lunedì 17 dicembre 2018

Richard Overy

Il 25 agosto 1939 Gran Bretagna, Polonia e Francia siglano un’alleanza per far fronte a un eventuale attacco militare nazista. Il 3 settembre, due giorni dopo che Hitler ha ordinato l’invasione della Polonia, arrivano le dichiarazioni di guerra di Gran Bretagna e Francia. La settimana di passione che portò alla seconda guerra mondiale fu molto simile a un complicato gioco di ruolo. Di volta in volta, aggressori e aggrediti, alleati e nemici, pacifisti e interventisti si trovarono sul lato sbagliato della partita e dovettero interpretare posizioni inedite e traballanti che non gli appartenevano. Lo stesso Hitler, il principale responsabile dello scoppio delle ostilità, la cui storiografia ufficiale ha sempre dipinto come un feroce e monolitico condottiero viene rivisto in una cornice piena di titubanze, indecisioni, debolezze e frustrazioni. La disperazione più grande appartiene però alla Polonia e al suo popolo che, assistendo al balletto delle diplomazie europee, capisce di essere finita in un confronto in cui il suo destino è relativo a ben altre ambizioni. È anche per questo che la sua protezione non venne affidata all’Unione Sovietica, così come ragionò con un’eccentrica metafora lord Halifax, il ministro degli esteri inglese: “Non possiamo pretendere che un coniglio intelligente accetti la protezione di un animale dieci volte più grande di lui, con le abitudini di un boa costrictor”. Anche la posizione italiana sopravvive alla sua stessa ambiguità: alleata di Hitler, vorrebbe però tornare al centro dell’attenzione proponendo, in un ultimo e tardivo tentativo di evitare la guerra, una conferenza di pace. Anche perché, tra altri inconfessabili motivi, “sull’orlo del precipizio” l’Italia non aveva (e nemmeno avrà alla sua entrata in guerra, un anno dopo) le risorse per affrontare un conflitto di proporzioni mondiali. In una serie di goffe prove d’orchestra volte a evitare la ripetizione della storia dell’agosto 1914, quando gli automatismi delle alleanze e delle mobilitazioni militari portarono all’inevitabilità della guerra, le diplomazie e i governi in carica innescarono una spirale di angoscia che, partendo dagli uffici delle ambasciate appestò tutta l’Europa. La guerra era già nell’aria da tempo e l’attesa era snervante, come annotava sul suo diario un testimone polacco, il medico Zygmunt Klukowski: “Stiamo vivendo una tensione insolita. So che la guerra scoppierà presto. La gente è angosciata, e si capisce che tutti vogliono che scoppi subito”. Si capisce perché, in più di un caso, le dichiarazioni di guerra vennero colte persino con sollievo: alla nuova “guerra civile europea” si era arrivati ancora una volta per inerzia, per reciproca diffidenza, per incomprensione, per una visione inadeguata, come quella di Hitler che pensava di ridurre il confronto con la Polonia a un conflitto locale e che invece innescò l’apocalisse che portò alla fine del suo delirante sogno e a una marea di macerie e di morti in tutto il mondo. Si capisce il suo sconforto nel momento in cui Gran Bretagna e Francia decisero, restando fedeli all’alleanza, di intervenire a fianco della Polonia. E si capisce anche quello che il re inglese, Giorgio VI, scrisse in questi giorni: “Quelli di noi che hanno vissuto la grande guerra non ne hanno mai desiderata un’altra”. È una delle tanti voci che Richard Overy, con un minuzioso lavoro di ricerca tra archivi, diari, testimonianze e documenti ufficiali, inserisce in una rappresentazione corale di quella drammatica settimana sul finire dell’estate del 1939, affiancandola a un’analisi efficace, per quanto sintetica, delle condizioni geopolitiche europee. Scrive Richard Overy che “i grandi eventi generano da una dinamica e una storia interiore proprie” e la sua  ricostruzione è precisa e puntuale, affascinante come un romanzo. Non a caso il prologo è affidato a un’illuminante citazione di H. G. Wells, a suo modo profetico, fin troppo. 

domenica 16 dicembre 2018

John Berger

In un villaggio francese, nel cuore dell'Europa, s’intrecciano le storie di un’umanità dolente, che lotta con la quotidianità del lavoro, dell’amore, del destino, quegli incidenti che sono la vita e la morte. A prima vista sembrano racconti, frammenti e impressioni indipendenti l’uno dall’altro, però c’è il filo conduttore della musica che li collega in sottofondo e li annoda tutti, dal primo all’ultimo. Il suonatore di fisarmonica, all’inizio, si riflette in Suonami qualcosa, alla fine, quasi a definire un terreno comune, ancora prima di stabilire le connessioni tra i singoli protagonisti e della descrizione delle loro gesta. Non è soltanto una colonna sonora che attraversa i boschi e i sentieri, ma una sorta di disciplina che delimita le coordinate dell’esplorazione di Un’altra volta in Europa perché “la musica esige obbedienza. Persino la nostra immaginazione è costretta  obbedirle. Quando ci viene in mente una melodia, non riusciamo a pensare a nient’altro. È una specie di tiranno, la musica, ma in cambio ci offre la sua libertà e permette a ogni corpo di sentirsi bello. Il vecchio può danzare quanto il giovane. Il tempo viene dimenticato”. Il ritmo è funzionale a collocare ogni voce nel contesto giusto, con una cura dove coincidono la pratica artigianale,  necessaria a cogliere al volo i suoni e lo slang della cultura orale, e la raffinata cernita delle parole e delle atmosfere. John Berger si pone in una posizione di rispetto, in equilibrio tra le esigenze di una prospettiva panoramica, in grado di abbracciare le tensioni derivanti dalle ondulazioni geopolitiche, e una misura ben più specifica e minuziosa nel delineare i destini individuali dei personaggi. Nel farlo, John Berger elabora, in contemporanea, un’ipotesi validissima a richiamare l’indispensabile concretezza dell’arte di narrare. Succede quando spiega che “se potessimo dare un nome a tutto ciò che accade, non ci sarebbe bisogno di storie. Il fatto è che da queste parti la vita supera il nostro vocabolario. Ci manca una parola e così si deve raccontare tutta la storia”. Il richiamo è coraggioso e continuo, corroborato del resto dalla trasposizione e dell’adeguamento dello storytelling nella pratica della scrittura in cui si percepisce un’urgenza di ripartire dal basso. Il livello non è un vezzo sociologico: si tratta piuttosto di una scelta molto umana perché, sì, “parliamo di passione” come scrive John Berger nell’epigrafe di Un’altra volta in Europa, ma queste storie toccano corde vibranti e delicate, che pochi, pochissimi ormai osano sfiorare. Il lavoro nei campi e in fabbrica, la solitudine, la natura e i suoi eventi, i sogni e le scelte, il destino e la mutevole realtà nei nostri tempi. Tutto inciso sul “cuoio dell’amore” e narrato da John Berger con una sensibilità lirica, poetica anche quando racconta di greggi disintegrati dai fulmini e di operai che scompaiono nelle colate di fonderia, o  spiega con una volgarità popolana che “l’inferno è un posto dove le bottiglie hanno due buchi e le donne nessuno”. Toccante.

domenica 9 dicembre 2018

Paul Carr

È raro trovare un’analisi storica e critica che sappia collocare un personaggio la cui vita è di dominio pubblico in un contesto al di là dei luoghi comuni, dei successi o dei fallimenti, delle chiacchiere o delle ricostruzioni su misura. Paul Carr in Ritorno ai cieli del nord sceglie un soggetto, Sting, per “un senso di appartenenza” che lega entrambi alla realtà di Newcastle. Ottemperando al sottotitolo, ripercorre anche la carriera musicale, Dai Last Exit a The Last Ship, ma è una parte (fondamentale, certo) della “la costruzione di un’identità” e di un personaggio che, nonostante le facili ironie che si porta dietro, mantiene intatti i conflitti e di conseguenza “il complesso rapporto dell’artista con la sua città natale” e con le sue radici proletarie. Diceva Sting nel 1981: “Newcastle è un posto di merda, è una baraccopoli della rivoluzione industriale, e quando hanno abbattuto le vecchie baracche ne hanno costruito di nuove”. La casa dove è cresciuto Sting, racconta lo storico Ken Hutchinson, “aveva due porte adiacenti sulla facciata che conducevano a due appartamenti separati in orizzontale, uno al pianterreno e uno al primo piano. Anche il giardino sul retro era diviso in due, ma in verticale, con due cancelli che si aprivano sul viottolo. In fondo al giardino c’erano i servizi esterni per ogni appartamento”. Si trovava a Newcastle, nella zona di Wallsend, nei pressi di quel cantiere navale Swan Hunter, a cui è ispirato il musical (non un grande successo) The Last Ship, e che “ha dato lavoro per oltre un secolo, dal 1880 al 2006, a innumerevoli generazioni di famiglie nell’area di Wallsend. Al suo apice la compagnia, una delle più grandi al mondo, aveva costruito oltre milleseicento fra petroliere, rompighiaccio, cacciatorpediniere, sottomarini, cargo-liner e chiatte. La prossimità del cantiere navale di case come quelle in Gerald Street faceva sì che gli operai potessero abitare vicino al luogo in cui le navi venivano costruite e varate e riempissero ogni giorno le strade verso il fiume”. Il ricordo di Sting in Broken Music, la sua autobiografia è nitido: “Ogni mattina alle sette in punto suonava la sirena, un triste lamento che chiamava i lavoratori al fiume, e centinaia di uomini sfilavano giù per la nostra strada con le loro tute da lavoro, i caschi e gli stivali. Tranne quelli che estraevano il carbone in miniera e quelli che fabbricavano le funi, sembrava che tutti a Wallsend lavorassero per la Swan Hunter”. L’accenno all’attività estrattiva è poi spiegato da Paul Carr nel dettaglio visto che “come la costruzione delle navi, anche l’estrazione del carbone era un mestiere pericoloso e spesso intergenerazionale: non di rado parecchi membri della stessa famiglia lavoravano insieme, di norma in condizioni difficili”. Non è una coincidenza che, proprio quando la carriera di Sting cominciava ad assumere dimensioni internazionali e connotazioni cosmopolite, con The Dream Of The Blue Turtles, appare una delle canzoni più legate alle sue radici, We Work The Black Seam. Spiegava Sting: “La regione in cui sono cresciuto è letteralmente costruita sul carbone. Ci sono ancora trecento anni di riserve di carbone lì sotto, eppure stanno chiudendo tutte le miniere”. Siamo all’apice del regno di Margaret Thatcher e lo scontro con i minatori resterà un abisso profondo, tanto è vero che un verso di We Work The Black Seam dice “l’universo mi risucchierà sul posto”. Quasi un presagio perché, nonostante la tenuta nel Chiantishire o il sontuoso appartamento con vista su Central Park, Sting ha sviluppato, parole sue, “un’ossessione per la mia città e la sua storia, immagini di navi e del mare, la mia infanzia all’ombra dei cantieri navali”, poi in gran parte confluite in The Soul Cages. Una contraddizione che non è sfuggita nemmeno allo stesso Sting: “C’è dell’ironia nel fatto che il paesaggio dal quale mi ero sforzato in ogni modo di fuggire e la comunità che avevo più o meno abbandonato e dalla quale mi ero esiliato hanno finito per essere lo stesso paesaggio e la stessa comunità a cui ho dovuto fare ritorno per ritrovare la mia musa perduta”. Pur accostandosi con garbo e tatto, Paul Carr non nasconde nulla, dalla traballante famiglia alle lunghe “working week” prima dei Police, ma l’epicentro è ancora lì, sotto i cieli della provincia del nord, tra le navi e le miniere, dove, alla fine, Sting si è ritrovato con tutti i suoi fantasmi.