirico nella stesura e significativo nel procedere a comprendere tutta la complessità che L’incognita rappresenta e sviluppa: “Il fondamento ultimo della matematica si trova al di fuori della matematica, eppure, anche al suo interno, la divina finalità dell’essere si trova al di fuori dell’essere, e il fine ultimo dell’amore si trova al di fuori dell’amore, ma è pur sempre amore, oh, sposa splendente, oh morte oscura, singolare confusione delle sfere”. Si spalancano così le porte del finale che riporta il destino di Richard Hieck e di ogni altro protagonista a terra, e a zero, perché la matematica è un’opinione, e così l’infinito, e pure l’amore, laddove L’incognita svela che “il mondo brucia dentro di noi, non fuori di noi”. Essenziale.

mercoledì 9 febbraio 2022

Steve Turner

Elvis, la fede, le droghe, la televisione, i successi, le sconfitte: nella biografia di Johnny Cash, Steve Turner lavora sull’essenziale, lascia scorrere e semplifica dove serve e dove è necessario e tutto in funzione del racconto che è diretto, puntuale e senza inventarsi nulla di trascendentale, che di richiami ce ne sono già abbastanza nella vita di Johnny Cash. È così che Steve Turner traccia un profilo credibile, di sicuro un buon punto di partenza per eventuali approfondimenti, e una storia dallo svolgimento pratico e godibile. Comincia dalla fine, cioè dalla morte della moglie, June Carter, ma poi il percorso si fa piuttosto lineare, senza particolari scossoni. L’inizio al contrario è l’unica eccentricità che si concede Steve Turner: la ricostruzione è fedele, dettagliata quanto basta e ricca di testimonianze, che poi offrono un ritratto particolare e sono il valore aggiunto in più. I ritratti convergono pur provenendo da fonti diverse. Diceva di lui il musicista e produttore Jack Clement: “Lo chiamerei una grande entità musicale. Era una forza musicale e un grande cantante. La gente credeva in ciò che lui cantava. Pochi riconoscono nella voce uno strumento che deve fondersi con gli altri. In qualche modo Cash lo capiva. Soprattutto perché non gli importava. Lui cantava e basta. In qualche modo funzionava”. Da un altro punto di vista, comunque convergente, gli fa eco Kris Kristofferson: “Sono certo di aver imparato da John la coscienza sociale. Ho imparato a preoccuparmi per i fratelli e per l’indipendenza: fare ciò in cui credi nonostante quello che ti dicono gli altri. Ammiravo il modo in cui parlava con parole sue. Non potevo certo imitarlo, perché era unico come un fiocco di neve”. All’ultima parte dell’esistenza di Johnny Cash è dedicato un ampio spazio, come è giusto che sia, al rapporto con Rick Rubin e alla produzione degli American Recordings, che illumina uno dei momenti più alti e originali della canzone d’autore americana degli ultimi anni. La storia è declinata in tutti i dettagli, dal primo incontro tra quelle che sembravano due personalità agli antipodi allo sviluppo della serie. Anche qui, l’aspetto musicale viene superato dalla personalità di “the man in black”, come raccontava Rick Rubin: “Johnny Cash è sempre stato un fuorilegge, una figura che non rientrava nei canoni. Lo consideravano un artista country, ma non credo che l’ambiente del country l’abbia mai accettato davvero. Era un outsider, e credo sia stato questo ad attrarmi più ogni altra cosa”. E parafrasando il titolo di Unearthed, il box degli American Recordings pubblicato postumo, giusto a due mesi dalla sua scomparsa, Steve Volk descriveva Johnny Cash come “un colono che ha scavato nella terra, ha scoperto se stesso e ha scoperto noi”.  Alla fine deve ammetterlo anche Steve Turner: “Come per tante leggende della musica popolare, non è facile dire esattamente cosa rendesse grande Cash. Non divenne mai un grande chitarrista, la sua voce aveva un’estensione limitata e i testi delle canzoni oscillavano dal poetico al prosaico. Ma la combinazione di quella voce, quelle parole e quella chitarra superava di molto la grandezza di ogni singolo elemento. Era una presenza, una forma di energia, un veicolo di verità”. Per conoscerlo (o riscoprirlo) si può cominciare da qui.