mercoledì 27 marzo 2019

Marcus O’Dair

Come scrive Jonathan Coe nella prefazione, la longevità artistica e la popolarità di Robert Wyatt dipendono “dall’ampiezza delle sue vedute”. Lo dice anche il titolo, Different Every Time annunciando e sottolineando la cospicua varietà di sollecitazioni che La biografia autorizzata di Robert Wyatt ripercorre con una scrupolosa attinenza ai particolari. Il racconto di Marcus O’Dair è fluido, ricco di aneddoti, ricordi e testimonianze dirette. Adeguato nell’analizzare la figura di un intellettuale (sì, la brutta parola) moderno, ironico, coerente nelle idee ed eccentrico (come deve essere) nell'arte, dove per arte s’intende “qualcosa che non si può usare. Se è completamente inutile, è arte”. È anche simpatico, senza essere né pedante né agiografico e comunque privo di reticenze e/o omissioni. A partire dall’infanzia e dall’adolescenza, dove Robert Wyatt accende una precoce passione per il jazz, colpito in tenera età da Miles Davis, Ornette Coleman e Cecil Taylor, nonché dagli incontri al Ronnie’s Scott con Charles Mingus, Sonny Rollins e Thelonious Monk, che reputa (giustamente) più o meno degli dei. Nel frattempo c’è un primo tentativo di suicidio, una paternità precoce, la vita disordinata e povera che incrocia il rock’n’roll e la Beat Generation. Succede tutto in modo molto spontaneo perché Robert Wyatt, come ammette nelle primissime pagine di Different Every Time, vive “da sempre nel mondo dei sogni” ed è da lì che si propagano prima i Wilde Flowers, poi le avventure con i Soft Machine e con i Matching Mole che lo vedono protagonista nella versione del batterista a torso nudo, “sudato come un pugile” e capace di suonare tempi impossibili e di “cantare assoli di Charlie Parker nota per nota”. Forse è un eccesso, ma rende l’idea di quale essere musicale fosse (ed è ancora). In quel periodo si snodano gli intrecci, gli incontri e gli incantesimi con Jimi Hendrix, Syd Barrett, Keith Moon e con un diluvio di alcol, una presenza mai smentita. Questo è il lato uno e fila via in un attimo, diviso dal lato due, da un tuffo dalla finestra, il primo giugno 1973, in cui Robert Wyatt sfracellandosi al suolo perse l’uso delle gambe. La seconda metà di Different Every Time segna l’ingresso in quello a cui non saremo mai preparati, la vita vera, l’età adulta, e per Robert Wyatt significa la carriera solista che conosciamo per l’intensa ricerca musicale e una rinnovata consapevolezza sociale e politica. Quest’ultima non si traduce soltanto nell’adesione e nella condivisione di una lunga serie di battaglie (per i minatori, contro l’apartheid, per il disarmo nucleare), ma anche nell’intima accettazione del suo essere inglese, che traduceva così: “Siamo vittime di una strana maledizione: abbiamo vinto tutte le guerre a memoria d’uomo. Negli ultimi conflitti coloniali, alla fine abbiamo sopravanzato tutti gli altri, francesi, olandesi, spagnoli, e da allora la lingua inglese regna suprema. Poi abbiamo combattuto un paio di guerre mondiali, nelle quali è fin troppo facile riconoscere che stavamo dalla parte giusta. E su questo non peso che chiunque abbia un po’ di sale in zucca possa obiettare alcunché. Tuttavia i vincitori non riflettono mai su se stessi, a differenza dei vinti. Nella sconfitta c’è una sorta di grazia, che noi non abbiamo mai conseguito, mentre a me piacerebbe che guardassimo con quella grazia e quella modestia al nostro ruolo nella storia del mondo”. Il suo punto di vista diventa storico e politico diventa molto personale, ed è lì che lo riconosce Brian Eno, traducendolo così: “La componente politica e sociale ne è parte integrante quanto quella musicale. Lui è la miglior dimostrazione della propria filosofia, il che è piuttosto raro. Molto spesso le persone sono i peggiori esempi della propria filosofia, quasi s’aspettassero che qualcun altro la metta in pratica al posto loro. Ciò che colpisce di Robert (Wyatt), secondo me, è che vive la sua vita e che, da quel che posso vedere, non ci sono contraddizioni palesi tra i valori in cui dice di credere e ciò che fa come persona e come artista. Mi pare un pregio non da poco”. Rispetto alla musica, nel lato due di Different Every Time, spicca la storia di Shipbuilding, la canzone scritta dal produttore Clive Langer e da Elvis Costello (che poi la riprese in Punch The Clock) che, nell’interpretazione di Robert Wyatt ha trovato una sua forma definitiva. Shipbuilding a parte, se ne trova per tutti i gusti perché, tra lato uno e due, si rammenta che Robert Wyatt ha incontrato un manipolo di musicisti e ogni volta ha lasciato un segno, come è capitato con Paul Weller: “E che cazzo! Ti ritrovi a mettere le tue palle sul tavolo, il che cambia piuttosto le cose. E cambia anche la tua percezione delle cose. Sbattila in faccia al mondo e magari il mondo se ne uscirà con un sorriso. È uno strano effetto della musica”. Con lo stesso atteggiamento ha inciso canzoni che hanno cantato gli Chic e Billie Holiday, ha suonato con Carla Bley e i Pink Floyd, si è cimentato con I’m A Believer di Neil Diamond via Monkees e ha continuato a pensare che per viaggiare gli basta lo spazzolino, un cambio d’abito e la sua copia di Porgy And Bess. Completa Different Every Time una discografia (commentata) che è un bel riepilogo delle sue collaborazioni, compresa un’utile selezione di videoclip, anche a ricordare quello che cantava in Moon In June: “La musica svolge ancora le sue consuete funzioni, rumore di fondo per persone che tramano, seducono, insorgono e insegnano. Mi sta bene: non pensiate che me ne lamenti, dopo tutto è solo tempo libero, no?”. Premesso che il tempo libero non è un lusso, ma una necessità (ne converrà Robert Wyatt) quando è così, è anche qualcosa di più.

Douglas Adams

Ci mancano Douglas Adams e i suoi viaggi a zonzo nella galassia, in posti dove era più facile sentirsi meno extraterrestri che sulla terra. Torniamo a sfogliare la Guida galattica per gli autostoppisti sorridendo e incuriosendoci per universi così lontani eppure così vicini perché frutto della fantasia, di una fantasia che ormai, in genere, è ridotta a optional nemmeno tanto richiesto. Con Douglas Adams se ne è andato un pezzo di quel modo di vivere romantico dove scrittura e intelligenza coabitano con l’ironia e un’insaziabile voglia di conoscenza. Unita a un rara modestia che gli faceva scrivere nell’introduzione al ciclo completo della Guida galattica per gli autostoppisti: “Il fatto è che né io né gli altri scrittori sappiamo da dove ci vengano le idee e dove cercarle. O meglio, forse è il caso di puntualizzare. Se uno sta scrivendo un libro sulle abitudini sessuali dei maiali, probabilmente troverà più di uno spunto ciondolando per un’aia con un impermeabile di plastica addosso, ma se il suo settore è la narrativa, potrà solo bere una quantità industriale di caffè e comprarsi una scrivania che non si sfasci quando vi sbatterà la testa contro”. Il salmone del dubbio è un omaggio in un certo senso dovuto anche se, a scanso di equivoci, è difficile da considerare un romanzo. È piuttosto una raccolta eterogenea di materiali, che vanno dalla recensione di un concerto dei Procol Harum alla definizione della sua rock’n’roll band dei sogni, dalla colta prefazione a Sunset At Blandings di P.G. Wodehouse alle riflessioni sull’impossibilità di curare il post-sbornia di Capodanno. La parte di narrativa vera e propria occupa una settantina di pagine ed è l’inedito, ancora incompleto, che offre il titolo di questa raccolta. Più importante, nel contesto complessivo, il puzzle variopinto di interviste, interventi, corrispondenze, articoli e scritti assortiti che riesce però da dare un'immagine completa del Douglas Adams, uomo e scrittore con una sensibilità tale da toccare con acume e garbo la comicità dei Monthy Python e i disastri ecologici worlwide, i Beatles e l’influenza tecnologia, sapendo che in fondo il senso della vita è rimasto soltanto uno: “Siamo ormai tutti confusi e disorientati e poiché il mondo ha grande influenza su di noi, mentre noi non abbiamo alcuna influenza sul mondo, ci sentiamo alquanto stressati e alienati”. Ci sono anche i classici consigli per i principianti (“Innanzitutto renditi conto che, oltre a essere alquanto difficile, scrivere è un lavoro faticoso e solitario e, se non si è straordinariamente fortunati, anche molto mal pagato. Devi essere determinato, assai determinato a farlo. Poi devi scrivere qualcosa”), piccole annotazioni sullo stato delle cose (“Notiamo le cose che non funzionano e non notiamo quelle che funzionano. Notiamo i computer, non notiamo le penne. Notiamo i lettori di e-book, non notiamo i libri”) e, tra l'altro, una breve riflessione sull'ironia e sulla comicità che scritta da uno abituato a scambiare battute con i Monty Phyton, ci lascia davvero a bocca aperta: “Ma oggi tutti fanno i comici, anche le annunciatrici e le ragazzotte che leggono le previsioni meteorologiche. Ridiamo di tutto. Non più in maniera intelligente, non più per lo shock improvviso della battuta illuminante, ma in maniera stupida, implacabilmente stupida. Niente più docce nel deserto: solo fango e pioviggine dappertutto, illuminati ogni tanto dal flash dei paparazzi”. Forse per questo preferiva altre galassie. Forse sentiva già che questo mondo gli andava stretto.

giovedì 14 marzo 2019

Carys Davies

Il miraggio del West, alimentato da una spregiudicata campagna di marketing ante litteram, ha suggerito un’infinità di leggende e creato un’intera epica. La colonizzazione della frontiera, spostata di volta in volta più in là, era e resta una componente irrinunciabile dell’espansione economica e geografica degli Stati Uniti e ne ha permeato la cultura, a partire dai primissimi livelli dell’istruzione. Lo notava in modo molto dettagliato Jonathan Raban in Bad Land: “L’America dei testi scolastici era un mondo di avventure solitarie ma edificanti, di poveri pastorelli che diventano presidenti, di eroi puri e leali, una terra dove una stella ammiccava in permanenza sull’orizzonte del West, e dove la miseria e le malattie mettevano semplicemente alla prova la tempra americana”. La realtà, a partire dalla sopraffazione dei nativi, era ben più prosaica e crudele ed è proprio nella frattura con quell’immaginario posticcio e ingannevole che Cary Davies si tuffa a capofitto, rileggendo il mito del West con una peculiare sfumatura narrativa, prodiga di valenze metaforiche. Il suo protagonista, John Cyrus (Cy) Bellman, “un trentacinquenne alto e ben piazzato con i capelli rossi, le mani e i piedi grandi e la folta barba color ruggine” che “si guadagnava da vivere allevando muli” non parte infatti in cerca di terreni fertili o filoni minerari, ma per un’imprecisata attrazione verso i dinosauri, o meglio, di ciò che ne rimane. La spinta viene dalla lettura di un articolo su una gazzetta, uno degli strumenti principali della campagna promozionale del West e lo stupore di Bellman è incontrollabile: “Non c’erano parole per il fremito suscitato dalla sensazione che quegli animali giganteschi fossero importanti, c’era solo un formicolio che rasentava la nausea e la consapevolezza che per lui, ormai, era impossibile restare dov’era”. En passant, la caccia ai resti preistorici contiene una primordiale idea di fama e di successo a cui Bellman ambisce, seguendo le tracce della spedizione di Lewis e Clark. La fiducia nella scoperta di “una creatura completamente sconosciuta” e il fascino dell’avventura appaiono, almeno in un primo momento, incrollabili: il viaggio verso il West è un’immersione incondizionata e totale nella wilderness americana che è una bellezza straordinaria, ma insidiosa. Bellman, che contava di cavarsela da solo, comincia ad affrontare imprevisti e necessità crescenti, che richiedono abilità a lui sconosciute. È così che si affida prima alle informazioni di un infido mercante, Devereux, e poi, attraverso i suoi consigli, trova una guida in un giovane nativo dal nome enigmatico, Donna Vecchia Vista Da Lontano, che lo asseconda e lo protegge passando da un territorio all’altro. La ricerca paleontologica si rivelerà un azzardo e il susseguirsi delle difficoltà e delle incognite farà emergere il carattere utopico del viaggio.  Anche perché per seguire una destinazione ignota Bellman ha lasciato sole una figlia e una sorella. Non le ha dimenticate e, in particolare, alla figlia, scrive una lunga teoria di lettere che, il più delle volte, faticano a trovare l’indirizzo e vengono perse nelle vastità dell’America dai vari messaggeri incaricati di recapitarle. Nel frattempo, l’assenza dell’uomo non è passata inosservata e attorno alle due donne cresce un’attenzione non sempre ben riposta. Eppure, un anno dopo la partenza, Bellman è ancora entusiasta e, dopo l’ennesimo guado, si ritrova meravigliato dalla “bellezza del paesaggio: il nastro grigio del fiume, gli alberi scuri, in lontananza quel luminoso panno steso che era la prateria, ondulata e soffice, la seta azzurro livido nel cielo”. Tappa dopo tappa, le visioni idilliache vengono frantumate dal gelo, dalla fame, dalla stanchezza, dal disorientamento e, più di tutto, dal cedimento strutturale dell’illusione. D’altra parte, a casa, la placida routine di Julie e Bess viene turbata dall’invadenza di Elmer Jackson, un ambiguo vicino, non senza un sorprendente finale. Cary Davies usa un tono garbato e leggero, nella migliore accezione del termine, per delineare i contorni drammatici di un abbaglio macroscopico all’interno di un romanzo brillante che, tra tutte le qualità, possiede anche il raro pregio di far convivere la sua natura breve e coincisa con l’attenzione e l’equilibrio indispensabili per guardare verso e dentro il (vero) West.

lunedì 11 marzo 2019

Jenni Fagan

Anais non ha conosciuto i genitori biologici e si sente frutto e parte di un indicibile esperimento: è una fuggitiva, è una ribelle, è una bambina in mezzo alla strada, e in un mondo di adulti senza speranza. La sua lotta per la sopravvivenza si evolve in un continuo conflitto con le istituzioni: la famiglia (sgretolata), la scuola (abbandonata), la polizia (combattuta) e, infine, il Panopticon, espressione architettonica e giuridica dell’assioma orwelliano per cui “un adulto che non sembri pericoloso appare quasi sempre ridicolo”. Il disagio e la caparbietà con cui si difende la trasformano nella protagonista indiscutibile di Panopticon, un capolinea più minaccioso che pericoloso. Senza dubbio il Panopticon è quella che Erving Goffman in Asylums definiva “un’istituzione totale”, ovvero “come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Il ruolo del Panopticon non è né repressivo né educativo: la manipolazione è limitata a escludere i suoi ospiti (eufemismo), a evitare la loro (incongrua) presenza all’esterno, cercando, attraverso la sua architettura, le porte socchiuse o sbarrate, le luci spente a definire routine, di delimitare un insieme di regole, e quindi un simulacro di identità. Non funziona, non funzionerà mai. L’arrivo di Anais, dopo una straziante trafila di famiglie affidatarie e altre tristissime vicissitudini, coagula un piccolo gruppo di reietti, che cercano di superare le ostilità del Panopticon, dai “meccanismi dell’esclusione e della violenza” (Erving Goffman dixit) agli irrimediabili conflitti con se stessi. Negli strumenti di autodifesa di Anais va annoverata, anche grazie all’uso smodato di sostanze (chimiche e non) la distorsione della realtà, al punto di coltivare la speranza di poter “diventare schizofrenica da grande”. Una via di fuga dentro un sogno ricorrente che svela lei stessa: “Se vivessi a Parigi passerei il tempo seduto nei piccoli caffè in riva al fiume, fumerei sigarette colorate e non parlerei mai. Cioè solo ogni tanto: sarei misteriosa”. Il contrasto tra i bistrot della Ville Lumière e il Panopticon è inevitabile e totale perché, nonostante le buone intenzioni (purtroppo, solo quelle) degli operatori e degli assistenti sociali, come scriveva Mary Douglas in Come pensano le istituzioni, “grazie al peso dell’inerzia istituzionale, immagini mutevoli sono mantenute abbastanza ferme da rendere possibile la comunicazione. Le istituzioni definiscono l’identità”. Con un’operazione visionaria, ispirata in tutta evidenza a William Burroughs, Jenni Fagan, traduce ed esprime la strenua guerriglia di Anais restandole incollata, senza mai discostarsi, nemmeno di un millimetro, da un linguaggio sboccato, grezzo e gergale. Valga su tutto, la risposta più frequente, quel tambureggiante “a-ah”, un intercalare che si ripresenta in continuazione nei dialoghi. Un approccio quasi naturalista, persino dovuto, perché Anais non è né un “esperimento” né una “persona normale”: il suo unico appiglio per restare quella che è, “solo un ragazza col cuore di squalo”, è combattere nella trincea della diversità. La voce che le affida Jenni Fagan non fa sconti, nemmeno nelle divagazioni psichedeliche (e non sono poche): quando Anais dice che “fuori c’è un mondo che non smette di agitarsi, quindi posso scegliere: contare le cose o nominarle”, compie un rituale che non è soltanto simbolico. Quel continuo ridefinirsi (e ridefinire la realtà) è una strategia di resistenza alla brutalità burocratica e istituzionale che si compone, come notava Erving Goffman, di “antagonismo, affetto, indifferenza”.  Con le sue torri e il suoi gargoyle, il Panopticon è tutto attorno a noi, espressione nello stesso tempo del potere e dell’impotenza di fronte al disagio e all’emarginazione, un monumento gelido e buio che, in uno dei suoi momenti più cupi, porta Anais alla considerazione che “la gentilezza è la qualità più sottovalutata del pianeta”. Difficile non essere d’accordo con lei.

lunedì 4 marzo 2019

Peter Carey

Michael Boone, meglio noto come Butcher, è stato un pittore che ha già vissuto il suo momento di gloria: colto, visionario, profondo nel distinguere la luce dal colore, la tela dal dipinto, il dettaglio dalla prospettiva, aveva trovato gallerie, clienti e quotazioni. Solo che conosceva benissimo la fragilità di quella condizione, non solo perché “il mercato è una bestia nervosa che facilmente si fa prendere dal panico”, ma per la natura stessa della sua vocazione, riconosciuta così: “Ecco il guaio degli artisti. Siamo come dei piccoli bottegai, abituati a comandare a casa nostra. Se non ti garba come lo faccio, fuori dal mio negozio, scendi dal mio taxi, esci dalla mia vita”. Una volta trascinato nelle correnti di un divorzio senza pietà, si ritrova sperduto, senza nemmeno un soldo per pagarsi i pennelli. Non solo: fin dalla tenera età, Butcher deve seguire e accudire il fratello Hugh, che vive in un mondo tutto suo. Secondo le normali convenzioni sociali, si tratta di un handicap, ma più ci si inoltra nelle storie di Furto e più è chiaro che tra le ossessioni di Butcher e il solipsismo di Hugh non c’è poi una differenza così netta. Esiste piuttosto una forma di comunicazione latente, che costituisce uno dei principali livelli di lettura. “La voce di Butcher è molto australiana, piena di alti e bassi, molto prosaica ma anche disseminata con alcune sostanziali sentenze artistiche e intellettuali” ha specificato Peter Carey ed è quasi per un riflesso innato che gli alterna i pensieri scoordinati del fratello, Hugh. Lo strano equilibrio, gestito al meglio in un’area rurale dell’Australia, dove Butcher si è rifugiato scappando da mercanti, creditori e aventi più o meno diritto, viene messo in pericolo dall’arrivo di Marlene Leibovitz. Femme fatale affascinante e risoluta, che padroneggia il mercato dell’arte con un’abilità fuori dal comune, oltre a far innamorare Butcher, trascinerà lui e il fratello in uno spettacolare intrigo internazionale. Da qui in poi tocca al lettore scoprire cosa succederà perché la natura morta con schizzi di passione da cui si genera Furto prende la piega di un thriller a orologeria, che Peter Carey racconta miscelandolo, con un tocco in più per il ritmo e un certo garbo, con un’impossibile love story, tanto che lo stesso Butcher confessa, ad un certo punto: “Se vi ho dato l'impressione di aver fatto certi calcoli, lasciatemi dire una cosa: non avevo la più pallida idea di quello che stavo facendo”. Trascinato, per amore, per necessità e forse per un ineluttabile destino tra Tokyo e New York, Butcher soccombe alle grazie e ai piani di Marlene, aggiungendo soltanto un paio di piccole considerazioni sull’identità dell’artista. La prima riguarda il legame con i clienti, i mercanti, i politicanti, per cui la reazione, dal suo punto di vista, può essere soltanto una: “Erano loro a fare la storia, e allora andassero affanculo tutti quanti, sempre, in eterno”. L’altra è una riflessione più generale, a cui anche Peter Carey si è avvicinato lavorando ai fondamentali di Furto, ed è riferita all’essenza intima dell’essere un artista perché, come dice Butcher, “se vuoi fare arte, il lavoro non finisce mai, non c’è pace né riposo, solo un eterno sbattersi, imprecare, angustiarsi e innervosirsi”. Viene spontaneo pensare che forse è meglio il mondo a parte di Hugh, ma non ci sono e non ci saranno mai prove. Un romanzo enigmatico e brillante.