venerdì 30 novembre 2018

Ryszard Kapuściński

Le Conversazioni sul buon giornalismo sono concluse da un serrato dialogo tra Ryszard Kapuściński e John Berger che lo introduce con un ritratto in cui dice che “è un viaggiatore geniale e probabilmente conosce il mondo più di chiunque altro. Attraverso i suoi scritti, egli di dà la possibilità di seguirlo nei suoi viaggi e nelle sue osservazioni. Di tanto in tanto, mentre scrive, si ferma, alza lo sguardo al cielo e dice qualcosa di più generale”. Questo succede spesso nel corso degli incontri pubblici poi trascritti in Il cinico non è adatto a questo mestiere perché ispirato da “Mark Twain, Ernest Hemingway, Gabriel García Márquez” e da tutti gli scrittori che “stanno lottando per qualcosa. Raccontano per raggiungere, per ottenere qualcosa”, Ryszard Kapuściński è stato capace di leggere attraverso l’ottica di ogni paese in subbuglio, tutti i limiti di un’intera umanità. Come scriveva in Shah-In-Shah, “le rivoluzioni sono un dramma, e l’uomo tende istintivamente a evitare situazioni drammatiche; tant’è vero che, anche quando vi si trova dentro, cerca a tutti i costi una via d'uscita pur di ristabilire la pace e, soprattutto, la quotidianità. Ecco perché le rivoluzioni non durano molto a lungo. La rivoluzione è l'ultima risorsa: se un popolo decide di ricorrervi, accade solo perché si è convinto, per lunga esperienza, che si tratta dell’unica via d’uscita. I tentativi precedenti di cambiare le cose sono finiti tutti in sconfitte, le altre procedure hanno tutte fallito”. Essendo stato un testimone oculare di gran parte del ventesimo secolo e avendo colto quello che John Berger chiama “il senso del destino” per interi continenti (l’Africa, prima di tutto, a cui è dedicata un’ampia disamina), Kapuściński ribadisce che è “impossibile vivere nel mondo contemporaneo senza cambiare e senza adattarsi ai cambiamenti. Perché la nostra materia è in costante mutamento. E noi stiamo tentando di descrivere il mondo contemporaneo con gli strumenti che andavano bene quaranta anni fa, e che oggi sono completamente obsoleti, fuori fuoco”. I limiti dei mezzi a disposizione li ha sperimentati di persona, dovendo riportare gli avvenimenti di nazioni in crisi o città attraversate dalla guerra potendo contare soltanto su pochi spiccioli e sull’accesso a un telex. Difficoltà (e non pochi rischi) che è possibile superare soltanto con la convinzione che “c’è poi un livello più alto, che è quello creativo: è quello in cui, nel lavoro, mettiamo un po’ della nostra individualità e delle nostre ambizioni. E ciò richiede davvero tutta la nostra anima, il nostro attaccamento, il nostro tempo”. È quel trasporto nel raccontare le notizie che fa di Kapuściński un reporter speciale, avvicinato da John Berger piuttosto all’idea di “un narratore”, comunque capace di delineare con grande precisione gli eventi storici, dal crollo dell’Unione Sovietica ai conflitti sudamericani. Osservazione, conoscenza, attenzione ai dettagli della vita quotidiana sono gli elementi distintivi del lavoro di Kapuściński che comunque alla fine ha l’umiltà di riconoscere che “è sempre stata l’arte a indicare con grande anticipo e chiarezza la direzione che via via stava prendendo il mondo e le grandi trasformazioni che si preparavano. Serve di più entrare in un museo che parlare con cento politici di professione”. Su questo, non c’è alcun dubbio.

giovedì 29 novembre 2018

Hans Magnus Enzensberger

Con uno sguardo rivolto ancora ai Balcani, Hans Magnus Enzensberger tende un filo rosso in un labirinto popolato di spettri, mettendo subito in gioco l’idea che, ormai da tempo, sia in corso il genere umano nel suo complesso abbia avviato la demolizione dello spirito di “autoconservazione”. L’esplodere palese dei conflitti è soltanto l’effetto: stando a Enzensberger, “in realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della vita quotidiana delle grandi città, e questo non solo a Lima o a Johannesburg, Bombay e Rio, ma anche a Parigi e Berlino, Detroit e Birmingham, Milano e Amburgo. I suoi protagonisti non sono soltanto terroristi e agenti segreti, mafiosi e skinhead, trafficanti di droga e squadroni della morte, neonazisti e vigilantes, ma anche cittadini insospettabili che all’improvviso si trasformano in hooligan, incendiari, pazzi omicidi, serial-killer. E questi mutanti, come nelle guerre africane, sono sempre più giovani. La nostra è una pura illusione se crediamo davvero che regni la pace soltanto perché possiamo ancora scendere a comprarci il pane senza cadere sotto il fuoco dei cecchini”. Per individuare le cause di questa devastante involuzione, Enzensberger tende ad acuire le sue osservazioni, non di rado trasformandole in iperboli provocatorie. Quando prova a comprendere i motivi della diffusione di quella logica primitiva di tutti contro tutti, sostiene che “ogni vagone della metropolitana può diventare una specie di Bosnia in miniatura. Per il pogrom non sono più necessari gli ebrei, né i controrivoluzionari per la pulizia etnica. È sufficiente che l’altro preferisca una squadra di calcio diversa, che il suo negozio di verdure vada meglio di quello accanto, o si vesta in modo diverso, parli un’altra lingua, sia seduto su una sedia a rotelle, oppure che lei porti il chador. Qualsiasi tipo di differenza di trasforma in un rischio mortale”. L’asserzione, a saldo degli eccessi, è utile a ricordare che “il desiderio di riconoscimento è un dato di fatto antropologico di fondamentale importanza” e insinua il sospetto che “la violenza collettiva, così si potrebbe concludere, non è altro che la disperata reazione dei perdenti di fronte a una situazione economica senza vie d’uscita”. È la guerra civile “molecolare”, come la identifica Hans Magnus Enzensberger: non lontana dalle visioni ballardiane, permette di vedere con maggiore attenzione alla diffusione endemica di “una furia distruttrice solo a malapena canalizzata in forme socialmente tollerate quali guida spericolata, ingordigia, fanatismo nel lavoro, alcolismo, avidità, mania di citare in giudizio, razzismo e violenza in famiglia”. Le Prospettive della guerra civile conducono alla considerazione che la deflagrazione sia soltanto l’ultimo capitolo, il più appariscente, distruttivo e lancinante, e che sia frutto di una progressione più subdola o, come dice Enzensberger, che “comincia in modo impercettibile, senza mobilitazione generale. L’immondizia cresce lentamente sul ciglio della strada. Nel parco si accumulano siringhe e bottiglie di birra in frantumi”. Particolarmente interessante e pungente il passaggio in cui spiega il meccanismo perverso che ci trasforma in osservatori privilegiati (“È fuori dubbio ormai che siamo diventati tutti spettatori”), una specie di abbaglio che fa leva sulla nostra impotenza per generare un corto circuito morale: “Chi dal terrore delle immagini non viene trasformato in terrorista, diventa voyeur. Ciascuno di noi, in questo modo, si vede sottoposto a un ricatto immanente. Perché solo chi è resto testimone oculare può sentirsi chiedere, con tono carico di biasimo, che cosa intende fare contro quello che gli viene mostrato”. È un’opinione che Ryszard Kapuściński definiva “paradossale”, ma nelle Prospettive sulla guerra civile serve a distinguere il caos dalle sue origini, gli alibi dalle responsabilità, l’apatia dall’innocenza.

venerdì 23 novembre 2018

Jean Baudrillard

A distanza di anni, il diario di viaggio, gli appunti sul deserto, su Los Angeles, sulla California  di  Jean Baudrillard restano densi e affascinanti. Anche la lettura della società “liquida” molto tempo prima di Zygmunt Bauman, ha qualcosa di innovativo se non di profetico, quando dice che “l’America realizza tutto, e lo fa in modo empirico e selvaggio. Noi non facciamo che sognare e ogni tanto passiamo all’azione, l’America invece trae le conseguenze logiche, pragmatiche, di tutto ciò che è possibile concepire” e nella sua opulenza “è il solo paese in cui la quantità può essere esaltata senza rimorsi”. Sono solo le premesse per sostenere che l’America “è la versione originale della modernità, noi ne siamo la versione doppiata o sottotitolata”. C’è l’Europa dietro la prima persona plurale e questa distinzione viene ribadita e ampliata da Jean Baudrillard in più occasioni: “l’America non è né un sogno né una realtà, è una iperrealtà”, altrimenti da considerarsi come “un gigantesco ologramma”. Fin qui si capisce ed è chiarissimo perché nell’America di Baudrillard “ogni cosa viene ripresa dalla simulazione. I paesaggi dalla fotografia, le donne dallo schema sessuale, i pensieri dalla scrittura, il terrorismo dalla moda e dai media, gli eventi dalla televisione. Le cose sembrano esistere solo attraverso questa distinzione anomala. Ci si può domandare se il mondo stesso non esista se non in funzione della pubblicità che può esserne fatta in un altro mondo”. Quando Baudrillard si dedica a “filosofeggiare” (la definizione è sua) risulta invece farraginoso, come se stesse cercando di decifrare un puzzle assemblato con i mille frutti dell’osservazione, lasciando emergere la fretta del movimento, la natura sfuggente dell’America (qui sinonimo degli Stati Uniti) perdendo il contatto con un’entità esuberante ed evanescente. Un tentativo di elaborazione che tende all’eccesso, confondendo il pensiero con la comprensione, i segnali con le direzioni. Non di meno, la sua percezione è ricca e frastagliata e sapendo fin troppo bene che “la storia è piena di trucchetti” e Jean Baudrillard sceglie quindi di far collimare molte idee di America: “Ho cercato l’America siderale, quella della libertà vana e assoluta delle freeways, mai quella del sociale e della cultura, quella della velocità desertica, dei motel e delle superfici minerali, mai l’America profonda dei costumi e delle mentalità. Ho cercato nello scorrere veloce dello scenario, nel riflesso indifferente della televisione, nei film dei giorni e delle notti attraverso uno spazio vuoto, nella successione meravigliosamente priva di ogni emozione dei segni, delle immagini, dei volti, degli atti rituali della strada, ciò che è più vicino a quell’universo nucleare ed enucleato che è virtualmente il nostro persino nelle capanne europee”. Eccola, la singolarità dell’America, alla fine, ovvero “il carattere lirico della circolazione pura” che si condensa nel deserto: è spazio puro senza esserlo, è una dimensione americana prima degli americani, è un punto di domanda, muto e inevitabile laddove, come scriveva Robert Adams, “la bellezza primordiale ci turba per la sua assenza di caratteristiche”. Deve aver fatto lo stesso, identico effetto su Baudrillard quando si è accorto che “il silenzio del deserto è anche visivo. È fatto dell’estensione dello sguardo che non trova niente su cui riflettersi”. È un traguardo che, per la forma, per la sua stessa essenza, permette a Jean Baudrillard di fermarsi e concludere che “l’America corrisponde a una forma latente di esilio, a un fantasma di emigrazione e di esilio, e dunque a una forma di interiorizzazione della sua cultura”. L’ipotesi resta concreta e, a ben guardare, oggi ancora più attuale di allora.

sabato 3 novembre 2018

Jorge Luis Borges

Nelle lezioni americane di Borges, il ruolo delle parole e del linguaggio è al centro di tutte le sei conferenze di Borges che è un insegnante molto acuto e nello stesso tempo capace di fondere un flusso erudito e ricchissimo con un tono molto chiaro, così da ricordarsi di essere stato (e di essere ancora) a sua volta un allievo, di essere rimasto un ricercatore, conscio che “l’importante non è che ci siano pochi modelli, bensì che tali modelli siano suscettibili di variazioni quasi infinite”. Tra i numerosi punti di riferimento richiamati in L’invenzione della poesia va ricordato Macedonio Fernández, per quella particolare motivazione, sempre valida, che diceva: “Scrivo solo perché scrivere mi aiuta a pensare”. L’invenzione della poesia mostra proprio come Borges parta dall’altra riva del fiume (“Vedo me stesso essenzialmente come un lettore. Mi è accaduto di avventurarmi a scrivere, ma ritengo che quello che ho letto sia molto più importante di quello che ho scritto. Si legge quello che piace leggere, ma non si scrive quello che si vorrebbe scrivere, bensì quello che si è capaci di scrivere”) per arrivare a una destinazione che ancora rimane indefinita, per sua stessa ammissione: “Che cosa significa per me essere uno scrittore? Semplicemente essere fedele alla mia immaginazione. Quando scrivo qualcosa, ci penso non in termini di fedeltà ai fatti (il fatto è solo una rete di circostanze e di casualità), ma in termini di fedeltà a qualcosa di più profondo. Quando scrivo un racconto, lo faccio perché in qualche modo ci credo, non come chi crede semplicemente nella storia, ma come chi crede in un sogno o in un’idea”. Borges vede la scrittura come un momento comprensivo e indissolubile dalla lettura da cui non si discosta mai. Sente i limiti della scrittura e tutte le gioie della lettura (“Oggi penso che la felicità di un lettore sia superiore a quella di uno scrittore, perché il lettore non ha problemi, non ha preoccupazioni: è lì pronto per la felicità. E la felicità, quando si è lettori, è frequente”), si considera un “uomo invisibile”, per sua stessa ammissione, proprio in equilibrio tra scrittura e lettura, consapevole che “l’arte è un miracolo, forse un miracolo minimale, ma tuttavia frequente”. Quello di Borges non è understatement, ma piuttosto un modo di avvicinarsi con mille cautele, come un congiurato geloso dei suoi segreti, a “una cosa grande”: sciolta la riserva e consolidata l’unione e la distanza tra lettura e scrittura, L’invenzione della poesia si dedica alla convivenza tra verso e racconto, tra epica ed etica, tra la “la verità sui fatti” e “la verità dei sogni”, tra le metafore di da Shakespeare e quelle di Robert Frost. All’indefinibile (e ancora indispensabile), dimensione della poesia, con tutti i suoi simbolismi e le sue allusioni, fa seguito la presenza inamovibile di quelle trame che “sono state narrate di continuo, senza tregua; sono state messe in musica; sono state dipinte. La gente le ha raccontate più volte, ma le storie sono sempre lì, illimitate”. Lo stupore di Borges è contagioso, eppure resta un osservatore molto attento capace di tenere conto della catena di montaggio dei miti americani con residenza in particolare a Hollywood e comunque di ricordare che “c’è qualcosa nel racconto, nella storia, che continuerà. Non credo che gli uomini si stancheranno di raccontare o di ascoltare storie. E, se insieme al piacere che ci venga narrata una storia si aggiunge il piacere della nobiltà del verso, allora sarà accaduta una cosa grande”. Borges è fiducioso anche nel delineare un futuro per le poesie e le storie, per la scrittura e la lettura. Pur convinto che “il solo modo di trovare una cosa sia quello di non cercarla”, conclude le sue dissertazioni con questo augurio: “Se siamo storicamente consapevoli, penso che dovremmo anche immaginare che arriverà un tempo in cui gli uomini non saranno più così preoccupati della storia come lo siamo noi. Verrà un tempo in cui importerà loro poco delle divagazioni e delle circostanze della bellezza; a quegli uomini interesserà la bellezza in se stessa. Forse per costoro non saranno importanti neppure i nomi e le biografie dei poeti”. Insostituibile.