martedì 10 ottobre 2023

Barbara Stiegler

All’origine del “nuovo imperativo politico” di Barbara Stiegler c’è la disputa tra Walter Lippmann, che ha scritto L’opinione pubblica (fondamentale) e il filosofo John Dewey che mette a confronto nelle sue parti essenziali “una democrazia rappresentativa, governata dall’alto dagli esperti” (Lippmann) e “una democrazia partecipativa, favorevole al continuo coinvolgimento dei cittadini nella sperimentazione collettiva” (Dewey). Il contrasto ha influenzato in pratica tutto il ventesimo secolo americano ed è al centro dell’analisi di Barbara Stiegler (tradotta, introdotta e annotata da Beatrice Magni). Lippmann aveva capito già a suo tempo che “un’intensificazione dei processi democratici di ricerca e di sperimentazione collettiva” non è più ineludibile. Sul fronte opposto, Dewey sosteneva che “un piccolo frammento impersonale, ostinato, automatico e cieco della macchina molecolare è la fonte ultima di ogni azione, quindi di significato e quindi di coscienza dell’universo”. Stessa linea di partenza, ma una distinzione netta ed è così che la dicotomia diventa il sale della scrupolosa dissertazione di Barbara Stiegler: tra impulse (impulso) e habit, (abitudini), tra economia pianificata e libero mercato, individualità e intelligenza collettiva, nei passaggi di “flusso e stasi”, “gradualismo e eterocronia”, passivo e attivo. È un attrito continuo che secondo Barbara Stiegler mette in risalto “la generalizzazione di un modo di strutturare le organizzazioni sociali, in cui si tratta ogni volta di ripristinare, in ogni situazione locale specifica, la gerarchia tra coloro che dirigono l’esperimento e coloro che ne sono il bersaglio passivo e compiacente”. L’elaborazione richiede di districarsi tra Adam Smith e Henri Bergson, nonché di riconoscere l’influenza di Darwin e dei principi evolutivi rispetto alla politica in cui “la continuità della vita significa il continuo riadattamento dell’ambiente ai bisogni degli organismi viventi”. È naturale che lo scontro, tutto nel campo liberale, avvenga assecondando “il legame tra la ricchezza delle nazioni, la divisione del lavoro e la sua regolazione attraverso il mercato” e di conseguenza. Le logiche del “laisser-faire” e dello “status quo” che appaiono contraddittorie sono complementari, perché, come precisa Stiegler, “la morale, propria della specie umana, emerge esattamente da questa tensione perpetua tra habit e impulse, sempre sul punto di entrare in conflitto”. È nella loro intersezione che si arriva al dissidio tra  “una politica attiva e volontaristica di sublimazione delle pulsioni” e “una giuridicizzazione generale delle relazioni sociali” che prevede come risultato conclusivo “l’esclusione definitiva dell’intelligenza collettiva”. È il momento in cui Barbara Stiegler ricorda che “la tensione tra il limite delle capacità di attenzione e il flusso illimitato delle informazioni da assimilare si riverbera in un’ulteriore tensione, quella tra la stasi del sapere scolastico e il flusso permanente del cambiamento”. È un punto di non ritorno ricorrente, ma bisogna riprendere Alexander Rüstow per riconoscerlo: “La prospettiva economica è insufficiente per valutare la situazione vitale. L’essere umano è un essere naturalmente sociale e, per la sua vita e per l’analisi della vita che egli conduce, l’inserimento sociale risulta decisivo”. Dovrebbe essere così, ma la realtà resta ancorata, né più né meno della diatriba tra Lippmann e Dewey, ai principi e alle logiche del mercato e secondo Barbara Stiegler, “questo spiega perché le uniche differenze ammesse nel campo politico siano piccole variazioni, il più possibile neutrali, tali da permettere la riforma graduale delle regole e da allontanare lo spettro del conflitto e della rivoluzione”. La vera sintesi vissuta nella democrazia è quella che Noam Chomsky chiama la “manifattura del consenso” e, in conclusione, la critica di Stiegler si fa circostanziata: “Facendo prevalere, in nome di presunti istinti naturali, l’istituzione economica della proprietà e il gusto per la competizione su tutte le altre forme di interazione, il liberalismo ha commesso un grave errore interpretativo sulle potenzialità molto più ampie dell’impulse. Nell’ambizione di voler liberare il movimento evolutivo dell’innovazione emancipando gli individui dalle limitazioni della società, li ha invece progressivamente intrappolati in vincoli ancora più restrittivi, arrivando persino a standardizzare i loro modi di sentire e pensare”. Un lavoro enorme, che richiede la pazienza di un intero corso universitario, ma che ha un’ottica tale da riassumere con precisione più di un secolo di filosofia, politica ed economia.

lunedì 9 ottobre 2023

Murray Bail

Quando Bertolt Brecht diceva che “oggi guardare un albero è quasi un delitto” non era lontano dalla profezia ed è proprio in quella direzione che si è avviato, con rara maestria, Murray Bail. Per Holland, il protagonista di Eucalyptus, “il mondo degli alberi offriva almeno una solida base. In fondo si trattava di un vero e proprio mondo libero da psicologismi, un universo chiuso e aperto al tempo stesso. Il compito di classificarlo e descriverlo era ragionevolmente complesso. Gli eucalipti, per esempio, erano soggetti difficili, ma si potevano considerare una cosa sola, come una persona riprodotta infinite volte”. Ci sono più di settecento specie e catalogarle tutte non è soltanto l’ossessione di Holland, ma anche il tentativo di ricordare che “l’immobilità è bellezza, sempre”. Ogni tipo rappresenta una ricchezza a sé, tutti condividono qualità vegetali importanti per gli uomini e soprattutto per le api, ma per Holland acquisteranno un valore particolare, assoluto. Quando ritrova la figlia Ellen (“Gli occhi e la mascella della ragazza recavano la sua inconfondibile impronta. Aveva anche lo stesso doppio sorriso, e lo stesso modo di aggrottare le sopracciglia quando doveva rispondere a una domanda. Con le donne del paese era molto educata”) l’elenco completo degli Eucalyptus diventa la prova d’amore per ogni pretendente. La conformazione fiabesca non rinuncia a identificare il particolarissimo territorio dell’Australia “dove i fiumi corrono troppo veloci verso il mare; una svista della natura che ha dato origine a una vasta zona morta, una regione di assurda desolazione, che a nulla serve se non a incoraggiare milioni di fotografi scadenti e a scatenare l’immaginazione di politici, giornalisti e altri pensatori”. È una prospettiva in cui “alcuni popoli, alcune nazioni, vivono in un’ombra perenne. Altri invece fanno ombra: una lunga ombra li precede, persino in chiesa o quando c’è il sole, che viene prosciugato dallo straccio sporco delle nubi”. Ed ecco che, nella trama di Eucalyptus, “il paesaggio s’insinua ancora nella nostra narrazione, anche se non per molto. Una baracca usata per tosare le pecore galleggia sulla propria ombra, ormeggiata alla casa padronale dalla linea indolente di una recinzione. Va da sé che la terra di cui parliamo è come ornata di recinti. La linea retta è sempre, marcatamente umana”. Proprio attraverso Ellen scopriamo che “esistono storie (così le venne spiegato) così inconsistenti da non potersi quasi definirle tali. Ce ne sono alcune che si esauriscono in una riga o due: frammenti senza una fine, troppo aderenti al reale. Sono storie solo in senso lato, o possibili storie”. All’ombra di una foresta “che è linguaggio”, Eucalyptus si eleva ricordandoci che “ogni soggetto al mondo ha la sua storia, è ovvio, che è il risultato di altre storie, e così all’infinito”. La presenza incombente degli alberi e della loro definizione è la prova vivente e ingombrante che “anche un semplice nome può generare una storia. L’imprevisto può manifestarsi nel piccolo e nel grande”. Murray Bail ha il pregevole e raffinato dono di lasciarsi trasportare dai suoi personaggi e la sua scrittura, lirica, elegante ed eclettica, riesce a ribadire che “eppure è innegabile che anche il più breve aneddoto (e qui non diciamo storia) è in grado di produrre un’eco dal potere strano, indelebile. Non dimentichiamo che per la stessa ragione gli artisti attribuiscono un grande valore a disegni e abbozzi”. Non a caso, Michael Ondaatje ha definito Eucalyptus “uno dei più straordinari e meravigliosi corteggiamenti nella storia della letteratura”. Di sicuro, è un romanzo intenso e singolare, che affascina e incanta e, sapendo che “i grandi alberi generano storie ancora più grandi”, asseconda uno sguardo capace di cogliere un frammento e di trasformarlo in qualcosa di infinito.

lunedì 2 ottobre 2023

James Yorkston

Capire cos’abbia valore è un dilemma universale che James Yorkston plasma e modella seguendo Fraser McLeod e i figli Paul e Joseph in un viaggio attraverso l’Irlanda che è “solo un grande denso, umido grigio” con “un pub ogni casa su due”. Una geografia è limitata e la destinazione provvisoria è Dublino dove il padre deve incontrare un editore che ha risposto all’invio dei suoi componimenti versi, ovvero Il libro dei gaeli in sé. Il riscontro ha acceso la speranza di un futuro migliore garantito dalla poesia, poco più di un sogno a occhi aperti. Trovare la direzione per i resti di “una famiglia di tre persone, con una valigia di qualità scadente” è un’impresa epica e dolorosa. Si succedono i mezzi di locomozione: l’autobus (quasi un miracolo), un carretto traballante, ma il più delle volte si ritrovano a camminare in un territorio depresso e ostile, dove “non cambia nulla tra un paese e un altro”. I due bambini costituiscono un microcosmo a parte: sono in lotta perenne con: a) la fame; b) il freddo; c) il sonno. L’idea di felicità è una patata fritta e starsene abbracciati al papà, ma gli eventi li portano a intraprendere ogni forma di resistenza che riescono a ideare nella lotta per la sopravvivenza. In una sosta attorno “a un fuocherello” Joseph e Paul “con le pance che brontolano ancora una volta”, si ritrovano a  chiedersi “se andremo avanti, se andremo via da qui”. Se il leitmotiv resta la strada, la vera poesia è la relazione tra i fratelli e l’amore filiale, a tratti condito con il sollievo della musica e delle canzoni. James Yorkston, che è un valido cantautore, ha il dono della voce e sa replicarla sviluppando Il libro dei gaeli come una lunga ballata: il racconto è lineare, la scrittura è essenziale, ruvida e a tratti persino grezza, ma perfettamente consona allo scopo perché segue da molto vicino i suoi protagonisti finché non si ritrovano nelle pieghe di Dublino. La città, che si rivela una volta di più un groviglio dalle profondità inesplorate, diventa una trappola. Scoprono che l’editore che aveva risposto è soltanto un anello nella lunga catena di illusioni e i bassifondi li inghiottono con una rapidità micidiale. L’intera famiglia si ritrova a prima mendicare sui marciapiedi, proprio per un caso del destino, e poi viene coinvolta in una torbida combine. A quel punto la poesia non serve più e l’intera famiglia può solo contare sull’inventiva dei due fratelli. I passaggi sono repentini, avvengono senza preavviso e in questo James Yorkston è molto acuto nel sottolineare le svolte. Se il percorso verso Dublino appare con tutti i connotati dell’iniziazione (con le prove incontrate lungo il tragitto) e nell’insieme le sfumature suggeriscono l’atmosfera di un romanzo picaresco, Il libro di gaeli si svolge in modo autonomo e coinvolgente. Ci sono almeno due livelli di lettura differenti: le azioni (e di cose ne succedono un bel po’) si svolgono in una definizione sfumata, come se fossero viste attraverso un vetro incrinato. Nello sguardo dei bambini sembra svolgersi tutto al rallentatore e invece la storia si snoda a colpi di frusta, con un background oscuro che riaffiorerà nei finali (sì, sono più di uno) mettendo definitivamente in chiaro quello che vale, oppure no. Per la poesia ci sarà sempre tempo, ma intanto Il libro dei gaeli puzza di alcol, di Irlanda, di strada, di vita, come pochi altri.