domenica 29 luglio 2018

Wole Soyinka

Le voci accorate dei poeti nigeriani e dei loro corrispondenti italiani radunati da Wole Soyinka cercano di tracciare una rotta, o come dice Chiedu Ezeanah provano a “comporre l’esilio”, e a collegare due sponde divise da un mare, il Mediterraneo, che è diventato una frontiera, e un cimitero. Nell’introdurre le visioni, i versi, le immagini fotografiche di un intenso lavoro collettivo, Wole Soyinka è esplicito e lucidissimo nel sintetizzare il tema all’ordine del giorno: “La magnitudine del fenomeno delle migrazioni nell’età presente è un mero riflesso della regressione compiuta dal mondo in nome del progresso, dopo che ha foggiato strumenti di guerra e distruzione che adesso ci costringono a calcolare maree umane di profughi, nell’ordine delle centinaia di migliaia, dei milioni. È il riflesso della nostra incapacità di trarre i giusti insegnamenti dai paradigmi della vulnerabilità e del bisogno, manifestati in quegli archetipi i cui destini prefigurano la storia sempre uguale a sé stessa dello sventurato, del perseguitato, del reietto. Poiché è proprio questo mondo dell’inventiva diabolica a essere responsabile dell’aumento progressivo del fenomeno della migrazione di massa, che allora non si sottragga alla responsabilità di procurare alle proprie vittime bisogni elementari quali il rifugio e la protezione”. Percepire e raccontare le condizioni di uomini e donne “dispersi ai bordi della terra”, come li inquadra Milo De Angelis in Non rispondono all’appello, necessita di una meticolosa cernita delle parole, che devono schivare la retorica e provare a evidenziare le urgenze, le emozioni, il senso di smarrimento di viaggi attraverso il deserto e anelando un approdo in cerca di asilo, che resta un diritto inalienabile. Non di meno, nella sottile concordanza dei versi raccolti da Wole Soyinka, affiora la sensazione che, tolta la polvere disturbante della cronaca e della polemica, delle Migrazioni, come scrive Ubah Cristina Ali Farah in Aksum, “resta una cicatrice, aperta nel cemento, tracciata e cancellata di fronte alle colonie, la stele nella stiva, il mare brulicante”. Accalcati sui camion, aggrappati alle sponde di barche, in cammino con le masserizie, i volti bruciati, non è difficile individuare negli sguardi dei migranti quello che scrive Olufumni Aluko in Anime in pena I e cioè che “A tempo debito torneranno, loro è l’agonia dell’attesa”. È la poesia che arriva a dire, senza mezzi termini, come e quanto i profughi facciano traballare le ipocrisie, i luoghi comuni, le amenità che provano ad allontanare l’unica verità, che è quella spiegata da  Richard Ali in Sospinti dal vento: “Le nazioni son solo menzogne, linee nella sabbia che il vento cancella per condurre l’umanità ad un unico abbraccio, e ci scopriamo uguali come un tesoro sotto i sussurri. Le parole esprimono rose rosse, lavoro, amore, mantengono le gioie finché vien meno il respiro, diventiamo unico vento insieme al resto”. Comprendere le Migrazioni è indispensabile tradurre queste frasi che sono l’espressione più emblematica di un drammatico momento storico, “poiché ora il fardello come il Mediterraneo scompare oltre l’orizzonte indifferente alla politica e a piccolezze del genere”. Lo scrive Uche Peter Umez in Corvi in volo ed è un piccolo epilogo dal sapore profetico. 

sabato 28 luglio 2018

Wisława Szymborska

La selezione complessiva delle liriche raccolte in Amore a prima vista, un’ampia panoramica che va dal 1954 al 2001, è fedele all’idea di Wisława Szymborska per cui nella poesia “la naturalezza è indispensabile”. Una spontaneità non banale, che nasce e viene sostenuta dai momenti riflessivi e che si traduce seguendo forme, intuizioni e modelli scelti, come li ha elencati per lei Jerzy Kwiatkowski, tra “i più intimi, i più semplici legami tra gli uomini, l’erotismo e l’amore domestico, l’album con le fotografie di famiglia, una scenetta alla stazione, una gita all’estero, problemi politici di attualità… Il circo, una visita all’ospedale, un po’ di scienza e cultura… Un quadro, una divertente relazione sulla scrittura di una poesia”. I dettagli vengono cesellati parola per parola, accentuando i contrasti, seguendo un’ispirazione che “è sempre necessaria” e partendo con una scossa tutta istintiva. L’inizio, dice Wisława Szymborska, è che “a un certo punto senti un ritmo”, e da lì in poi bisogna assecondarlo perché “ogni evento può essere spremuto, concentrato in una poesia. Ogni fatto contiene in sé una carica che la poesia è pronta e in grado di raccogliere”. Nello specifico, l’amore, che è qui al centro dell’attenzione, viene collocato lungo coordinate spaziali e temporali, con riferimenti spiccioli alle costruzioni liriche attraverso forme naturali: gli alberi (succede in Notorietà: “E gli alberi? Qual è il significato del loro incessante bisbigliare? Dici: il vento forse ne è informato. Ma di noi come ha potuto sapere?”), i fiori, le onde, ma è nel discorso diretto, da amante ad amato, e viceversa, che la sua poesia si esprime con tutta la una musicalità costante e aggraziata: succede in Innamorati (“Ma addormentandoci, in sogno vediamo l’addio. Però è un buon sogno, però è un buon sogno, perché c’è il risveglio”), nel paradosso di Nulla due volte (“Cercheremo un’armonia, sorridenti, fra le braccia, anche se siamo diversi, come due gocce d’acqua”), con Notorietà (“Io non ho intuito, né tu hai indovinato che i cuori splendono nell’oscurità”) e persino nelle dimensioni oniriche dell’omaggio a Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate (“Guardiamo in noi a occhi chiusi. Parliamo con noi a bocca chiusa. Prendiamoci attraverso un muro”) e Sogno (“Ci veniamo incontro. Non so se in lacrime, non so se sorridendo. Un solo passo ancora e ascolteremo insieme la tua conchiglia, quale fruscio di mille orchestre c’è, quale marcia nuziale c’è, la nostra”). Gli spigoli restano intatti: per quanto armoniosa la poesia di Wisława Szymborska non è mai accomodante e/o consolatoria e l’Amore a prima vista, sparge l’inquietudine di Senza titolo (“Se almeno ci fosse qualcuno sulla porta, se qualcosa, per un attimo, apparisse, sparisse, lieto, triste, da ovunque venisse, fonte di riso o timore, che importa. Ma non accadrà nulla. Nessuna improvvisa inverosimiglianza. Come in un dramma borghese, questo sarà un lasciarsi del tutto regolare, neanche un apriti cielo per solennizzare”), la malinconia di Il gatto in un appartamento vuoto (“Qualcosa qui non comincia, alla sua solita ora. Qualcosa qui non accade, come dovrebbe. Qui c’era qualcuno, c’era, poi d’un tratto è scomparso e si ostina a non esserci”) per concludere con l’ironia pungente degli interrogativi di Un amore felice: “Un amore felice. È normale? È serio? È utile? Che se ne fa il mondo di due esseri che non vedono il mondo?”. La questione è destinata a rimanere irrisolta, come tante, e Wisława Szymborska con quell’incognita ha saputo convivere, dato che, nel discorso di accettazione del premio Nobel, ricordava come alla fine il poeta si libera “di tutti quei mantelli, orpelli e altri accessori poetici” e resta “in silenzio, in attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto. Perché, a dire il vero, solo questo conta”. L’amore, e una pagina bianca, niente di meno, niente di più.

giovedì 19 luglio 2018

Simin Daneshvar

In Storia dell’Iran 1890-2008, Farian Sabahi descrive così Suvashun: “Tra il 1941 e il 1945, nell’Iran occupato dai sovietici e dai britannici, è ambientata la saga familiare Suvashun, opera della nota scrittrice Simin Daneshvar pubblicata nel 1969. I protagonisti di questo romanzo sono i membri di una famiglia della classe media, proprietari di terre a Shiraz. Gli eventi sono raccontati in prima persona da Zari, giovane moglie e madre preoccupata per il marito e i figli, che riporta i fatti, tra cui la carestia e la formazione del partito comunista Tudeh, narrati da coloro che vanno a trovarla”. La sintesi è breve, efficace e pertinente soprattutto se si aggiunge che dopo la duplice invasione, “il paese era di nuovo diviso territorialmente, le minoranze riproponevano le loro pretese di indipendenza, l’economia era allo sfascio e nel 1941-1943 l’inflazione raggiunse il 300%”. È il difficile contesto in cui si svolge Suvashun e che proprio la principale protagonista, Zari, interpreta così: “Io sapevo che a poco a poco stavamo perdendo qualcosa che ci apparteneva, ma non capivo di cosa si trattasse”. A Shiraz, Zari perde  i preziosi orecchini, dono della suocera, perché li vuole Gilantaj, la capricciosa figlia del governatore che poi insiste per avere anche il cavallo del figlio Yusuf. Sono soltanto gli inizi di quel fitto intreccio di tradizioni e di ricordi che si sovrappongono e si alternano in Suvashun, dove l’Iran è una terra di giardini, di profumi e di mutevoli umori, un universo di sapori, di passioni e di racconti e di versi che si incastrano uno nell’altro senza soluzione di continuità. In questo flusso affascinante e ipnotico, l’eleganza barocca della scrittura di Simin Daneshvar non nasconde i fortissimi contrasti mai, a partire dai ruoli femminili. Le donne, per quanto assoggettate, sono il fulcro della vita a Shiraz ed è proprio la figura (centrale) di Zari a emergere con forza e determinazione lungo l’arco di tutto il romanzo. Madre di quattro figli (e un quinto in arrivo) e moglie di Yusuf, ne asseconda il tentativo di restare fedeli a una dignitosa normalità nel caos dell’occupazione inglese, della sollevazione delle tribù e nella confusione generale, dove una parte non indifferente nel paese riesce a credere che Hitler sia il tanto atteso profeta. La convinzione che sorregge Zari è che “le montagne non s’incontrano, ma gli uomini sì” e la fiducia nel marito è tale da non vedere l’incombere della tragedia. Succede perché, come dice ’Abdollah Khan, il fidato medico di Zari, “questo mondo è come una camera oscura dove le foto sono rovesciate e tutti noi girovaghiamo alla cieca”. La coincidenza letteraria vuole che Zari riveli in un aneddoto scolastico di aver letto John Milton e sapendo dunque che “ciò che in me è oscuro illumina” svela come l’atmosfera fiabesca abbia nascosto un conflitto latente che poi si trasformerà in uno scontro aperto. A quel punto il ruolo dei rituali, delle cerimonie e delle storie deflagra nel finale quando il lamento funebre rappresentato dal titolo celebra e anticipa svolte e rivolte che hanno determinato l’essenza dell’Iran moderno. Suvashun è la dimostrazione tangibile che, come dice ancora ’Abdollah Khan, “l’umanità è una storia e può divenire qualsiasi storia: dolce, amara, triste… Una storia eroica…”. Si può dire anche classica, nel senso più ampio del termine: le trame familiari all’interno della complessa posizione dell’Iran durante la seconda guerra mondiale sono una filigrana nitida e precisa per avvvicinarsi al Medio Oriente anche oggi, dove certe dinamiche geopolitiche restano immutabili dal tempo degli imperi e del colonialismo.

lunedì 16 luglio 2018

Brian Gomez

Devil è una prostituta di Kuala Lampur che, in una notte caotica al Grand Hotel, incrocia il suo destino con quello di Terry Fernandez. Musicista con poche speranze e un matrimonio combinato nell’immediato futuro, dividerà con Devil un rocambolesca fuga tra teorie della cospirazioni, terroristi, agenti segreti, governi corrotti sull sfondo di una città caleidoscopica, un “crossroad” di razze, religioni, culture, idee e confusione nel mondo seguito all’11 settembre 2001. Il sogno di Devil, e in fondo in fondo anche quello di Terry Fernandez, è lo stesso: “Voleva un locale in cui i clienti potessero venire ad ascoltare il blues dal vivo, scambiarsi chiacchiere da ubriachi sul senso della vita, e tornarsene a casa felici. Oppure, se il blues era suonato davvero bene, tristissimi”. Soltanto che la prima non sa come fuggire dai clienti che la picchiano con gusto e per perversione, e il secondo non riesce a trovare il modo di arrivare in fondo a una canzone di Robert Johnson senza interrogarsi sul suo futuro, e su come riuscirà a sbarcare il lunario, visto che non ci riesce quasi mai. In una notte in cui accade di tutto, Devil si trasforma in una femme fatale vendicatrice (visto che si può subire all’infinito, ma poi un limite si trova sempre, prima o poi) e Terry nel suo compagno di sventura. Lo snodo imprevisto è che l’ultimo cliente di Devil è (o meglio, era) un uomo legato a un gruppo terroristico a cui, per inciso, doveva consegnare un sacca contenente il denaro necessario al prossimo attentato. Dollari americani, un bel po’, che Devil e Terry si ritrovano tra le mani all’improvviso. Una fortuna e un pericolo perché, va da sé che c’è parecchia gente a cui il malloppo sta a cuore. Oltre ai sodali del terrorista, anche un agente della CIA annoiato (e sia detto che, rispetto ai suoi nemici, “l’America era un rimedio con gravi effetti collaterali”) e un plotone di bizzarri personaggi che rincorrono Devil e Terry nei gironi danteschi di Kuala Lampur. Attorno al thriller si innesta anche una riflessione: “Noi non siamo perfetti e neanche voi. Forse se lo ammettessimo tutti quanti, la perfezione ci si potrebbe presentare. Fino ad allora, nessuno ha il diritto di imporre le sue imperfezioni agli altri”. L’esordio di Brian Gomez, già musicista  (“Sono stato anche un chitarrista blues per svariati locali intorno a Kuala Lampur. Quando ho cominciato a scrivere il romanzo, ho pensato che per il personaggio di Terry potevo basarmi sulla mia esperienza, ma più scrivevo, e più la vita di Terry prendeva una forma tutta sua. Così, alla fine, c’è davvero una piccola parte di me nel protagonista del romanzo che non è autobiografico anche se alcuni dei personaggi sono basati su persone che ho conosciuto suonando blues che è il mio genere preferito di musica ma che non credo abbia avuto una grande influenza sul romanzo”) e copywriter  (“Nella mia carriera nel mondo della pubblicità, ho usato la mia immaginazione per trovare idee per le campagne, ma ho sempre avuto molte bizzarre intuizioni che sapevo che avrei usato in un film, in un libro o in una canzone. Dopo dieci anni di lavoro nella pubblicità, non riuscivo più a concentrarmi sul mio lavoro e sentivo la necessità di vedere se qualcuna di queste idee poteva portare qualche frutto. La prima idea che ho voluto sperimentare è stata il libro e un giorno mi sono seduto e ho cominciato a scrivere!”) svela un narratore capace di assorbire come una spugna le migliaia di suggestioni di una metropoli estrema e di trasformarle in un florilegio rocambolesco di immagini degno di un thriller, ma anche con un gusto ironico, frenetico, divertente e molto pop. 

venerdì 6 luglio 2018

Jon Savage

I giovani non sono sempre esistiti. Una volta, almeno due secoli fa, la gioventù era considerata un momento di transizione, un’età che si consumava in fretta, un rito di passaggio, un terra di nessuno in cui erano permesse l’allegria e la follia. E’ stato tra le due guerre mondiali, nella prima metà del ventesimo secolo, che l’invenzione della gioventù ha preso forma ed è diventata una realtà concreta, indipendente, riconosciuta. La costruzione di un modello ideale di gioventù (che spesso coincide con un ideale di bellezza) comincia con un vero e proprio genocidio di giovani, quello perpretato nella prima guerra mondiale (soprattutto) e poi nella sua diretta continuazione (la seconda). La parte iniziale del saggio di Jon Savage va in profondità, sui motivi e sui condizionamenti che hanno portato un’intera generazione a morire (volontaria, in guerra) per due volte consecutive, spronati da esortazioni come quella di Von der Goltz: “Solo i giovani si separano senza spasimi dalla vita. Non sono ancora avvinti a questa terra dai mille legami con cui la vita civile ci imprigiona. Non hanno ancora imparato a lesinare le ore della vita. L’enigma che sono curiosi di risolvere è ancora lì davanti come un libro chiuso. Scalano la collina senza immaginare il brusco precipizio dall’altra parte. Il loro amore per l’avventura esalta questa voglia di battaglia”. L’allucinante retorica militarista (affiancata da una complessa e impressionante macchina che generava il culto dei giovani eroi senza sosta) ebbe senza dubbio la responsabilità dell’olocausto giovanile nelle trincee della prima guerra mondiale, ma gettò anche le basi per l’invenzione della gioventù. Jon Savage sintetizza così quell’esordio sanguinoso: “La gioventù, arruolata nella nuova ideologia radicale basata sull’uguaglianza, diventò da un lato una fonte di speranza e un simbolo del futuro e dall’altro una falange instabile e pericolosa”. L’America arriva nella fase successiva: mentre nella Germania nazista i giovani venivano inquadrati in formazioni paramilitari (e poi direttamente nell’esercito per il nuovo, grande massacro della seconda guerra mondiale) in America imparavano a saltare su un treno e a scappare di casa, scoprivano lo swing (“Lo swing non era soltanto musica e libertà fisica, era una liberazione assia più profonda in tutte le sue forme: la vera emancipazione, non solo dei musicisti neri pionieri dello stile ma anche dei teens la cui maturità era preannunciata da questa musica”) e, più di tutto, si rendevano conto di avere una voce propria (“Vogliamo lavorare, produrre, costruire, ma milioni di noi sono costretti all’ozio. Noi ci diplomiamo e laureiamo, ci prepariamo per una carriera e una professione, ma non c’è lavoro. Rischiamo di trovarci su una strada o in un campo diretto dall’esercito, isolati dagli amici e dalla famiglia. Ci rifiutiamo di essere la generazione perduta”). Dai boys scouts alla a droga (nello specifico la cocaina), Jon Savage non esita a divagare nel raccontare dettaglio per dettaglio usi e costumi della nascente gioventù che, con il crescere della produzione industriale legata all’economia di guerra e con l’espandersi dei mercati compì il passo da bersaglio a target. La definizione di Jon Savage in questo specifico saliente è molto precisa ed esauriente (come del resto in tutto il libro): “Visto che contentavano sia il credo economico sia i bisogni, i sogni cominciarono a definire l’America. Le visioni diventavano denaro, assumevano forma tangibile nei parchi a tema, nei cinetoscopi, nei tabloid, nei bestseller, negli spartiti e nella pletora di beni di consumo che potevi trovare nei grandi magazzini o sui cataloghi postali. Tutti questi nuovi prodotti offrivano una fuga immediata dalle ristrettezze della realtà quotidiana, una consolazione per le libertà perdute e una celebrazione dello stile di vita metropolitano. La salvezza stava nel consumo: diventavi quello che compravi. E si compravano i sogni”. E’ chiaro che l’analisi di Jon Savage cerca di visualizzare una forma sociale (o persino un’area) inesistente, a tutta la prima metà del ventesimo secolo. Un lavoro inestimabile perché già non è facile, per usare un eufemismo, descrivere e raccontare una fascia sociale ed è ancora più impervio il percorso per narrare quella che è anche una fase (evolutiva) della vita, per qualsiasi condizione. Jon Savage non solo ha fatto entrambe le cose, ma le contestualizzate nei momenti storici (drammatici) in cui prendevano forma. Senza tralasciare nulla. Monumentale.

Peter Englund

La bellezza e l’orrore è un ardito esperimento letterario che coinvolge un coro tragico di voci attraverso diari, epistolari, frammenti di ogni genere e specie per ricostruire quello che Peter Englund chiama “un universo emotivo” generato dalla prima guerra mondiale. Per sua stessa preliminare ammissione, “in poche parole questo è un pezzo di antistoria, in quanto ho cercato di ricondurre un evento epocale alle sue componenti minime, atomiche: il singolo essere umano e il suo vissuto”. Seguendo “diciannove destini” di ogni nazionalità e su tutti i fronti, dal semplice fante all’ufficiale di cavalleria, dallo sconosciuto funzionario a Robert Musil, la metanarrativa di Peter Englund tende a scoprire che “la guerra li priva di qualcosa: della giovinezza, delle illusioni, della speranza, dell’umanità. Della vita”. L’insistente crescendo con cui La bellezza e l’orrore si fa avvolgente e senza via d’uscita è determinato dalle voci reali, ricreate attingendo dai documenti lasciati sul campo. Scrive Edward Mousley, ventun anni, artigliere neozelandese dell’esercito britannico in Mesopotamia: “Le esperienze personali, in questa cosa chiamata guerra, consistono nella migliore delle ipotesi nel risveglio del ricordo di un sogno incomprensibile e confuso. Alcuni eventi singoli emergono in modo un po’ più distinto di altri, con la chiarezza conferita dall’intensità del coinvolgimento personale. Poi anche gli episodi più pericolosi diventano cibo quotidiano, finché i giorni sembrano susseguirsi senza contenere nulla d’interesse che non sia la continua imminenza della morte. E anche quest’idea, sebbene imperativa all’inizio, viene rimossa in quanto grandezza sempre presente e per questo trascurabile. Sono fermamente convinto che ci si possa stancare di un’emozione”. Reggimenti dispersi, città che bruciano, navi inghiottite nell’oceano, un’intera generazione di giovani divorata nelle trincee, la violenza trasformata in “in norma”, l’umanità scomparsa, al punto che l’alpino dell’esercito italiano, Paolo Monelli, ventitré anni si chiede: “Per chi morto? I viventi frettolosi non sanno più nulla di te, i viventi abituati alla guerra come a un ritmo più celere di vita, i viventi che non credono di dover morire. Come se la tua morte non abbia soltanto chiusa la tua vita, ma l’abbia annullata. Rimani un po’ di tempo elemento numerico nello specchio del furiere, argomento patetico nel discorso che ti rammemori: ma tu, uomo, non sei ed è come se non fossi stato mai. C’è del carbonio e dell’acido solfidrico sotto a noi, coperto da un mucchio di stracci, uniformi; e ciò chiamiamo morti”. Alla stessa conclusione arriva Elfriede Kuhr, scolara tedesca di dodici anni: “Questa guerra è un fantasma vestito di stracci grigi, un teschio da cui spuntano vermi”. È molto peggio, e Peter Englund non manca di tracciarne le assurdità, i paradossi, gli abbagli, le mostruosità, insinuando persino, al di là di ogni retorica, come la guerra sia servita a mantenere un pericolante status quo, come peraltro annota anche Michel Corday all’inizio dell’ultimo anno di guerra: “Siamo davvero allo scontro aperto tra il popolo e i suoi governanti, quel popolo che pretende di sapere perché i governanti lo costringono a combattere”. Per tutti gli altri, resta soltanto quella che René Arnaud definisce “un’amara soddisfazione al pensiero di aver fatto quello che andava fatto”. Non basterà, e il colpo di scena finale con cui si chiude La bellezza e l’orrore, fa capire come nel futuro generato dalla prima guerra mondiale, resterà soltanto la seconda parte del titolo, elevato alla massima potenza.

lunedì 2 luglio 2018

Ron Leshem

Dall’alto del castello di Beaufort, una vista incantevole si allarga a comprendere gran parte del Libano meridionale fino al confine con Israele: un panorama di pendii ondulati e frutteti e strade che si snodano attorno alle colline e dentro a piccole valli. Una posizione strategica, tanto è vero che nel corso dei secoli è passata di mano in mano, dai crociati ai templari, dai mamelucchi agli ottomani, dai francesi ai palestinesi finché non è stata occupata, nel 1982, dagli israeliani che l’hanno tenuta fino al maggio del 2000 e quindi “benvenuti. Se esiste il paradiso, il panorama è questo, se esiste l’inferno, ci si vive così. Ecco a voi l’avamposto di Beaufort”. Nella fortezza è protagonista una pattuglia di soldati guidati da Erez, che ha un’indole esuberante, poco propensa a considerare l’obbedienza una virtù e sempre in cerca di guai. Un “profilo problematico” per l’esercito a cui viene affidata una missione senza possibilità di equivoco: “Nessuno pretende da te dei terroristi; non vogliamo scontri. Tu hai un solo obiettivo: sei salito qui con tredici soldati, e voglio che tu scenda con tredici soldati sani e salvi, senza un graffio, tutto qui”. La consegna contiene tutti i paradossi del Beaufort: fare da bersaglio e cercare di sopravvivere, restare immobili ed essere pronti a scattare, aspettare di partire e aspettare di arrivare. Per la sua conformazione, gli alloggi del Beaufort fanno vivere  i 13 soldati in una promiscuità tale che “a occhi chiusi sei in grado di sapere in qualunque istante chi ha scoreggiato dal semplice odore. È questo il metro della vera amicizia”. Ron Leshem si immerge proprio nei sotterranei, nei rifugi, nei sentieri senza alcun filtro e il romanzo è monolitico come la ridotta Beaufort: con il ritmo serrato scandito da una parte dal linguaggio della burocrazia militare (comprese le sigle delle armi a punteggiare ogni singola frase) e dall’altra dal gergo dei 13 soldati che devono scontare turni di guardia di sedici ore, pattugliamenti, scontri a fuoco, granate in arrivo e in partenza, e lunghi momenti di inerzia e di stanchezza finché non giungono alla conclusione che “l’odio è un’ottima soluzione contro la noia”. Le dinamiche che regolano e condizionano la vita al Beaufort sono sempre state quelle della guerra, solo che nel tempo “tutto è diventato più bestiale, ma anche più indifferente” e Ron Leshem riproduce, collegando ogni singola voce, un’orchestrazione cacofonica che, in effetti, David Grossman ha definito “un mondo intero” sul quale, alla fine, cala un inequivocabile epitaffio: “È una follia, è troppo una follia. Apri gli occhi. Sono mille anni che la gente muore su questa montagna, non è arrivato il momento di piantarla. Giuro, non è mica ragionevole, non ha senso che esista, un posto del genere, ’sto Beaufort. Dai retta a me, non esiste. Siamo rimasti tutti bloccati in un incubo, per sbaglio”. È una terra di nessuno minata dai dubbi, più che dagli esplosivi, perché i 13 soldati interpretano in fondo l’incertezza e la delusione nel momento in cui devono passare dall’assedio alla ritirata, che dovrebbe essere una sconfitta, “ma vallo a sapere; magari invece una volta che tutto sarà finito ci chiederemo come mai non hanno pensato a questo ripiegamento qualche anno prima, perché ci siamo immersi nella tattica senza considerare la strategia. Non è semplice, non è per niente semplice”. 13 soldati è un romanzo spigoloso, abrasivo e inafferrabile, che fissa la guerra da vicino, non distoglie lo sguardo e ricorda, per la cronaca, che alla fine il Beaufort è stato fatto saltare in aria con quasi mille mine, lasciando in eredità soltanto pietre e polvere.