martedì 23 luglio 2024

Edgar Selge

Il cielo sopra Berlino è tumultuoso e il ritratto di una famiglia, quella di Edgar Selge, triste a modo suo, ne è il riflesso spontaneo, mutevole ed elettrico. La condizione iniziale vede protagonista, su tutti, il padre che è il direttore di “un carcere prussiano costruito a regola d’arte” e in precedenza ha gestito, con gli alleati, la prigionia degli ultimi gerarchi nazisti. Autoritario, e violento (anche incestuoso, per non farsi mancare niente), coltiva l’ossessione per la musica da camera costringendo moglie e figli a seguirlo verso una dimensione irraggiungibile. Sì, perché se all’inizio “in un battito di ciglia, un’idea musicale esplode in un vortice di forme. L’energia si moltiplica. Qualcosa si è risvegliato, ha scoperto le proprie possibilità, e ora che è stato disturbato non lo si può placare. È una traccia che divora la vita”, poi ritmo, intonazioni, sincopi, note e accenti devono essere perfetti e ogni esecuzione deve essere comprensiva di “sforzo, duro allenamento, a volte persino umiliazione. La gioia arriva semmai alla fine, come una sorta di ricompensa”. Prima, è molto improbabile che succeda qualcosa e l’assillo per la musica concepita come una forma rigida, è solo una gabbia protettiva, ma pur sempre una gabbia. Edgar soffre il padre, facile ai ceffoni e alle angherie, e coltiva un rifugio immaginario dove si crede Kesserling, riesumando e rielaborando i fantasmi dei bombardamenti e dei campi di concentramento. La memoria è una condanna capitale: l’ombra luttuosa del nazismo, l’ambiguità delle connivenze, i tentativi di ripristinare lo spirito di una nazione definiscono l’esperienza quotidiana non meno delle macerie, dei limiti economici e, più di tutto, dell’incognita del futuro. Questi sono gli argomenti che aleggiano e sono definiti dalle figure adulte, che Edgar osserva con scrupolo, cercando di comprenderli. Non è facile in condizioni cosiddette normali, perché “tendiamo sempre a pensare che i tempi cambino. Ma è vero solo a metà. Le persone restano uguali”, figurarsi a Berlino, dopo la fine della seconda guerra mondiale. È lì che Edgar alias Etja esce dagli schemi e, noncurante delle sberle in arrivo, si dedica al cinema, si innamora e, non corrisposto, combina un disastro, uno dei tanti, fino a scoprire che “la vita è un edificio fragile, adesso lo sappiamo, e possiamo meravigliarci di essercelo dimenticato”. La scrittura è farcita di riferimenti, con I fratelli Karamazov, Shakespeare, Rembrandt, Mozart e Proust in prima fila, ma è  lineare nello stile, per quanto Edgar Selge continui a saltare per linee temporali non coerenti. Il suo sguardo si trasforma nel corso degli anni e, tra un flashback e l’altro, risale l’albero genealogico segnato dai conflitti mondiali, come se l’intera schiera di parenti soffrisse di disturbo da stress post-traumatico. Finalmente ci hai trovati (nella traduzione di Angela Ricci) è una matrioska che Edgar Selge svela un pezzo dopo l’altro. L’amore, il dolore, le incomprensioni, le speranze sono incapsulate e sfuggenti, tanto da rendersi necessaria un’avvertenza esplicita: “Mi piacerebbe che la vita e le sue circostanze vi si imprimessero così tanto, che a partire da quei tratti fosse possibile ripercorrere a ritroso le loro storie. Ma la vita sui volti cresce in un altro modo. È invisibile. Al massimo si può intuire la forza degli eventi passati, ma non di più”. Assecondando il punto di vista di una giovane anima ribelle, Edgar Selge supera i risvolti autobiografici e con Finalmente ci hai trovati dimostra che esiste ancora la possibilità di raccontare “le onde della vita”, ma anche di mettere in discussione tutto: patria, famiglia, istituzioni, tempo e storia. Per essere un esordio, anche un po’ avanti negli anni, non è poco.

sabato 6 luglio 2024

Lillian Roxon

A Lillian Roxon va riconosciuto, ancora, il merito e il coraggio di una prima ricognizione organica della storia del rock’n’roll. La forma dell’enciclopedia resta una struttura limitata e limitante, ma Lillian Roxon non si è lasciata intimidire e l’ha usata per offrire una sua prospettiva, con un punto di vista ben lontano dall’accademia. È così che La Rock Encyclopedia pur restando un lavoro pionieristico, a lungo, è stato un punto di riferimento. I giudizi sono spesso tranchant come nel caso di Sandie Shaw (“È famosissima nella scena rock inglese più perché in giro da tempo che perché abbia mai fatto qualcosa di innovativo, anche se ha uno stile abbastanza gradevole. In America non s’è mai affermata tanto quanto le sue rivali dirette, Dusty Springfield e Petula Clark”), Odetta (“Cantante folk con una voce cosìforte che quando raggiunge le note più acute ti fanno male tutte le otturazioni della bocca”) o Billie Holiday (“Regina del blues negli anni Quaranta, Billie Holiday è morta tragicamente nel 1959 all’età di quarantaquattro anni. Tutti da Frank Sinatra a Janis Joplin, hanno imparato da lei”). I ritratti sono essenziali, quasi d’un fiato, di getto, come se fosse spinta da un’urgenza, dalla necessità di cogliere il momento, di fermare un’istantanea. Come succede nel caso di James Brown, che descrive così: “Ci saranno di certo performer più bravi (ci sono), che cantano meglio, sono più belli, ma James Brown fa lo spettacolo migliore, quello che vale più di ogni altro, ed è il re. Altri aspirano, costantemente, a quel titolo, ma la sua interpretazione non perde un colpo. Una volta, durante una stagione di rivolte, è finito in televisione e tutti si scordati delle rivolte e sono rimasti a casa a guardare il re”. La scrittura al presente perché è in quel momento che stavano succedendo le cose: Lillian Roxon è stata un’eroina del rock’n’roll, una testimone oculare partecipe e convinta capace di cogliere anche aspetti singolari come il lavoro di un batterista, Kenneth Buttrey (“Ha esordito a Nashville, appare in diversi album country, e anche se non è un batterista rock, ha prodotto quello che dovrebbe essere il più raffinato lavoro di batteria del pop moderno”) o di un pianista, Floyd Cramer (“Viene fuori da Nashville, e ha suonato il piano in letteralmente centinaia di dischi country. Se pensi a un piano stile country, è allo stile di Cramer che stai pensando). Curiosa, ma segno di un’attenzione non casuale, la voce dedicata a  John Cage: “Un compositore americano adesso sulla cinquantina che ha influenzato molti dei musicisti rock più evoluti. Il problema è che quando ascolti Cage capisci che il rock tutto sommato non è così irriverente e audace. Una delle sue composizioni è per dodici apparecchi radio, ventiquattro musicisti e un direttore d’orchestra. La partitura dà la proporzione tra musica e silenzio; il resto è affidato al caso”. Meritano una menzione la panoramica dei Beach Boys, la definizione di soul e il ritratto di Aretha Franklin nonché l’idea che i Grateful Dead “più che una band sono stati un’istituzione sociale” o l’interessante punto di vista (ancora valido, del resto) su Randy Newman: “Una cosa interessante della gente che scrive canzoni per la nuova musica è che non si accontentano più di stare nell’ombra ma s’imputano a volere registrare le loro cose, anche se non sono le voci adatte per cantarle. Di sicuro è stato Bob Dylan il primo. Una volta che ti piace la sua di voce sei pronto per tutto. Il losangelino Newman è anche lui uno di quelli che impari ad apprezzare col tempo”. Il citato Dylan “è un libro, a dir poco” e tanto basta, ma oltre ai nomi conosciuti, Lillian Roxon aveva identificato per tempo il ruolo crescente dei produttori e ancora di più quello dei manager, così come l’importanza degli sviluppi tra elettronica e rock’n’roll, una previsione più che azzeccata. A corollario, La ricostruzione della gestazione dell’Encyclopedia è ancora emozionante: il ritratto della “summer in the city” a New York del 1967 e del suo rapporto con il libro, i motivi che l’hanno spinta a scrivere l’Encyclopedia rimangono tutti validi. C’è altro ancora, come la cronaca del concerto dei Creedence Clearwater Revival, ma quello che c’è di bello nelle pagine dell’Encyclopedia, al di là del metro di giudizio e delle opinioni, è lo spirito intraprendente e indipendente che oggi è raro (se non impossibile) da trovare. 

giovedì 16 maggio 2024

Salvador Dalí

La lucidissima follia di Salvador Dalí condensata nelle pillole di Rompere le regole è una scoperta curiosa, e molto preziosa. L’attitudine poliedrica, esuberante e visionaria dell’artista catalano non è mai stata in discussione, compresi il suo approccio senza lacci, schemi o ordini accademici nonché quell’originalissima percezione quando dice che “la bellezza non è che la somma di coscienza delle nostre perversioni”. Una passione che in Rompere le regole si rivela contagiosa verso colleghi altrettanto avventurosi come Picasso (“La bellezza sarà possibile ancora una volta. E lo dovremo ancora, paradossalmente, allo sforzo assolutamente demoniaco di Picasso che ha preteso di raggiungerla”) e Miró (“Joan Miró restituisce al tatto, al punto, al più lieve stiramento, al significato figurativo, ai colori, le loro più pure virtualità magiche elementari”) senza dimenticare i richiami a Giotto, Breton, Rosseau. L’importanza dello sguardo, da dove tutto comincia e finisce, le assonanze tra la natura e la realtà mettono in prima linea la “luce del cinema”, (“È una luce molto spirituale e molto fisica a un tempo. Il cinema capta esseri e oggetti insoliti, più invisibili ed eterei che le apparizioni delle mussoline spiritiche. Ogni immagine cinematografica è la cattura di una spiritualità incontestabile”), la fotografia e la poesia (“Il lirismo delle immagini poetiche non è filosoficamente importante se non quando raggiunge, nel suo funzionamento, la stessa esattezza che hanno nella loro sfera di azione le matematiche. Il poeta deve, prima di chiunque altro, provare ciò che dice”). Anche in questo caso, Dalí sapeva esprimere un’opinione estrema e coraggiosa (“Qualunque marciume può sempre procurare da un momento all’altro, a chi lo desideri, un’immagine poetica capziosa e adeguata al caso. In qualunque caso”) ma dentro la sintesi di Rompere le regole il leitmotiv conduttore è piuttosto la concezione che “il piacere è l’aspirazione più legittima dell’uomo. Nella vita umana il principio di realtà si erge contro il principio di piacere”. Una constatazione lapidaria, introduttiva a collocare dentro una cornice molto chiara una sorta di stringente e irrinunciabile filosofia, sorretta principalmente dalla convinzione che “ogni autentica rivoluzione culturale deve portare alla elaborazione di un nuovo stile”. È così che Rompere le regole confeziona e comprende un altro codice, nuovi modelli e una forma di pensiero irraggiungibile, che Dalí celebra in ogni singolo aforisma, più di tutti quello in cui dice: “L’arte della percezione ci offre la più grande polifonia formale e coloristica che mai si potesse sospettare nell’arte attraverso le vie dell’astrazione; questo solo fatto arricchisce generosamente le risorse alle quali l’artista può attingere”. Ricorda da vicino Marc Augé quando, pur con un attitudine molto più razionale, scriveva che “l’arte è in sé rivoluzionaria, vivificante e democratica, nella misura in cui, come il rito, offre a tutti e a ognuno l’occasione di vivere un inizio”. Con Dalí, anche nella versione compressa in Rompere le regole, si comincia alla grande.

giovedì 11 aprile 2024

Edward Carpenter

Edward Carpenter è stato un osservatore meticoloso, capace di spulciare nella vita della gente comune (il giro dei prezzi al mercato, per esempio) e nelle abitudini e nei gusti (il rapporto con il cibo, molto importante e dettagliato) per trarne spunti volti a una filosofia Per una vita più semplice. Le analisi di Carpenter rispecchiano il pensiero di Thoreau, ma in una chiave più economica e politica. Una forma di pensiero che tocca gli aspetti rurali e cittadini, la loro composizione, i nessi e le differenze. Le sue parole vanno inquadrate nel periodo storico, alla fine del diciannovesimo secolo, ma la costante ricerca sorretta dalla convinzione che “da qualche parte esiste un principio vitale invisibile, il seme all’interno del seme”, è senza dubbio ancora attuale. La lettura di Carpenter è schierata senza esitazioni ed è volta a cercare  “uno standard di vita migliore di quello dominato dalla frenesia del mercato”. Nelle sue riflessioni mette in discussione la proprietà privata (“Affinché esista la vera proprietà deve esserci un soggetto, una padronanza, un esercizio di volontà e potere”), l’alimentazione, il senso del lavoro e del commercio e torna in continuazione a ribadire che “l’istruzione non trasforma l’uomo in una creatura dai desideri insaziabili, preda di qualsiasi sete o capriccio, bensì gli permette di relazionarsi meglio con il mondo circostante. Gli consente di trarre piacere e nutrimento da un’infinità di cose comuni dalle quali, al contrario, chi è schiavo della società non riesce a trarre né gioia né nutrimento”. Carpenter si infervora nel sottolineare l’unicità della persona dato che “l’uomo crea la società con le sue leggi e le sue istituzioni, e allo stesso modo può attuarne una riforma. Potete star certi che da qualche parte, dentro di voi, si annida il segreto di tale capacità”.  Il suo afflato non è soltanto ideologico, anche se la matrice è chiara e precisa, perché si premura di aggiungere che “prima di poter raggiungere un qualsiasi livello di miglioramento collettivo, è necessario che a cambiare siano gli individui”. Questo è un passaggio indispensabile nell’inoltrarsi nella strada Per un vita più semplice, dove la ricca voce di Carpenter sa passare dalla teoria economica e politica, a cui si dedica con passione, all’esperienza diretta, dove “avere a disposizione un orto anche piccolo fa davvero la differenza”. È proprio l’alternarsi delle diverse prospettive a caratterizzare l’ampiezza delle argomentazioni di Carpenter. Se da una parte dice che “chissà, forse esiste un qualche istinto, con un suo scopo difficile da immaginare, che ci spinge a rendere più artificiali le nostre vite ai livelli cui siamo giunti oggi”, dall’altra sembra rispondere con un senso molto più pratico: “Quando sto lavorando per usare ciò che produco, e coltivo patate pensandole in quanto cibo che qualcuno mangerà, e ragiono su come coltivarle meglio per quest’unico scopo, in quel momento ho davanti a me un bene certo che nessuno può portarmi via”. Nel prodigarsi Per una vita più semplice il rapporto con la terra si fa via via più diretto e profondo, finché Carpenter non rende esplicito il suo manifesto cresciuto nelle meditazioni su Walden: “Dichiaro che preferirei prendere pala e piccone e scavare per un anno di fila, ma all’aria aperta e respirando liberamente, piuttosto che vivere in quella giungla di doveri idioti e di rispettabilità affettata che il denaro alimenta in continuazione”. Per coltivare una scelta, “bisogna essere coraggiosi”, perché “per farla breve, ci troviamo in un’epoca di transizione. Nessun mortale, per quanto influente, potrebbe far durare a lungo una società basata sull’usura, un’usura universale e illimitata”. Magari è anche vero, come dice Carpenter, che “i libri parlano soltanto delle ombre e dei fantasmi della realtà”, ma in questo c’è molta verità.