lunedì 17 dicembre 2018

Richard Overy

Il 25 agosto 1939 Gran Bretagna, Polonia e Francia siglano un’alleanza per far fronte a un eventuale attacco militare nazista. Il 3 settembre, due giorni dopo che Hitler ha ordinato l’invasione della Polonia, arrivano le dichiarazioni di guerra di Gran Bretagna e Francia. La settimana di passione che portò alla seconda guerra mondiale fu molto simile a un complicato gioco di ruolo. Di volta in volta, aggressori e aggrediti, alleati e nemici, pacifisti e interventisti si trovarono sul lato sbagliato della partita e dovettero interpretare posizioni inedite e traballanti che non gli appartenevano. Lo stesso Hitler, il principale responsabile dello scoppio delle ostilità, la cui storiografia ufficiale ha sempre dipinto come un feroce e monolitico condottiero viene rivisto in una cornice piena di titubanze, indecisioni, debolezze e frustrazioni. La disperazione più grande appartiene però alla Polonia e al suo popolo che, assistendo al balletto delle diplomazie europee, capisce di essere finita in un confronto in cui il suo destino è relativo a ben altre ambizioni. È anche per questo che la sua protezione non venne affidata all’Unione Sovietica, così come ragionò con un’eccentrica metafora lord Halifax, il ministro degli esteri inglese: “Non possiamo pretendere che un coniglio intelligente accetti la protezione di un animale dieci volte più grande di lui, con le abitudini di un boa costrictor”. Anche la posizione italiana sopravvive alla sua stessa ambiguità: alleata di Hitler, vorrebbe però tornare al centro dell’attenzione proponendo, in un ultimo e tardivo tentativo di evitare la guerra, una conferenza di pace. Anche perché, tra altri inconfessabili motivi, “sull’orlo del precipizio” l’Italia non aveva (e nemmeno avrà alla sua entrata in guerra, un anno dopo) le risorse per affrontare un conflitto di proporzioni mondiali. In una serie di goffe prove d’orchestra volte a evitare la ripetizione della storia dell’agosto 1914, quando gli automatismi delle alleanze e delle mobilitazioni militari portarono all’inevitabilità della guerra, le diplomazie e i governi in carica innescarono una spirale di angoscia che, partendo dagli uffici delle ambasciate appestò tutta l’Europa. La guerra era già nell’aria da tempo e l’attesa era snervante, come annotava sul suo diario un testimone polacco, il medico Zygmunt Klukowski: “Stiamo vivendo una tensione insolita. So che la guerra scoppierà presto. La gente è angosciata, e si capisce che tutti vogliono che scoppi subito”. Si capisce perché, in più di un caso, le dichiarazioni di guerra vennero colte persino con sollievo: alla nuova “guerra civile europea” si era arrivati ancora una volta per inerzia, per reciproca diffidenza, per incomprensione, per una visione inadeguata, come quella di Hitler che pensava di ridurre il confronto con la Polonia a un conflitto locale e che invece innescò l’apocalisse che portò alla fine del suo delirante sogno e a una marea di macerie e di morti in tutto il mondo. Si capisce il suo sconforto nel momento in cui Gran Bretagna e Francia decisero, restando fedeli all’alleanza, di intervenire a fianco della Polonia. E si capisce anche quello che il re inglese, Giorgio VI, scrisse in questi giorni: “Quelli di noi che hanno vissuto la grande guerra non ne hanno mai desiderata un’altra”. È una delle tanti voci che Richard Overy, con un minuzioso lavoro di ricerca tra archivi, diari, testimonianze e documenti ufficiali, inserisce in una rappresentazione corale di quella drammatica settimana sul finire dell’estate del 1939, affiancandola a un’analisi efficace, per quanto sintetica, delle condizioni geopolitiche europee. Scrive Richard Overy che “i grandi eventi generano da una dinamica e una storia interiore proprie” e la sua  ricostruzione è precisa e puntuale, affascinante come un romanzo. Non a caso il prologo è affidato a un’illuminante citazione di H. G. Wells, a suo modo profetico, fin troppo. 

domenica 16 dicembre 2018

John Berger

In un villaggio francese, nel cuore dell'Europa, s’intrecciano le storie di un’umanità dolente, che lotta con la quotidianità del lavoro, dell’amore, del destino, quegli incidenti che sono la vita e la morte. A prima vista sembrano racconti, frammenti e impressioni indipendenti l’uno dall’altro, però c’è il filo conduttore della musica che li collega in sottofondo e li annoda tutti, dal primo all’ultimo. Il suonatore di fisarmonica, all’inizio, si riflette in Suonami qualcosa, alla fine, quasi a definire un terreno comune, ancora prima di stabilire le connessioni tra i singoli protagonisti e della descrizione delle loro gesta. Non è soltanto una colonna sonora che attraversa i boschi e i sentieri, ma una sorta di disciplina che delimita le coordinate dell’esplorazione di Un’altra volta in Europa perché “la musica esige obbedienza. Persino la nostra immaginazione è costretta  obbedirle. Quando ci viene in mente una melodia, non riusciamo a pensare a nient’altro. È una specie di tiranno, la musica, ma in cambio ci offre la sua libertà e permette a ogni corpo di sentirsi bello. Il vecchio può danzare quanto il giovane. Il tempo viene dimenticato”. Il ritmo è funzionale a collocare ogni voce nel contesto giusto, con una cura dove coincidono la pratica artigianale,  necessaria a cogliere al volo i suoni e lo slang della cultura orale, e la raffinata cernita delle parole e delle atmosfere. John Berger si pone in una posizione di rispetto, in equilibrio tra le esigenze di una prospettiva panoramica, in grado di abbracciare le tensioni derivanti dalle ondulazioni geopolitiche, e una misura ben più specifica e minuziosa nel delineare i destini individuali dei personaggi. Nel farlo, John Berger elabora, in contemporanea, un’ipotesi validissima a richiamare l’indispensabile concretezza dell’arte di narrare. Succede quando spiega che “se potessimo dare un nome a tutto ciò che accade, non ci sarebbe bisogno di storie. Il fatto è che da queste parti la vita supera il nostro vocabolario. Ci manca una parola e così si deve raccontare tutta la storia”. Il richiamo è coraggioso e continuo, corroborato del resto dalla trasposizione e dell’adeguamento dello storytelling nella pratica della scrittura in cui si percepisce un’urgenza di ripartire dal basso. Il livello non è un vezzo sociologico: si tratta piuttosto di una scelta molto umana perché, sì, “parliamo di passione” come scrive John Berger nell’epigrafe di Un’altra volta in Europa, ma queste storie toccano corde vibranti e delicate, che pochi, pochissimi ormai osano sfiorare. Il lavoro nei campi e in fabbrica, la solitudine, la natura e i suoi eventi, i sogni e le scelte, il destino e la mutevole realtà nei nostri tempi. Tutto inciso sul “cuoio dell’amore” e narrato da John Berger con una sensibilità lirica, poetica anche quando racconta di greggi disintegrati dai fulmini e di operai che scompaiono nelle colate di fonderia, o  spiega con una volgarità popolana che “l’inferno è un posto dove le bottiglie hanno due buchi e le donne nessuno”. Toccante.

domenica 9 dicembre 2018

Paul Carr

È raro trovare un’analisi storica e critica che sappia collocare un personaggio la cui vita è di dominio pubblico in un contesto al di là dei luoghi comuni, dei successi o dei fallimenti, delle chiacchiere o delle ricostruzioni su misura. Paul Carr in Ritorno ai cieli del nord sceglie un soggetto, Sting, per “un senso di appartenenza” che lega entrambi alla realtà di Newcastle. Ottemperando al sottotitolo, ripercorre anche la carriera musicale, Dai Last Exit a The Last Ship, ma è una parte (fondamentale, certo) della “la costruzione di un’identità” e di un personaggio che, nonostante le facili ironie che si porta dietro, mantiene intatti i conflitti e di conseguenza “il complesso rapporto dell’artista con la sua città natale” e con le sue radici proletarie. Diceva Sting nel 1981: “Newcastle è un posto di merda, è una baraccopoli della rivoluzione industriale, e quando hanno abbattuto le vecchie baracche ne hanno costruito di nuove”. La casa dove è cresciuto Sting, racconta lo storico Ken Hutchinson, “aveva due porte adiacenti sulla facciata che conducevano a due appartamenti separati in orizzontale, uno al pianterreno e uno al primo piano. Anche il giardino sul retro era diviso in due, ma in verticale, con due cancelli che si aprivano sul viottolo. In fondo al giardino c’erano i servizi esterni per ogni appartamento”. Si trovava a Newcastle, nella zona di Wallsend, nei pressi di quel cantiere navale Swan Hunter, a cui è ispirato il musical (non un grande successo) The Last Ship, e che “ha dato lavoro per oltre un secolo, dal 1880 al 2006, a innumerevoli generazioni di famiglie nell’area di Wallsend. Al suo apice la compagnia, una delle più grandi al mondo, aveva costruito oltre milleseicento fra petroliere, rompighiaccio, cacciatorpediniere, sottomarini, cargo-liner e chiatte. La prossimità del cantiere navale di case come quelle in Gerald Street faceva sì che gli operai potessero abitare vicino al luogo in cui le navi venivano costruite e varate e riempissero ogni giorno le strade verso il fiume”. Il ricordo di Sting in Broken Music, la sua autobiografia è nitido: “Ogni mattina alle sette in punto suonava la sirena, un triste lamento che chiamava i lavoratori al fiume, e centinaia di uomini sfilavano giù per la nostra strada con le loro tute da lavoro, i caschi e gli stivali. Tranne quelli che estraevano il carbone in miniera e quelli che fabbricavano le funi, sembrava che tutti a Wallsend lavorassero per la Swan Hunter”. L’accenno all’attività estrattiva è poi spiegato da Paul Carr nel dettaglio visto che “come la costruzione delle navi, anche l’estrazione del carbone era un mestiere pericoloso e spesso intergenerazionale: non di rado parecchi membri della stessa famiglia lavoravano insieme, di norma in condizioni difficili”. Non è una coincidenza che, proprio quando la carriera di Sting cominciava ad assumere dimensioni internazionali e connotazioni cosmopolite, con The Dream Of The Blue Turtles, appare una delle canzoni più legate alle sue radici, We Work The Black Seam. Spiegava Sting: “La regione in cui sono cresciuto è letteralmente costruita sul carbone. Ci sono ancora trecento anni di riserve di carbone lì sotto, eppure stanno chiudendo tutte le miniere”. Siamo all’apice del regno di Margaret Thatcher e lo scontro con i minatori resterà un abisso profondo, tanto è vero che un verso di We Work The Black Seam dice “l’universo mi risucchierà sul posto”. Quasi un presagio perché, nonostante la tenuta nel Chiantishire o il sontuoso appartamento con vista su Central Park, Sting ha sviluppato, parole sue, “un’ossessione per la mia città e la sua storia, immagini di navi e del mare, la mia infanzia all’ombra dei cantieri navali”, poi in gran parte confluite in The Soul Cages. Una contraddizione che non è sfuggita nemmeno allo stesso Sting: “C’è dell’ironia nel fatto che il paesaggio dal quale mi ero sforzato in ogni modo di fuggire e la comunità che avevo più o meno abbandonato e dalla quale mi ero esiliato hanno finito per essere lo stesso paesaggio e la stessa comunità a cui ho dovuto fare ritorno per ritrovare la mia musa perduta”. Pur accostandosi con garbo e tatto, Paul Carr non nasconde nulla, dalla traballante famiglia alle lunghe “working week” prima dei Police, ma l’epicentro è ancora lì, sotto i cieli della provincia del nord, tra le navi e le miniere, dove, alla fine, Sting si è ritrovato con tutti i suoi fantasmi.

venerdì 30 novembre 2018

Ryszard Kapuściński

Le Conversazioni sul buon giornalismo sono concluse da un serrato dialogo tra Ryszard Kapuściński e John Berger che lo introduce con un ritratto in cui dice che “è un viaggiatore geniale e probabilmente conosce il mondo più di chiunque altro. Attraverso i suoi scritti, egli di dà la possibilità di seguirlo nei suoi viaggi e nelle sue osservazioni. Di tanto in tanto, mentre scrive, si ferma, alza lo sguardo al cielo e dice qualcosa di più generale”. Questo succede spesso nel corso degli incontri pubblici poi trascritti in Il cinico non è adatto a questo mestiere perché ispirato da “Mark Twain, Ernest Hemingway, Gabriel García Márquez” e da tutti gli scrittori che “stanno lottando per qualcosa. Raccontano per raggiungere, per ottenere qualcosa”, Ryszard Kapuściński è stato capace di leggere attraverso l’ottica di ogni paese in subbuglio, tutti i limiti di un’intera umanità. Come scriveva in Shah-In-Shah, “le rivoluzioni sono un dramma, e l’uomo tende istintivamente a evitare situazioni drammatiche; tant’è vero che, anche quando vi si trova dentro, cerca a tutti i costi una via d'uscita pur di ristabilire la pace e, soprattutto, la quotidianità. Ecco perché le rivoluzioni non durano molto a lungo. La rivoluzione è l'ultima risorsa: se un popolo decide di ricorrervi, accade solo perché si è convinto, per lunga esperienza, che si tratta dell’unica via d’uscita. I tentativi precedenti di cambiare le cose sono finiti tutti in sconfitte, le altre procedure hanno tutte fallito”. Essendo stato un testimone oculare di gran parte del ventesimo secolo e avendo colto quello che John Berger chiama “il senso del destino” per interi continenti (l’Africa, prima di tutto, a cui è dedicata un’ampia disamina), Kapuściński ribadisce che è “impossibile vivere nel mondo contemporaneo senza cambiare e senza adattarsi ai cambiamenti. Perché la nostra materia è in costante mutamento. E noi stiamo tentando di descrivere il mondo contemporaneo con gli strumenti che andavano bene quaranta anni fa, e che oggi sono completamente obsoleti, fuori fuoco”. I limiti dei mezzi a disposizione li ha sperimentati di persona, dovendo riportare gli avvenimenti di nazioni in crisi o città attraversate dalla guerra potendo contare soltanto su pochi spiccioli e sull’accesso a un telex. Difficoltà (e non pochi rischi) che è possibile superare soltanto con la convinzione che “c’è poi un livello più alto, che è quello creativo: è quello in cui, nel lavoro, mettiamo un po’ della nostra individualità e delle nostre ambizioni. E ciò richiede davvero tutta la nostra anima, il nostro attaccamento, il nostro tempo”. È quel trasporto nel raccontare le notizie che fa di Kapuściński un reporter speciale, avvicinato da John Berger piuttosto all’idea di “un narratore”, comunque capace di delineare con grande precisione gli eventi storici, dal crollo dell’Unione Sovietica ai conflitti sudamericani. Osservazione, conoscenza, attenzione ai dettagli della vita quotidiana sono gli elementi distintivi del lavoro di Kapuściński che comunque alla fine ha l’umiltà di riconoscere che “è sempre stata l’arte a indicare con grande anticipo e chiarezza la direzione che via via stava prendendo il mondo e le grandi trasformazioni che si preparavano. Serve di più entrare in un museo che parlare con cento politici di professione”. Su questo, non c’è alcun dubbio.

giovedì 29 novembre 2018

Hans Magnus Enzensberger

Con uno sguardo rivolto ancora ai Balcani, Hans Magnus Enzensberger tende un filo rosso in un labirinto popolato di spettri, mettendo subito in gioco l’idea che, ormai da tempo, sia in corso il genere umano nel suo complesso abbia avviato la demolizione dello spirito di “autoconservazione”. L’esplodere palese dei conflitti è soltanto l’effetto: stando a Enzensberger, “in realtà la guerra civile ha già fatto da tempo il suo ingresso nelle metropoli. Le sue metastasi sono parte integrante della vita quotidiana delle grandi città, e questo non solo a Lima o a Johannesburg, Bombay e Rio, ma anche a Parigi e Berlino, Detroit e Birmingham, Milano e Amburgo. I suoi protagonisti non sono soltanto terroristi e agenti segreti, mafiosi e skinhead, trafficanti di droga e squadroni della morte, neonazisti e vigilantes, ma anche cittadini insospettabili che all’improvviso si trasformano in hooligan, incendiari, pazzi omicidi, serial-killer. E questi mutanti, come nelle guerre africane, sono sempre più giovani. La nostra è una pura illusione se crediamo davvero che regni la pace soltanto perché possiamo ancora scendere a comprarci il pane senza cadere sotto il fuoco dei cecchini”. Per individuare le cause di questa devastante involuzione, Enzensberger tende ad acuire le sue osservazioni, non di rado trasformandole in iperboli provocatorie. Quando prova a comprendere i motivi della diffusione di quella logica primitiva di tutti contro tutti, sostiene che “ogni vagone della metropolitana può diventare una specie di Bosnia in miniatura. Per il pogrom non sono più necessari gli ebrei, né i controrivoluzionari per la pulizia etnica. È sufficiente che l’altro preferisca una squadra di calcio diversa, che il suo negozio di verdure vada meglio di quello accanto, o si vesta in modo diverso, parli un’altra lingua, sia seduto su una sedia a rotelle, oppure che lei porti il chador. Qualsiasi tipo di differenza di trasforma in un rischio mortale”. L’asserzione, a saldo degli eccessi, è utile a ricordare che “il desiderio di riconoscimento è un dato di fatto antropologico di fondamentale importanza” e insinua il sospetto che “la violenza collettiva, così si potrebbe concludere, non è altro che la disperata reazione dei perdenti di fronte a una situazione economica senza vie d’uscita”. È la guerra civile “molecolare”, come la identifica Hans Magnus Enzensberger: non lontana dalle visioni ballardiane, permette di vedere con maggiore attenzione alla diffusione endemica di “una furia distruttrice solo a malapena canalizzata in forme socialmente tollerate quali guida spericolata, ingordigia, fanatismo nel lavoro, alcolismo, avidità, mania di citare in giudizio, razzismo e violenza in famiglia”. Le Prospettive della guerra civile conducono alla considerazione che la deflagrazione sia soltanto l’ultimo capitolo, il più appariscente, distruttivo e lancinante, e che sia frutto di una progressione più subdola o, come dice Enzensberger, che “comincia in modo impercettibile, senza mobilitazione generale. L’immondizia cresce lentamente sul ciglio della strada. Nel parco si accumulano siringhe e bottiglie di birra in frantumi”. Particolarmente interessante e pungente il passaggio in cui spiega il meccanismo perverso che ci trasforma in osservatori privilegiati (“È fuori dubbio ormai che siamo diventati tutti spettatori”), una specie di abbaglio che fa leva sulla nostra impotenza per generare un corto circuito morale: “Chi dal terrore delle immagini non viene trasformato in terrorista, diventa voyeur. Ciascuno di noi, in questo modo, si vede sottoposto a un ricatto immanente. Perché solo chi è resto testimone oculare può sentirsi chiedere, con tono carico di biasimo, che cosa intende fare contro quello che gli viene mostrato”. È un’opinione che Ryszard Kapuściński definiva “paradossale”, ma nelle Prospettive sulla guerra civile serve a distinguere il caos dalle sue origini, gli alibi dalle responsabilità, l’apatia dall’innocenza.

venerdì 23 novembre 2018

Jean Baudrillard

A distanza di anni, il diario di viaggio, gli appunti sul deserto, su Los Angeles, sulla California  di  Jean Baudrillard restano densi e affascinanti. Anche la lettura della società “liquida” molto tempo prima di Zygmunt Bauman, ha qualcosa di innovativo se non di profetico, quando dice che “l’America realizza tutto, e lo fa in modo empirico e selvaggio. Noi non facciamo che sognare e ogni tanto passiamo all’azione, l’America invece trae le conseguenze logiche, pragmatiche, di tutto ciò che è possibile concepire” e nella sua opulenza “è il solo paese in cui la quantità può essere esaltata senza rimorsi”. Sono solo le premesse per sostenere che l’America “è la versione originale della modernità, noi ne siamo la versione doppiata o sottotitolata”. C’è l’Europa dietro la prima persona plurale e questa distinzione viene ribadita e ampliata da Jean Baudrillard in più occasioni: “l’America non è né un sogno né una realtà, è una iperrealtà”, altrimenti da considerarsi come “un gigantesco ologramma”. Fin qui si capisce ed è chiarissimo perché nell’America di Baudrillard “ogni cosa viene ripresa dalla simulazione. I paesaggi dalla fotografia, le donne dallo schema sessuale, i pensieri dalla scrittura, il terrorismo dalla moda e dai media, gli eventi dalla televisione. Le cose sembrano esistere solo attraverso questa distinzione anomala. Ci si può domandare se il mondo stesso non esista se non in funzione della pubblicità che può esserne fatta in un altro mondo”. Quando Baudrillard si dedica a “filosofeggiare” (la definizione è sua) risulta invece farraginoso, come se stesse cercando di decifrare un puzzle assemblato con i mille frutti dell’osservazione, lasciando emergere la fretta del movimento, la natura sfuggente dell’America (qui sinonimo degli Stati Uniti) perdendo il contatto con un’entità esuberante ed evanescente. Un tentativo di elaborazione che tende all’eccesso, confondendo il pensiero con la comprensione, i segnali con le direzioni. Non di meno, la sua percezione è ricca e frastagliata e sapendo fin troppo bene che “la storia è piena di trucchetti” e Jean Baudrillard sceglie quindi di far collimare molte idee di America: “Ho cercato l’America siderale, quella della libertà vana e assoluta delle freeways, mai quella del sociale e della cultura, quella della velocità desertica, dei motel e delle superfici minerali, mai l’America profonda dei costumi e delle mentalità. Ho cercato nello scorrere veloce dello scenario, nel riflesso indifferente della televisione, nei film dei giorni e delle notti attraverso uno spazio vuoto, nella successione meravigliosamente priva di ogni emozione dei segni, delle immagini, dei volti, degli atti rituali della strada, ciò che è più vicino a quell’universo nucleare ed enucleato che è virtualmente il nostro persino nelle capanne europee”. Eccola, la singolarità dell’America, alla fine, ovvero “il carattere lirico della circolazione pura” che si condensa nel deserto: è spazio puro senza esserlo, è una dimensione americana prima degli americani, è un punto di domanda, muto e inevitabile laddove, come scriveva Robert Adams, “la bellezza primordiale ci turba per la sua assenza di caratteristiche”. Deve aver fatto lo stesso, identico effetto su Baudrillard quando si è accorto che “il silenzio del deserto è anche visivo. È fatto dell’estensione dello sguardo che non trova niente su cui riflettersi”. È un traguardo che, per la forma, per la sua stessa essenza, permette a Jean Baudrillard di fermarsi e concludere che “l’America corrisponde a una forma latente di esilio, a un fantasma di emigrazione e di esilio, e dunque a una forma di interiorizzazione della sua cultura”. L’ipotesi resta concreta e, a ben guardare, oggi ancora più attuale di allora.

sabato 3 novembre 2018

Jorge Luis Borges

Nelle lezioni americane di Borges, il ruolo delle parole e del linguaggio è al centro di tutte le sei conferenze di Borges che è un insegnante molto acuto e nello stesso tempo capace di fondere un flusso erudito e ricchissimo con un tono molto chiaro, così da ricordarsi di essere stato (e di essere ancora) a sua volta un allievo, di essere rimasto un ricercatore, conscio che “l’importante non è che ci siano pochi modelli, bensì che tali modelli siano suscettibili di variazioni quasi infinite”. Tra i numerosi punti di riferimento richiamati in L’invenzione della poesia va ricordato Macedonio Fernández, per quella particolare motivazione, sempre valida, che diceva: “Scrivo solo perché scrivere mi aiuta a pensare”. L’invenzione della poesia mostra proprio come Borges parta dall’altra riva del fiume (“Vedo me stesso essenzialmente come un lettore. Mi è accaduto di avventurarmi a scrivere, ma ritengo che quello che ho letto sia molto più importante di quello che ho scritto. Si legge quello che piace leggere, ma non si scrive quello che si vorrebbe scrivere, bensì quello che si è capaci di scrivere”) per arrivare a una destinazione che ancora rimane indefinita, per sua stessa ammissione: “Che cosa significa per me essere uno scrittore? Semplicemente essere fedele alla mia immaginazione. Quando scrivo qualcosa, ci penso non in termini di fedeltà ai fatti (il fatto è solo una rete di circostanze e di casualità), ma in termini di fedeltà a qualcosa di più profondo. Quando scrivo un racconto, lo faccio perché in qualche modo ci credo, non come chi crede semplicemente nella storia, ma come chi crede in un sogno o in un’idea”. Borges vede la scrittura come un momento comprensivo e indissolubile dalla lettura da cui non si discosta mai. Sente i limiti della scrittura e tutte le gioie della lettura (“Oggi penso che la felicità di un lettore sia superiore a quella di uno scrittore, perché il lettore non ha problemi, non ha preoccupazioni: è lì pronto per la felicità. E la felicità, quando si è lettori, è frequente”), si considera un “uomo invisibile”, per sua stessa ammissione, proprio in equilibrio tra scrittura e lettura, consapevole che “l’arte è un miracolo, forse un miracolo minimale, ma tuttavia frequente”. Quello di Borges non è understatement, ma piuttosto un modo di avvicinarsi con mille cautele, come un congiurato geloso dei suoi segreti, a “una cosa grande”: sciolta la riserva e consolidata l’unione e la distanza tra lettura e scrittura, L’invenzione della poesia si dedica alla convivenza tra verso e racconto, tra epica ed etica, tra la “la verità sui fatti” e “la verità dei sogni”, tra le metafore di da Shakespeare e quelle di Robert Frost. All’indefinibile (e ancora indispensabile), dimensione della poesia, con tutti i suoi simbolismi e le sue allusioni, fa seguito la presenza inamovibile di quelle trame che “sono state narrate di continuo, senza tregua; sono state messe in musica; sono state dipinte. La gente le ha raccontate più volte, ma le storie sono sempre lì, illimitate”. Lo stupore di Borges è contagioso, eppure resta un osservatore molto attento capace di tenere conto della catena di montaggio dei miti americani con residenza in particolare a Hollywood e comunque di ricordare che “c’è qualcosa nel racconto, nella storia, che continuerà. Non credo che gli uomini si stancheranno di raccontare o di ascoltare storie. E, se insieme al piacere che ci venga narrata una storia si aggiunge il piacere della nobiltà del verso, allora sarà accaduta una cosa grande”. Borges è fiducioso anche nel delineare un futuro per le poesie e le storie, per la scrittura e la lettura. Pur convinto che “il solo modo di trovare una cosa sia quello di non cercarla”, conclude le sue dissertazioni con questo augurio: “Se siamo storicamente consapevoli, penso che dovremmo anche immaginare che arriverà un tempo in cui gli uomini non saranno più così preoccupati della storia come lo siamo noi. Verrà un tempo in cui importerà loro poco delle divagazioni e delle circostanze della bellezza; a quegli uomini interesserà la bellezza in se stessa. Forse per costoro non saranno importanti neppure i nomi e le biografie dei poeti”. Insostituibile.

mercoledì 31 ottobre 2018

Graham Swift

Racchiuso in una trama lineare, esile, schematica, La luce del giorno ci ricorda che ogni volta “Succede qualcosa. Si apre una porta, si varca una soglia della quale si ignorava l’esistenza. Avrebbe anche potuto non succedere, avremmo anche potuto non sapere. La maggior parte della vita, forse, è solo la durata di una pena che si sconta”. La raffinatezza di Graham Swift sta nell’inseguire con assiduità il profilo dei suoi personaggi, pedinandoli passo dopo passo, centellinando le parole, e tenendo presente che “siamo cacciatori, ecco quello che siamo, sempre all’inseguimento, alla ricerca della cosa che manca, la parte mancante della nostra vita”. La luce del giorno si svolge tutto attorno a un limitato cast di protagonisti che s’incrociano secondo un ordine sfuggente e del tutto imponderabile perché nella grammatica di Graham Swift “la verità è che c’incontriamo, ci separiamo, andiamo per la nostra strada. Non esistono leggi, non esistono regole. Non siamo qui per seguirci a vicenda, per proteggerci scambievolmente la vita”. Tutto comincia quando George Webb, investigatore privato con un passato ombroso riceve l’incarico da Sarah Nash di seguire il marito, Bob Nash, e l’amante di lui, Kristina Lazic, all’aeroporto di Heathrow, Londra. Lo schema è un cliché, senza dubbio, ma l’interrogativo che si insinua già nelle fasi iniziali sposta La luce del giorno su un altro piano, dove c’è meno intrigo e più tormento: “Come succede? Come si compie la nostra scelta? Qualcuno entra nella nostra vita, e non possiamo più vivere senza di lui o senza di lei. Eppure, senza di lui o senza di lei eravamo vissuti fino a quel momento”. L’imprevisto è l’ombra che delimita La luce del giorno e rimane nascosto in agguato mentre George Webb si assicura che la giovane concubina prenda il volo per Ginevra, prima tappa di un ritorno a casa, verso la Croazia. Il lavoro viene svolto con attenzione e discrezione, ma al ritorno nell’elegante quartiere di Wimbledon e dintorni, Sarah ammazza il marito. , Probabilmente, una vendetta consumata tra le mura domestiche, con il forno caldo e la bottiglia di vino pregiato già stappata. Un omicidio, come tanti, forse. Difficile da decifrare, essendo l’estremo frutto di qualcosa che “potrebbe non capitare mai, potremmo non venire mai a saperlo. Una molla carica dentro di noi in attesa di scattare”. Ancora una volta, La luce del giorno è un equilibrio di rifrazioni: pur centrale nella narrazione, come non potrebbe essere altrimenti, l’elemento delittuoso resta relativo, è soltanto l’effetto, il risultato finale di un continuo proliferare di dubbi. Graham Swift sa che “ci sono dei momenti, ci saranno sempre, in cui non vorresti essere te stesso, non vorresti esserlo mai stato. O in cui riesci quasi a credere che in realtà sia stata un’altra persona, non tu, come avresti potuto essere tu?, a fare ciò che si dice tu abbia fatto”, e riporta l’attenzione al viaggio, persino banale, verso l’aeroporto e quindi all’enigmatico George Webb. La luce del giorno si accende attorno al passato, al presente e a un po’ del suo futuro. È l’epicentro di una serie di personaggi che si muovono in coppia e, quando sono soli, si mostrano in tutta la loro doppiezza, sapendo di non avere alternative (“Scelta? Ce l’hai nel sangue. È quello che faccio, che sono. È quello che facciamo tutti, credo, ognuno a modo suo. Qualcosa nel sangue, nel naso”). Una reazione a catena li unisce: Bob e Sarah Nash, Bob e Kristina, George e la figlia Helen, Helen e Clare, e poi Rachel e Rita che sembra guardarli tutti entrare ed uscire dalla porta dell’ufficio dell'investigatore privato perché è proprio così “c’è sempre quel momento, il momento in cui una porta si apre. E si entra nella vita di un’altra persona”, e tutto cambia, anche La luce del giorno.

mercoledì 24 ottobre 2018

Josip Osti

Una città assediata che pagava a caro prezzo la sua straordinaria identità: come ricorda Tony Judt in Postwar, nella tragedia delle guerre balcaniche, la distruzione di Sarajevo è stato “un particolare motivo di dolore. Anche nelle sue ridotte dimensioni, la capitale bosniaca era realmente cosmopolita: forse l’ultimo dei centri urbani multietnici, multilingue ed ecumenici che un tempo erano stati il vanto dell’Europa centrale e del Mediterraneo orientale”. È l’epicentro di un tessuto lacerato mentre tutto intorno il mondo non riesce a credere ai propri occhi, o meglio, a quello che vede in televisione. Le cronache quotidiane sono uno stillicidio di sangue e l’impotenza di fronte a un massacro metodico diventa la più grande prevaricazione. Josip Osti parte proprio da una routine lancinante: “Appena apro gli occhi, ascolto le prime notizie, li chiudo, quando ascolto le ultime” anche se Le notizie da e per Sarajevo sono sempre peggiori ma a Ljubljana spunta una giornata serena e luminosa. I titoli sono già composizioni e riportano alle headline giornaliere: Il 27 maggio una granata è esplosa in mezzo alla folla che aspettava al centro di Sarajevo di ottenere del pane; per questo motivo una ventina di persone sono morte e il triplo sono rimaste ferite seriamente o più leggermente. Josip Osti è un testimone scomodo, la poesia è un’istantanea in grado di trasmettere l’idea che “Sarajevo è un disegno in bianco e nero” e già nella minimale distinzione cromatica netta “assomiglia a Guernica”. Non è l’unica associazione con la pittura, anzi: quando Josip Osti richiama Chagall e Magritte, ribadisce il tentativo di collocare il terrore, la paura in un contesto surreale dove “l’arte di sopravvivere è essere più veloci della pallottola o non corrergli incontro”. Mentre la cenere di pagine bruciate cade su Sarajevo al posto della neve, restano soltanto i ricordi a cui ancorarsi e mentre Josip Osti in Bandiera bianca  ammette di aver “vissuto in un giardino di parole sotto un tetto di libri”, il tempo fugge come una marea e “di notte, i bambini sono invecchiati, gli anziani sono ritornati bambini, i bambini si sono seduti immobili e pensierosi, come i saggi, i vecchi invece che si ricordano dei giochi non terminati di una volta, non cessano di fare domande alle quali i bambini non sanno dare risposte esaurienti”. Quel passato è disintegrato dalle granate e ferito dai colpi degli sniper, un Vicolo cieco in cui “alcuni muoiono, altri rinnovano i ricordi”. L’ostinato tentativo di dare una chance alla normalità, anche se “Sarajevo è di giorno in giorno sempre più in fiamme” e “per le strade della città, durante il coprifuoco, passeggiavano anche le belve e i matti”, come scrive Josip Osti in Il tempo è meraviglioso ma gli abitanti di Sarajevo non si meravigliano più di niente, è destinato a rimanere solo un’estrema, dignitosa speranza. Josip Osti usa un’immagine crepuscolare per esprimere quella sensazione, accennando prima a Quanto più grande è la fiamma della candela tanto più piccola è la sua scura ombra delineata sul muro, per poi articolarla in modo più compiuto: “Bisogna credere a quelli che dicono che niente brucia sino all’indomani, bisogna credere (anche perché non rimane altro) che la logica della vita sottometterà la logica della guerra, che la gente tornerà alle piccole faccende quotidiane, ma a Sarajevo chi sopravviverà camminerà per le strade invisibile tra gli invisibili”. Finché in una Lettera a Kavafis, quasi confessandosi al grande poeta, si lascia andare: “Nella città assediata la gente, come nelle tue poesie, non sapeva cosa sarebbe stato di sé, senza i barbari, ma alla fine sapeva che non ci sarebbe stata alcuna salvezza”. L’unica opzione è nella Fuga dalla propria pelle, dal corpo fragile e vulnerabile, in cerca di rifugio nella poesia che “è tutto ciò che non è prosa della buia quotidianità, paradiso di questo e dell’altro mondo, tutto ciò che non è l’inferno di Sarajevo”. L’ultimo strillo è già un epitaffio: Non si sa chi sarà il vincitore, ma si sa già chi è lo sconfitto, e l’elenco dettagliato comprende “chi sta da quale parte, sotto quale bandiera, chi sta in città, chi sulle montagne intorno, chi è armato, chi è a mani nude, chi attacca, chi si difende, chi distrugge, chi pulisce le rovine, chi uccide, chi è ucciso, chi è il vincitore, chi lo sconfitto, nella lotta dei condannati a morte”. Quando su Sarajevo cala il silenzio, a Josip Osti resta la malinconica certezza che “hanno cambiato il mondo, ma non l’hanno compreso” e sembra proprio di sentire La voce dall’altra parte del muro che non esiste più avvertire di “non chiedere se questa guerra è realtà o un ricordo del passato”: la fine di una città, e di tutto un secolo.

mercoledì 17 ottobre 2018

Joe Thomas

Nei suoi dipinti, Priscila de Carvalho costruisce città che restano sospese in aria, con linee ferroviarie che si spezzano, elicotteri d’assalto che vagano in cerca di bersagli, grattacieli che arrancano disordinati nel cielo, scale contorte e tante piccole finestre illuminate. Uno dei suoi quadri, Off-Duty Militias, è al centro del rebus di Paradise City ed è una sorta di specchio magico con cui Joe Thomas ci lascia intravedere l’essenza di São Paulo. Fin troppo facile far notare le esplosive contraddizioni tra la verticalità dei grattacieli e le favela incastonate nel fango, il disperato (e ormai insostenibile) fabbisogno di case e la straripante ricchezza (e da lì, la corruzione) generata dal mercato immobiliare. È più interessante, nello svolgersi di Paradise City, rintracciare dentro le caotiche architetture di São Paulo quello che Lewis Mumford chiamava “un ambiguo rapporto con il futuro” e, ancora di più, quel “sistema anarchico e arcaico di segni e di simboli” alla fonte della comunicazione quotidiana, che poi è, in effetti, la sua trama. Massimo De Felice, sociologo che a São Paulo ha dedicato la sua analisi dei Paesaggi post-urbani cita un parola portoghese, “meio-ambiente”, per condensare il senso della megalopoli. La traduzione non è immediata, ma il significato è che “il territorio e la natura non solo non possono essere pensati semplicemente come realtà che ci sono intorno, ma devono essere considerati come elementi che ci costituiscono, come informazioni, sostanze e realtà materiali che risiedono, al tempo stesso, dentro e fuori di noi”. São Paulo è l’alfa e l’omega di Mario Leme, investigatore della polizia (civile) inseguito dal fantasma della moglie, Renata, che ha avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo all’ennesima sparatoria tra forze speciali (militari) e trafficanti. La guerra strisciante nel territorio urbano non risparmia nessuno e Leme è annodato al cappio del ricordo di Renata che lo trascina giù, verso la favela di Paraisópolis alias Paradise City, dove lei (avvocato e attivista) aveva un piccolo baluardo di resistenza umana. In preda alla malinconia, Leme torna spesso in quell’angolo e, proprio lì, assiste ad un altro omicidio. Non una grande novità a São Paulo (“Alcuni giorni sopravviviamo senza un graffio. Altri, no”), solo che ordini superiori gli impediscono di indagare, anzi gli impongono di archiviarlo come incidente. I “sussurri” di Renata lo spingono invece a inoltrarsi in un labirinto borgesiano fatto di case vuote, porte che si aprono e si chiudono, edifici che collassano, donne che scompaiono, diseredati che vagano come spettri e autorevoli membri della comunità coinvolti in ogni possibile speculazione (economica e politica), seguendo “appetiti e istinti: nessun bisogno di riflettere sulle possibili conseguenze”. Leme ha solo due alleati, Lisboa (un collega molto più pragmatico di lui) e Antonia (di cui si innamorerà) per smascherare l’ipocrisia con cui sono resi presentabili volti che nascondono avidità, cinismo e una spicciola propensione a risolvere gli attriti con il ricorso sistematico all’omicidio. Di segnali (e di indizi), Leme ne trova in continuazione, perché si muove in un habitat che pulsa senza sosta, finché la rivelazione non gli arriva osservando dall’alto, ospite (in pericolo) di un lussuoso palazzo:  “Da lassù, la realtà di São Paulo era esposta con chiarezza: una piaga di venti milioni di ratti che correvano e frugavano qua e là alla ricerca di cibo. Ground Zero. È quasi incredibile che i ricchi trovino il coraggio di scendere lì in mezzo di tanto in tanto”. Il finale, come i tratti visionari di Priscila de Carvalho, rimane in sospeso e si capisce che il lavoro di Leme è soltanto all’inizio. Piuttosto, merita una precisazione il titolo: Paradise City, che poi è la versione anglosassone di  Paraisópolis deriva dalla canzone dei Guns N’ Roses, ma, vista la materia torbida e incandescente di  São Paulo, forse era più appropriato Welcome To The Jungle.

giovedì 11 ottobre 2018

Blaise Cendrars

Vita caotica e disperata, vicinissimo ad Apollinaire, poeta e narratore, Frédéric Sauser alias Blaise Cendrars è uno di quegli scrittori folli e arroganti che sembrano saltare fuori all’improvviso da un romanzo di Henry Miller. Nella sua esistenza ha fatto un po’ di tutto e quello che non gli è riuscito nella realtà è stato capace di inventarselo, con una verve cruda e visionaria nello stesso tempo. Diversamente in La mano mozza non ha proprio dovuto immaginarsi nulla: il libro è uno dei resoconti più spietati e coraggiosi della prima guerra mondiale e, nello specifico, dei fronti dell’Artois e della Champagne. Un diario particolareggiato dove Cendrars non risparmia il minimo dettaglio, quasi a voler lasciare impresse sulla carta le esperienze che quotidianamente viveva in trincea. Senza alcuna traccia di retorica, con uno sguardo lucidissimo nel vedere gli effetti devastanti che “l’arte militare” produce sulla civiltà, o su quello che ne resta: “Contemplavo costernato quell’alba livida e il suo spoglio nel fango. Non c’era nulla di solido nel paesaggio sgocciolante, misero, sconvolto, sbrindellato, e io stesso ero lì come un accattone sulla soglia del mondo, inzuppato, invischiato e spalmato di merda da capo a piedi, cinicamente felice di trovarmi in quel luogo e di vedere tutto ciò coi miei occhi. M’affretto a dire che la guerra non è per niente bella e che, specie per quanto ne può vedere uno che v’è immischiato dentro come semplice esecutore, uomo sperduto nei ranghi, matricola tra milioni d’altre, è fin troppo stupida e non sembra obbedire a nessun piano d’insieme ma al caso”. Nemici che vivono ad un passo, ufficiali che si nascondono spaventati, paesi rasi al suolo, vino e sangue che si mescolano in un tempo che sembra non passare mai. Nell’intervallo tra un attacco e l’altro, tra un bombardamento dell’artiglieria e le scariche delle mitragliatrici, confusi da ordini tanto folli quanto perentori, gli uomini diventati soldati cercano in tutti i modi di ricucire brandelli di vita, mentre lottano con i pidocchi, resistono al freddo e alla fame, e attendono un destino ineluttabile, che hanno già visto nel monotono ripetersi di giornate tragiche. Cendrars è sempre meticoloso, attento e dolente nel riportare ogni distinto episodio e altrettanto crudo e lapidario nel raccontarlo: “Quando si sono vissute cose simili, chi ci crede più agli slogan degli strateghi. Si mangia la foglia. L’arte militare è briga da vecchie soldatacci incalliti nel mestiere. Uno sporco trantran. Marcia e crepa. E noi marciavamo. E noi crepavamo”. Lui, volontario come tanti, ne uscì vivo, ma La mano mozza del titolo è proprio la sua, visto che perse il braccio destro in seguito alle ferite riportate durante un assalto. Eppure, senza un minimo di autocommiserazione, ha raccontato la guerra come pochi altri hanno saputo fare, sfidando il cinismo di una cronaca diretta, gergale, allineando uno dopo l’altro (certo, “fu un bel massacro”) le storie dei compagni caduti sul campo “tutti morti, tutti caduti, crepati, spappolati, annientati, smembrati, dimenticati, polverizzati, ridotti a zero, e per niente, e che cantavano perché si cantava molto nella squadra”. Come se volesse dargli ancora un po’ di vita: per quanto popolata da fantasmi, paure, incubi, La mano mozza è un florilegio di umanità a cui soltanto la folle libertà di Blaise Cendrars poteva prestare una voce.

venerdì 5 ottobre 2018

Zoé Valdés

Cuba, oggi: “Eccomi in strada, pedalando come ogni mattina, con la testa tra le nuvole, in qualsiasi momento potrei finire sotto un camion. Vado verso l’ufficio: il lavoro. Che lavoro? Sono due anni che faccio tutti i giorni la stessa cosa: pedalare da casa mia all’ufficio, timbrare il cartellino, sedermi alla scrivania, leggere delle riviste straniere che continuano ad arrivare con due o tre mesi, se non anni, di ritardo e vivere tra le nuvole. Non possiamo stampare la nostra rivista di letteratura, di cui sono il caporedattore, per via dei problemi materiali che attanagliano il paese, il periodo speciale e tutto quello che stiamo passando, come ben sappiamo, senza contare quello che ci resta da sopportare. All’ora di pranzo ho quasi sempre finito di vivere nelle nuvole”. Non è difficile capire il perché, una volta avviati verso Il nulla quotidiano descritto da Zoé Valdés: in quel momento tutte le contraddizioni cubane, l’embargo e l’isolamento internazionale si scontrano sui piatti vuoti e anche tenere in vita una rivista letteraria diventa qualcosa di avulso dal vivere quotidiano, tutto concentrato sui diffusi tentativi di sopravvivere. Per Patria, la protagonista, sembra essere tutto più difficile fin dalla nascita (e chissà che il nome non nasconda qualche intento metaforico) attraverso una stagione di amori e passioni che la vede scontrarsi inevitabilmente con l’intricata e a tratti inesplicabile realtà cubana. Zoé Valdés ha il pregio di scrivere un romanzo coraggioso e pungente, che non si adegua né all’esotico pauperismo di altri narratori cubani, né al tentativo di abdicare alla propria identità. Con qualche punta di lirismo, riesce a ritrarre il mondo di Patria e di Cuba, cogliendone esattamente il tempo e la sua dimensione, vagamente prossima ad un cosmico buco nero: “La giornata lavorativa è finita, non perché sia giunta l’ora di andarcene, ma perché è di nuovo andata via la luce e non solo il computer e la fotocopiatrice, ma anche le macchine da scrivere sono elettriche, e la nuova ragazza che lavora alla banca dati ha ancora una volta perso tutto perché non ha fatto in tempo a salvare le informazioni, domani dovrà ricominciare da capo e forse quando starà per finire la luce se ne andrà di nuovo e lei dovrà ripartire da zero, e così via nei secoli, dei secoli, amen”. La voce è acerba, forte, orgogliosa persino nell’ostentare i propri limiti, quando Zoé Valdés alias Patria conclude così la battaglia con Il nulla quotidiano: “Sono il prodotto di pessime professoresse di spagnolo. Non mi faccio illusioni, ho dubbi nella costruzione delle frasi lunghe, mi perdo in un guazzabuglio di chiacchiere inutili, avrei dovuto leggere di più Lezama Lima e Proust. Mi sbaglio con la concordanza dei tempi, lo so, non c’è bisogno di dirmelo”. Del resto non serve la Recherche per raccontare “il dolore quotidiano, il terrore di saperci improvvisamente inutili, il rancore verso il nulla” e nello splendore e nel dolore di Cuba, a Patria non rimane non rimane che l’emozione dello stupore: “Piango perché oggi tutto mi succede inaspettatamente, a me cui non succede mai niente, che faccio sempre la stessa cosa: pedalare ed essere tra le nuvole”. Coinvolgente.

mercoledì 3 ottobre 2018

Laura Barnett

A sessantacinque anni, Cass Wheeler decide di affidarsi ancora alla musica e, nel giorno della presentazione del suo Greatest Hits, rivive ogni pagina di un diario emozionante e doloroso. Aveva cominciato ascoltando “Bob Dylan. I Beatles. I Kingsmen”, poi Rolling Stones, Fleetwood Mac e Beach Boys. La magia scaturita da quei dischi era che “la sua urgenza, il suo frenetico frastuono, sembrava essere l’unica cosa in grado di scuoterla e di farle sentire qualcosa”. Una passione intima, preziosa, perché la musica “era vera, reale e rispondeva solo alle proprie regole”, e l’ha aiutata a superare la fuga della madre e la depressione incalzante del padre. Sulle corde delle chitarre e attraverso le canzoni, Cass ha trovato anche la complicità e l’amore di Ivor Tait, a sua volta cantante e chitarrista che diventerà partner sul palco e nell’avventura discografica nonché suo marito. Cass Wheeler è ottenuta da un assemblaggio di Joan Baez (la fonte d’ispirazione principale), Carol King, Carly Simon, Judy Collins, Sandy Denny (“che teneva in pugno il pubblico in quel locale a lume di candela”) e (forse più di tutte) Joni Mitchell, ma a guardare bene ci starebbe anche un piccolo accostamento con Linda e Richard Thompson. Lo stile è originato dal folk si evolve dentro il pop, dalla bucolica campagna inglese alla Swinging London, e da lì via nella rivisitazione dell’aura dell’epoca con le droghe e le promiscuità, le trasformazioni e le mode, i viaggi e i tour in America, l’evoluzione dell’industria discografica e della tecnologia , con gli alti (e soprattutto) i bassi, senza “nessuna crepatura o spostamento improvviso, nessuno schianto né caduta, ma un processo di cedimento lento e graduale, il bello che si trasforma in brutto e la luce che finisce per scivolare nel buio”.  Il tono scelto da Laura Barnett è lineare, accomodante, senza particolari pretese stilistiche, semplice e con una leggerezza ideale per passare attraverso le forche caudine dello show biz e negli anfratti più dolorosi della vita. Usa con disinvoltura i luoghi comuni e i cliché di cui si nutrono i meccanismi del pop, facendoli diventare altrettanti passaggi nel raggiungere la formazione del Greatest Hits che diventa così una retrospettiva della vita e non soltanto della produzione musicale di Cass Wheeler. Mentre l’antologia prende forma nel soggiorno della sua casa, attorniata soltanto dall’inner circle più fedele e rispettoso, e con un bicchiere di vino in sospeso, Cass Wheeler si accorge di aver vissuto una simbiosi costante su un filo di rasoio: la musica offre tutto, ma prende tanto, e a lei rimane sempre un vuoto, una lacuna, una ferita. La sua personalità è fragile e tenace nello stesso tempo: ha saputo superare ostacoli brutali, ma non riesce a districarsi dalle ombre e, nel giorno del Greatest Hits, ammette che “un senso, in questa vita vertiginosa, esasperante, impossibile e meravigliosa, non si può davvero trovare; come, certo, neanche al suo apice, al suo crescendo, nella sua fatidica perdita”. Non di meno, proprio grazie alle canzoni, Laura Barnett riesce a generare una certa armonia tra la cantautrice e la sua vita privata: dove un equilibrio resta abbastanza improbabile, nei temi evocativi e/o introspettivi (interpretati nella realtà da Kathryn Williams in Songs From The Novel Greatest Hits) vanno cercate le corrispondenze di un’autobiografia travagliata, spesa tra l’idea di cogliere ogni opportunità verso il successo e d’altra parte all’inseguimento di una fugace felicità. Allo scadere del giorno del Greatest Hits, “tre minuti a mezzanotte”, ecco l’epifania (e il dilemma) nella notte inglese: c’è un prezzo da pagare, ma per capire se ne vale la pena (oppure no) bisogna arrivare fino in fondo.

mercoledì 26 settembre 2018

Anna Ruchat

Una tensione non comune pervade le storie allineate in Gli anni di Nettuno sulla terra: i racconti tendono sempre a una fine. Può essere il crepuscolo dell’estate verso l’autunno, un anno che se ne va sfumando in un altro, la domenica sera, pensando che “domani non è lunedì, ma ciò che mi stupisce è quel finalmente detto con aria sorniona, come una confidenza, gli occhi stretti, ma luccicanti, quel finalmente che sembra una promessa: domani sarà qualcosa di diverso da questa infinita domenica che è la vita nelle sue zone estreme. O forse si è solo confuso con i santi e questa monotonia di gesti, questo ripetersi di volti che con lui invecchiano, sono davvero la barra di sostegno di un’esistenza che procede senza fretta, con grandiosa, malinconica ironia, verso la sua conclusione”. L’atmosfera condivisa è in bilico, tra una conclusione attesa, prevista e una piega che ha “qualcosa di inevitabile”, come scrive Elio Grasso in una postfazione ricca di spunti. Le storie sono brevi e seguono un itinerario nel tempo ininterrotto, che è lineare rispetto ai dodici mesi (identificati attraverso altrettanti racconti, nella sequenza corretta del calendario) ma eccentrico nella datazione degli anni, che si intravedono nelle notizie riportate a piè di pagina, all’inizio di ogni racconto. Hanno una funzione specifica, meglio descritta da Elio Grasso: “La pietà d’essere anonimi trova sostegno negli episodi storici, quanto vicini o lontani non si può sapere, ma che vergano tutti in una sostanza solenne contratta come se l’intero spazio esistente venisse curvato su se stesso dall’enorme massa di Nettuno”. Il tempo incapsulato nelle stazioni, in appartamenti gelidi, nelle strade, in Festa di mezza estate (un sogno musicale in equilibrio su tre pagine), scorre veloce e non passa mai, come in una labirintica promenade di Peter Handke, ma Anna Ruchat è molto più discreta nell’avvicinarsi ai suoi personaggi e nell’inquadrarli con chiarezza in un momento sfuggente, unico. Spesso si tratta di segmenti di viaggio: c’è sempre un treno che parte dalla Svizzera per andare a Parigi (Hotel Samarcanda e Il visone), a Roma o verso la Germania, dove Uomo tedesco all’alba celebra il suo stato zen ricordando che “la vita prosegue sempre, anche oltre la distruzione, ma le direzioni che prende sono imprevedibili”. Altrimenti sono frammenti di dialogo, il più delle volte tra donne, mogli, madri e figlie ritratte da Anna Ruchat nella fragilità, nella forza, nella straordinaria normalità con cui si scontrano con piccoli e grandi cambiamenti della storia. La protagonista, disorientata eppure consapevole, che affronta La gelata del ’63, è la prima figura a sfidare le zone grigie della vita (compreso il finale a sorpresa), così come il signor K., e nel nome non è difficile intravedere un omaggio a Kafka, è l’ultimo, quando ormai “sono i primi giorni di dicembre e c’è un’aria di smobilitazione”. Quel piccolo ricamo letterario che è Il cappello funziona come commiato, almeno quanto l’epigrafe di Wloder Goldkorn, tratta da Il bambino nella neve, coglie l’esatta dimensione in cui sono avvolti Gli anni di Nettuno sulla terra: “Preferisco che la memoria sia abitata da fantasmi, ombre, immaginazione; diffido di chi vuole che il ricordo sia sempre verificato. La memoria è tale quando è avvolta nella nebbia e soggetta a cambiamenti vale a dire quando è viva”. Anna Ruchat traduce questa visione in modo speculare, trovandogli una collocazione molto più precisa: “Noi esseri umani non facciamo che inventarci sempre nuove fantasie, amori infelici, torti subiti, carriere, per poi vivere nella nostalgia di altri mondi. L’unica via di accesso alla creazione è questa terra”. Una definizione razionale ed elegante, così come sono Gli anni di Nettuno sulla terra. 

lunedì 24 settembre 2018

Liza Cody

Tutto quello che avreste voluto sapere sul rock’n’roll business, raccontato come se fosse un thriller o una spy story. Non per niente, Liza Cody ha trascorsi di autrice di genere alle spalle: manda avanti infatti due serie, tra il noir e il mistery, dedicate rispettivamente a Eva Wylie (atleta e guardia del corpo) e ad Anna Lee (investigatrice privata). La ragazza che voleva di più non appartiene però nessuna delle due: Linnet Walker, detta Birdie, si trova nella scomoda posizione di compagna e vedova di una rock’n’roll star scomparsa nell'incendio della sua casa. Immaginatevi Courtney Love, e andiamo avanti. Bistrattata dai fans, perseguitata dal fisco, inseguita dagli spettri e pedinata da un manipolo di squali dello show biz che vogliono il classico lost album (un dettaglio che piacerà sicuramente a Lewis Shiner) nonché un documentario inedito girato ai Caraibi, perché è meglio raschiare il fondo del barile, intanto che c’è, visto che “il mondo della musica è un palo della cuccagna: difficile scalarlo, maledettamente facile scivolare giù”. Birdie Walker se la cava con truffe da poco, un lavoro flessibile e l’incarico di seguire una rock’n’roll band esordiente. I consigli che offre agli InnerVisions, nome preso in prestito da un disco di Stevie Wonder, valgono per tutti, indistintamente. Identikit del frontman e del leader di una rock’n’roll band: “Quello che vogliono tutti è una voce solista da cui non si riesca a staccare gli occhi, e non sono cose su cui si possa lavorare come fa un tennista su un colpo. Un cantante ce l’ha o non ce l’ha: è uno dei misteri della vita”. Regole d’ingaggio dello show biz: “I cani grossi mangiano i cani piccoli. I cani piccoli mangiano i cani più piccoli e così via, fin giù alle pulci che si portano addosso. Povere pulci, che saltano di qua e di là, in cerca di un boccone, a scrivere le loro canzoni sperando in una particina di successo nel circo delle pulci: gnam-gnam, e sei finito”. Definizione insindacabile di ruoli, mansioni e identità: “In questo gioco, chi ti fa il bucato non conta una scoreggia. Contano le illusioni”. Per non dire del diktat fondamentale: “Ogni canzone deve avere una fine. Quando la registri, se non ti viene in mente una buona fine, quello che ti salva è sfumare, ripetere sfumando. In scena, dal vivo, bisogna invece trovare un finale e darci dentro con convinzione. Offrire al pubblico un motivo per un applauso. Ovviamente può anche andare a finire nell’altro modo: magari dai al pubblico l’occasione perfetta per fischiare e cacciarti giù dal palco fra lattine di birra e altri generi di proiettili. Al termine di una serata puoi ritrovarti nel camerino tremante, a giurare che con la musica hai chiuso per sempre. Se non amate il rischio, dico alle mie band di marmocchi, trovatevi un posto in una lavanderia. È molto, ma molto più sicuro”. Naturalmente, è facile pensare che si tratti di luoghi comuni, ma Liza Cody conteggia anche quest’eventualità e così La ragazza che voleva di più è molto naturale nel ricordare spesso “di non diffidare dei cliché del rock’n’roll; se ci sono è per un motivo: funzionano. Proprio così. Birdie Walker lotta su ogni fronte, forte dell’esperienza già vissuta, di un pragmatismo che è l'unica salvezza nello show biz, di un pizzico di astuzia tutta femminile e della consapevolezza che “la gente pensa quello che le va di pensare. La verità non interessa. Vogliono solo una bella storia. Con le foto”. Scoprite da soli i dettagli dell'affaire e i fuochi d’artificio finali: La ragazza che voleva di più si legge d’un fiato perché Liza Cody scrive senza grandi ambizioni letterarie, ma con un senso del ritmo e con una conoscenza del rock’n’roll business che meriterebbero un Grammy.

martedì 18 settembre 2018

Paul Gauguin

Nelle Chiacchiere di un imbrattatele Paul Gauguin svolge l’apologia di una libertà che è “il diritto di tutto osare”. Anche se il tono è gioviale, spesso ilare e scoppiettante, il punto di vista è tranchant, proprio a partire dalla definizione di artista che “è un uomo superiore, e per questo del tutto in grado di comprendere la propria arte, e in seguito di paragonarla alle arti letterarie (nel caso il paragone fosse utile); o è un uomo inferiore di cui non c’è più motivo di occuparsi, cervello e volontà senza forza”. La distinzione è solo uno strumento preliminare, “capire tutto è bello, collegare tutto è meglio: ma anche creare è pur qualcosa”. La traduzione per Gauguin parte dalla specificità della sua arte quindi suggerisce che “saper disegnare non significa disegnare bene”, una prima, estrema distinzione che conduce necessariamente alla certezza che “l’artista si riconosce nella qualità della trasposizione”. Le sue “chiacchiere” diventano una specie di dizionario delle idee sulla pittura, un tentativo da rabdomante di elencare quelle emozioni di fronte a un’opera d’arte che “dipendono da molti fattori al di là della comprensione, così come è vero che una madre non trova mai il proprio figlio troppo sporco. È come dire anche che il critico deve, se vuole fare vera opera di critica, diffidare prima di tutto di se stesso, invece di cercare di ritrovarsi nell’opera”. In particolare, partendo dal fatto che “il pittore prende un modello come rappresentativo della leggenda: non sono gli attributi, il simbolo che ha in mano il modello, ad indicare la leggenda, bensì lo stile. Altrimenti è un gioco di prestigio per far credere di esserci riusciti. È proprio qui che il disegno comporta delle sfumature, passando dal possibile all’impossibile”, Paul Gauguin ricorda che “non è il sistema a fare il genio”, piuttosto una disposizione, un’attitudine, uno spirito che predilige le domande, i dubbi, l’osservazione, la contemplazione. In effetti, si chiede nel bel mezzo delle Chiacchiere di un imbrattatele: “Le idee sono come i sogni, un assemblaggio più o meno riuscito di cose o pensieri intravisti: sappiamo veramente da dove vengono?”. La domanda spiega poi il corso di quel metabolismo artistico che Antonin Artaud interpretava come un “ingrandire le cose della vita sino al mito”, ma che secondo lo stesso Gauguin si esprimeva a fondo nel trovare “un senso completamente diverso”, perché “se stati d’animo in cui ci troviamo hanno una grande influenza sulla nostra lettura, hanno anche, ma in modo più importante, un’influenza sulla nostra opera”. A quel punto il viatico per l’artista diventa anche l’unica morale a cui attenersi che Paul Gauguin declama così: “Non avere più moglie né figli che vi rinnegano. Poco importano le ingiurie. Poco importa la miseria. Tutto questo come condotta d’uomo. Come lavoro. Un metodo; di contraddizione se si vuole. Affidarsi alle astrazioni più forti. Fare tutto ciò che era vietato, e ricostruire con fiducia, senza paura di esagerare: esagerando perfino. Imparare di nuovo, poi, una volta imparato, ricominciare da capo: vincere tutte le timidezze, qualunque sia il ridicolo che ne possa derivare”. La sicurezza dell’asserzione non ha alcuna garanzia: è propria dei visionari che sanno guardare oltre i contorni, le forme e le luci, in cerca di un altro modus vivendi. Brillante.

martedì 11 settembre 2018

Ben Rawlence

In quello che Mike Davis chiamava Il pianeta degli slum, l’agglomerato dei campi profughi di Dadaabo (nelle sue due estensioni) e Hagadera, ovvero La città delle spine, avrebbe occupato una posizione speciale. Non è una coincidenza: la conclusione a cui arriva Il pianeta degli slum collima con l’inizio della storia di Guled, uno dei nove protagonisti e testimoni del reportage di Ben Rawlence. Il punto d’incontro è la Somalia del 1993, quando il connubio tra carestia e guerra civile ha dissolto una nazione e inaugurato un esodo senza fine. Le immagini di Black Hawk Down sono tutto ciò che ci resta, come a ricordare che gli interventi occidentali finiscono per essere inutili, se non dannosi, e venticinque anni dopo, la Somalia continua in gran parte a essere un luogo invivibile. Tra restare nel pericolo incombente e lasciare la propria terra per un campo profughi in Kenya la scelta è obbligata perché “quando c’è la guerra, non si prendono decisioni razionali e ponderate: si compie un passo alla volta, come quando si scala una parete di roccia, sperando di non cadere nell’abisso”. È così che è sorta La città delle spine: più di cinquecentomila persone alloggiate in ripari di fortuna, sotto una tenda, se non sulla nuda terra, esposti alle intemperie, alle peggiori privazioni, alle minacce e, più di tutto, all’indifferenza perché, come scrive Ben Rawlence, “la mitologia e la religione affondano le loro radici nella cultura dell’esilio, ma ciò nonostante non siamo in grado di riconoscere che i profughi sono in primo luogo esseri umani”.  Le storie di Guled, Gab alias Ahmed, Apshira, Billai, Christine, Fish, Idris, Isha, Kheyro, Mahat, Maryam, Muna, Nisho, del professor Indha Dae e Tawane raccolte da Ben Rawlence raccontano la vita di un coacervo di disperazione, fatica, abulia. In transito tra una fuga e l’altra,  si ingegnano ogni giorno per risolvere piccole e grandi incombenze quotidiane, ma La città delle spine è ben lontana da un’idea, anche minima, di ospitalità. Ogni piccola necessità diventa fonte di umiliazione e nei campi bisogna pagare due volte tutto, che poi è quel poco che serve: acqua, latte, grano, riso. Ben Rawlence non nasconde nulla di quello che avviene tra le pieghe degli aiuti umanitari e degli uomini del governo del Kenya. La corruzione endemica che filtra da ogni istituzione fino ai campi è una forma di sfruttamento assiduo a cui i rifugiati non possono sottrarsi perché “sono generalmente persone docili e prive di alcun potere reale, che obbediscono agli ordini, temono l’autorità e implorano per ottenere ciò che spetta loro di diritto”. La constatazione di Ben Rawlence ricorda che lo status dei rifugiati resta indefinito in un esilio perenne e, per quanto possa sembrare paradossale, pur grondanti miseria, rappresentano un’opportunità. Essendo un crocevia delle attenzioni e degli aiuti internazionali, La città delle spine diventa un oggetto del contendere politico e i profughi si ritrovano a essere, loro malgrado, parte delle querelle elettorali del Kenya, senza che si riesca a intravedere una concreta possibilità di garantire un minimo insindacabile di vivibilità. Ben Lawrence ricorda, per esempio, che una delle organizzazioni internazionali aveva promosso la realizzazioni di abitazioni più sicure, sfruttando un innovativo sistema di costruzione, semplice ed economico. Un progetto osteggiato dal governo del Kenya fino a farlo fallire perché le case così ottenute erano di gran lunga migliori di quelle di gran parte della popolazione locale. Basta questo a comprendere che La città delle spine è l’imitazione in negativo di una metropoli che contiene tutte le sofferenze possibili, da un mercato del lavoro assurdo e violento alle irrisolte questioni tribali fino alle infiltrazioni di terroristi e delinquenti comuni. L’alternativa è ancora fuggire, solo che non c’è alcun posto dove andare, soltanto liste d’attesa e code strazianti per qualsiasi cosa. Come se il tempo fosse stato inghiottito dal deserto: tra i fantasmi del passato e un futuro senza speranza, resta l’eterno presente di una città invisibile che Ben Rawlence, dando voce ai suoi poveri abitanti,  ha saputo rivelare in un libro necessario e importante.

sabato 8 settembre 2018

Peter Handke

Il pretesto è una canzone di Van Morrison che Peter Handke elegge a “suo” cantante a cui rubare “la linea della bellezza e della grazia”. Coney Island (dall’album Avalon Sunset) è un frammento di due minuti che celebra le proprietà bucoliche di una passeggiata open air di un’allegra coppia. Niente di importante, si capisce, ma per Peter Handke è il passo oltre la soglia che lo conduce al Saggio sulla giornata riuscita: “L’ascolto attento di un tono mi dà la tonalità per l’intero viaggio della giornata. Il tono non ha bisogno d’una pienezza di suono, può essere uno qualunque, perfino qualcosa che è semplicemente un rumore; l’essenziale è che io riesca a farmi tutt’orecchio per quel tono”.  Comincia così un monologo che in realtà è un dialogo con se stesso (“Chi parla a chi qui? Io parlo a me”) attraverso una vocazione innata alla dissertazione. L’ipotesi della giornata perfetta, “incomparabile” e/o “unica” si presta a più livelli di interpretazione, ma intanto Peter Handke si premura di avvisare il lettore che “l’idea in effetti è un’idea, perché non me la sono fatta leggendo né l’ho escogitata: mi è venuta in un momento di grande difficoltà, con lo slancio che per me è sempre stato degno di fede, lo slancio della fantasia. La fantasia è la mia fede”. La precisazione è utile, visto che il saggio è aleatorio, né più né meno di altre occasioni: quello che preme a Peter Handke non è la dimostrazione sull’esistenza (piuttosto che no) di una giornata perfetta, ma il riversare una serie di quesiti che attecchiscono nel suo eloquio come erbe infestanti (che sopravvivono ben più a lungo di un’idea). La capacità estrema di Peter Handke è quella di sottrarsi a ogni responsabilità per restare ancora soltanto al fluidificare (contagioso) della suo stile finché l’idea della giornata riuscita non si evolve “da un’idea di vita in un’idea di scrittura”. L’intento non è dichiarato, la metamorfosi appare come un processo naturale, per quanto Peter Handke sia esplicito fin dai primi passi: “Io, della giornata riuscita, non ho alcuna visione particolare, nemmeno una. C’è soltanto l’idea, e questo mi fa quasi disperare di poter dare all’immagine un contorno riconoscibile, di poter far trasparire il modello, di poter seguire la traccia luminosa originaria: di riuscire a raccontare della mia giornata, come desideravo tanto all’inizio, in modo puro e semplice”. A quel punto riprende l’invocazione a Van Morrison: “Abbozzami una prima immagine, descrivimi delle immagini! Raccontala, la giornata riuscita. Fai sentire la danza della giornata riuscita. Cantami la canzone della giornata riuscita”. L’ambizione di riuscire a coglierla in flagrante rimane, alimentato da moltitudini di paradossi e di domande (“Fede? Sogno? Visione? Più che altro, almeno al principio di questo periodo, una visione: dei disincantati, liberi da qualsiasi concetto di qualsivoglia fede; una specie di ostinato sognare ad occhi aperti”), da fugaci intenzioni filtrate da Coney Island, compresa l’opzione di “camminare fino alla prima stella”, ma, e non c’è nemmeno il bisogno di dirlo, tutto quello che succede, alla fine, è “che non succede proprio niente”. Eppure Peter Handke non si lascia incastrare nemmeno dalla gabbia che si è costruito e attorno struttura al Saggio sulla giornata riuscita sviluppa un discorso coerente, fluente, senza interruzioni se non quelle “intermittenze del cuore” che poi definiscono un’intuizione, una forma, un pensiero, un modello. Per Van Morrison è “l’inarticolato linguaggio del cuore” e nell’arco di una minuscola ballata esprime tutto, ma lui usa strumenti più istintivi, spontanei e immediati di quelli di cui dispone Peter Handke.

venerdì 7 settembre 2018

John Berger

Operai in fila nella mensa aziendale, le ciotole in mano, un frutto sui piatti. Silenzio. Una cartolina da Ginevra e gli sguardi al momento di controllare i passaporti. Sigarette accese nello scompartimento di un treno che sferraglia verso la Germania. Un brusio. Test clinici a Istanbul. Catene di montaggio a Lione. Una festa di contadini in Kosovo, un gioco di bambini in Sicilia, turisti ad Atene. Quello che è rimasto a casa, quello che si portano dietro i lavoratori migranti: le valigie, e un’immensa solitudine. Le fotografie di Jean Mohr, i volti scavati e le maschere nelle gallerie, gli uomini controllati, misurati e verificati nelle loro “attitudini”, come se fossero parti da incastrare in un insieme molto rigido, sono eloquenti nel mostrare la sofferenza, la nostalgia, la fatica, le aspettative e le delusioni di un viaggio che nasceva con la speranza di trovare un lavoro. L’emigrazione in cerca di un’altra vita o almeno di una dignità è una metamorfosi il cui destino è restare incompiuta. Come scrive lo definisce John Berger, Il settimo uomo è “una specie di album di famiglia di coloro che sono stati costretti, o sono costretti oggi, a lasciare le loro famiglie nella speranza di portare a casa un salario che permetterà a quelle famiglie di sopravvivere”. Le immagini definiscono “un’assenza”. Vengono da aree rurali del Mediterraneo: la Calabria, i Balcani, la Turchia e il corredo iconografico che distingue Il settimo uomo ha un impatto fortissimo nel rendere l’atmosfera: i migranti sempre in transito, in stazione, sulla strada, nelle baracche ai margini della città, come se il loro viaggio fosse infinito, in una condizione impalpabile, quasi onirica. L’avvertenza di John Berger non lascia spazio a fraintendimenti: “In un sogno il sognatore è dotato di volontà, agisce, reagisce, parla e tuttavia sottostà allo svolgersi di una storia su cui ha ben poca influenza. Il sogno gli capita”. Con gli occhi aperti, si vedono i frammenti di un’identità sparsi per tutto il continente, dove comunque se “il soggetto è europeo, il suo significato globale”. Su questo John Berger e Jean Mohr sono chiarissimi, nonostante il carattere movimentato e intuitivo con cui si sviluppa Il settimo uomo, essendo coscienti che “per cogliere l’esperienza di un altro, non basta smantellare e rimontare il mondo con lui al suo centro. Bisogna esaminare la sua situazione per venire a conoscenza di quella parte della sua esperienza che deriva dal momento storico”. La collocazione, fotografia dopo fotografia, e una didascalia dopo l’altra, prende forma in modo eloquente, e per molti versi definitivo quando John Berger scrive con convinzione che “il migrante eredita la povertà. Ma è una formulazione troppo sommaria per rivelare il dramma della sua situazione. Le voci della sua eredità vanno elencate”. Nel libro sono spiegate una per una nel dettaglio ed è per questo che Il settimo uomo, pur risalendo al 1975, resta di un’attualità straordinaria, come se John Berger e Jean Mohr avessero visto attraverso una dimensione ben al di là del tempo e delle geografia.

mercoledì 5 settembre 2018

Enrique Vila-Matas

Perseguitato dall’idea di essere un sosia di Ernest Hemingway, Enrique Vila-Matas ricostruisce i suoi due anni di formazione in una Parigi effervescente e labirintica, prigioniero dell’idea di diventare uno scrittore e ossessionato dalla vitalità della città. Forse la citazione di Samuel Beckett in fondo al libro ha più di un senso, ma colpisce nel segno: “Non s’inventa nulla, si crede di inventare, di evadere, non si fa che balbettare la propria lezione, frammenti di un senso imparato e dimenticato, la vita senza lacrime, così come la si piange. E poi al diavolo”. È l’ispirazione principale, anche se si trova al capolinea, che porta Enrique Vila-Matas a ricostruire i tempi intensi e brucianti vissuti a Parigi sulle orme della Lost e della Beat Generation, ospite di Marguerite Duras. Un’impresa difficoltosa perché “il passato è sempre un insieme di ricordi, di ricordi molto precari, perché non sono mai veri” e la sua ossessione per Ernest Hemingway lo porta spesso a sovrapporre epoche e tempi molto diversi. È quella “sensazione di essere in due tempi e in due posti” che nutre un po’ tutte le pagine di Parigi non finisce mai perché Enrique Vila-Matas si dibatte tra l’estenuante tentativo di dare forma alle sue velleità (il suo lavorio è tutto concentrato su un romanzo piuttosto criptico, L’assassina letterata), la vita rutilante di una città che non dorme mai e sprizza arte da ogni angolo e le pressioni della famiglia che dalla natia Spagna non smette nemmeno un secondo di tormentarlo per riportarlo con i piedi per terra. Di solito è così per tutti e Enrique Vila-Matas, tanto a Parigi nei suoi giovani anni ribelli, quanto oggi, si aggrappa al suo strambo processo di identificazione con Ernest Hemingway non tanto per emularlo o imitarlo, quanto per prendersi la libertà assoluta di scegliersi una faccia, un’identità e una personalità, che lui stesso descrive così: “D’altra parte credo di avere il diritto di potermi vedere in modo diverso da come mi vedono gli altri, vedermi come ho voglia di vedermi e non avere l’obbligo di essere la persona che gli altri hanno deciso che io sia. Siamo come gli altri ci vedono, d’accordo. Ma io mi rifiuto di accettare una simile ingiustizia. Sono anni che cerco di essere più misterioso, imprevedibile e riservato possibile. Sono anni che cerco di essere un enigma per tutti”. In un infinito gioco di specchi e di riflessi confluiscono Rainer Maria Rilke e Henry Miller, Borges e Unamuno, Peter Handke e Van Morrison, Sartre e Platone, Flaubert e Duchamp, Scott e Zelda, tutti radunati in un pirotecnico scintillio di suggestioni letterarie. Pur aiutato dall’anima di una  “festa mobile” che in un modo o nell'altro è stato il cardine per le maggiori espressioni artistiche degli ultimi due secoli, Enrique Vila-Matas magari non è riuscito nell’intento di trasformarsi in un mistero e poi in un mito, ma almeno è riuscito a raccontare la quotidianità rutilante di chi coltiva la vita con quel fertilizzante indispensabile che si chiama ironia, arrivando alla sacrosanta conclusione che “non hai altra scelta che cercare di essere quanto più ostinato possibile, mantenere la fede nell’immaginazione più a lungo degli altri”. In effetti, a Parigi, hanno sempre saputo come si fa.

martedì 4 settembre 2018

Hans Magnus Enzensberger

La mappa con cui si orienta Hans Magnus Enzensberger segue l’elemento naturale delle correnti e dei venti che, da secoli e nei secoli, si sovrappone ai tracciati delle migrazioni. L’indicazione va un po’ oltre le coordinate geografiche, che è sempre utile ricordare, e assume un significativo aspetto simbolico nel confronto tra l’ancestrale vocazione al viaggio perché “la condizione normale dell’atmosfera è la turbolenza. Lo stesso vale per l’insediamento degli uomini sulla terra”. Per decifrare La grande migrazione è necessario superare i luoghi comuni dell’urgenza e attenersi a un approfondimento storico, visto che i flussi migratori non sono una novità di questo o del ventesimo secolo. La sintesi di Enzensberger parte da una constatazione che spesso viene trascurata: alla fonte di ogni partenza, a tutte le latitudini, ci sono “movimenti di fuga che sarebbe cinico chiamare volontari”. Guerre, carestie, persecuzioni o il semplice miraggio di una vita più dignitosa dato che “nessuno emigra senza una promessa” conducono ad affrontare gli imprevisti e i pericoli di vere e proprie odissee che non finiscono una volta giunte a destinazione. L’approdo finale è soltanto il punto di non ritorno di un’evoluzione incompiuta, come specifica con estrema precisione lo stesso Enzensberger: “I grandi movimenti migratori portano sempre a lotte per la ripartizione del territorio. Sono questi conflitti inevitabili che il sentimento nazionale preferisce interpretare come se la lotta riguardasse non le risorse materiali, quanto piuttosto quelle immaginarie. Allora si combatte per la differenza tra autoconnotazione e connotazione attribuita dagli altri, un campo questo, che offre alla demagogia possibilità di sviluppo ideali”. Lo sviluppo di “un particolare desiderio di paura” pare innato nelle emozioni che La grande migrazione suscita e anche in questo caso Enzensberger è molto distaccato nel far notare che “è possibile che anticipare il panico serva ad immunizzare; ha un effetto simile a quello di una vaccinazione psichica. In ogni caso non produce alcun tentativo di soluzione”. Con la stessa scrupolosità, fa notare che la prima e fondamentale discriminazione rimane quella economica perché “dove il conto in banca è a posto, l’odio per gli stranieri svanisce come per miracolo. La palma in questo senso spetta ai banchieri che riciclano il loro denaro. È gente che non conosce più razze ed è superiore a ogni nazionalismo. Presumibilmente sono gli unici al mondo ad essere alieni da ogni pregiudizio. Gli stranieri sono tanto più stranieri quanto sono più poveri”. Su questo Enzensberger non si fa illusioni e ammette che “la società multiculturale resterà un confuso slogan sino a quando saranno considerate tabù le difficoltà che il concetto pone ma non chiarisce”. D’altra parte, anche con La grande migrazione in corso va cercato quel delicato equilibrio, quella condizione tale “che ognuno possa esprimere ciò che pensa del potere dello Stato o del buon Dio senza essere torturato o minacciato di morte; che divergenze di opinione siano risolte in tribunale e non attraverso la vendetta di sangue; che le donne possano muoversi liberamente e non siano costrette a farsi vendere o mutilare; che si possa attraversare la strada senza incappare nelle raffiche di mitra di una soldatesca impazzita: tutto questo non è solo gradevole, ma irrinunciabile. Ovunque al mondo esistono persone, e sono presumibilmente la maggioranza, che auspicano tali condizioni e che sono pronte a difenderle dove esistono. Senza dare troppo spazio all’enfasi, possiamo dire che si tratta del minimo di civiltà. Nella storia dell’umanità questo minimo è stato raggiunto solo eccezionalmente e in maniera provvisoria. È fragile e facilmente vulnerabile. Chi lo vuole proteggere da contestazioni esterne, si trova di fronte a un dilemma. Quanto più tenacemente una civiltà si difende da una minaccia esterna, quanto più si chiude in se stessa, tanto meno alla fine ha da difendere. Quanto ai barbari, non è necessario aspettarli davanti alle porte della città. Sono qui da sempre”. È utile saperlo, La grande migrazione ha molti limiti, ma non tutti.