giovedì 15 settembre 2022

Clarissa Goenawan

Miwako Sumida nasconde un segreto, forse più di uno, e non è l’unica. Come se avesse delle doti particolari in ogni incontro scatena qualcosa di indecifrabile, nonostante la gentilezza, la discrezione e l’ospitalità implicite nelle tradizioni culturali giapponesi. Dentro questa cornice formale però si annidano spaccature e conflitti, sotterfugi e rivelazioni, fughe ed errori. Il fatto è che Mikado Sumida ha paura dell’amore, ed è più che giustificata, come si scoprirà poi. La sua personalità è nascosta da una coltre di timidezza, scontrosità e da ragioni tutte sue che diventano una frontiera invalicabile per Ryusei Yanagi, un coetaneo che si innamora e la segue a “piccoli passi” nella speranza di raggiungerla. Si trovano in una libreria dove lei consuma romanzi d’amore, ma la loro storia rimane quasi a livello platonico, e si risolve più in un attrito costante che in un abbraccio. Sono poco più che adolescenti cresciuti soli e troppo in fretta, che la vita scolastica non riesce ad afferrare e che nella famiglia non trovano spazio: nel grande disordine della vita e delle cose, i “bambini trasparenti” diventano esseri randagi come anime erranti, che vagano sullo sfondo di un Giappone leggiadro ed evanescente in cerca di accettazione e di perdono. Non a caso, un ruolo specifico tocca anche a Tama, un gatto girovago che viene adottato dall’elaborato triangolo composto da Miwako, Ryusei e Fumio o Fumi Yanagi.  Così le persone reali (e non) si incontrano, ma è tutto double face: un continuo riversarsi di immagini e tracce, una sopra l’altra, che si manifestano in modi e atmosfere molto distanti. Le luci al neon e la pioggia, un ponte di corda verso una valle e un albero disintegrato da un fulmine, una colazione con “riso al vapore con pesce ayu alla griglia, zuppa di miso, omelette e sottaceti a fette” e un budino di latte, Tokyo in autunno e “un campo di fragole in un tiepido giorno d’estate”, credenze popolari e lettere nascoste, pagine di diario inventate per una rivista letteraria e dolorose confessioni a cuore aperto e a occhi chiusi, appuntamenti al nightclub e pellegrinaggi ai santuari si specchiano nella tormentata caccia all’identità dei protagonisti (a cui va aggiunta anche Chie Ohno). Nel loro battagliare, gli rimane soltanto di ascoltare Henry Wotton quando diceva a Dorian Gray che “la giovinezza è l'unica cosa che vale la pena di avere”, ma Il mondo perfetto di Miwako Sumida la consuma in fretta, spesso in silenzio, come un pasto riscaldato alla fine di un lungo cammino. Avanza giusto quello, e i resti di amicizie fragili e disperate. Le affinità con l’esordio di Rainbirds sono parecchie: porte che si aprono e si chiudono, il contrasto tra l’asettica realtà urbana e quella bucolica del villaggio, gente che scompare e riappare all’improvviso, voci imprigionate nelle conversazioni telefoniche, ma Il mondo perfetto di Miwako Sumida è un origami dei sentimenti e a ogni piega la trama si riflette su se stessa: l’inizio si ritrova alla fine, (di congiunzioni e separazioni è fatto il romanzo) che Clarissa Goenawan racconta con pazienza e con una delicatezza acuta, abrasiva, tagliente, frutto di un grande equilibrio che riesce a contenere simbolismi spettacolari, ombre e fantasmi, prodotti dei sogni e dei ricordi, della morte e di un amore traballante inseguito a testa bassa. Un romanzo singolare, che bisogna leggere una pagina alla volta, tanto è denso, ma che è davvero toccante.

mercoledì 7 settembre 2022

John Le Carré

Gli scenari all’alba del 1991 come cornice sono cambiati in modo radicale. La dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia portano John Le Carré a identificare nuovi nemici che si annidano nel groviglio di politici, avventurieri e, più di tutti, trafficanti d’armi. Richard Roper li riassume tutti in un solo personaggio, “l’uomo peggiore del mondo”, che ha solide intersezioni con il potere costituito a Londra. È ricchissimo, sfuggente, abile e crudele. Il direttore di notte ovvero Jonathan Pine l’ha incontrato già una volta, al Cairo, quando si era innamorato di Sophie, assassinata dagli amici e colleghi in affari di Roper. Il suo fantasma aleggia in continuazione ed è uno dei motivi, se non l’unico, che porta Jonathan Pine ad accettare un ruolo di primo piano nell’affaire Limpet, una complessa operazione ordita dalle agenzie su entrambe le sponde dell’Atlantico. I particolari che si snodano all’interno del romanzo mostrano che John Le Carré sa districarsi nell’intricato labirinto dei servizi segreti e riesce a renderlo affascinante. Lo stile è avvolgente, con i dialoghi che intrecciano trame su trame, e i dettagli sembrano infilati a sua discrezione, così numerosi e ridondanti, ma leggendoli bene paiono distribuiti secondo uno schema matematico, un raffinato intarsio che sovrintende al caos degli eventi con “un certa drammaticità, un senso più intenso della situazione”. L’operazione Limpet è così vista da due prospettive diverse, quella di Jonathan Pine e delle sue camaleontiche personalità e quella che ruota attorno agli “spiocrati” tra la Londra e gli States che,   seguendo una fitta ragnatela di imperscrutabili ragioni portano a sua volta Jonathan Pine a considerare le manipolazioni della personalità come un’opportunità “perché stava cominciando a capire che nel teatro dov’era entrato un attore poteva interpretare molte parti in un’unica giornata di lavoro”. Infiltratosi, non senza danni, nell’entourage di Roper, che occupa un’intera isola nei Caraibi, Jonathan Pine aggiunge, un’altra volta, motivi del tutto personali alla sua missione: al fantasma di Sophie, si sovrappone il fascino di Jemina alias Jeds (anche i nomi sono doppi), la tormentata fidanzata del capo, a cui non sa proprio resistere. Le pagine rimbalzano e si specchiano tra le contorte manovre nei corridoi governativi londinesi e le lussureggianti residenze di Roper, tra guardie del corpo e intermediari, corrotti e corruttori, manovre e sotterfugi. Sapendo che “il tempo è attenzione. Il tempo è innocenza”, John Le Carré non si preoccupa più del tanto di condividere le coerenze formali, per quanto lo stile sia preciso e puntuale. Piuttosto, pare più attento all’urgenza della storia in sé, al suo sviluppo, alle contorsioni dei personaggi (e vale la pena, tra gli altri, di riconoscere almeno il maggiore Corkoran, il luogotenente di Roper), e a ricordare, come dice Roper che tutto “questo non è un crimine. È politica. Non ha senso sentirsi superiori. Il mondo va così”. Non fa una piega: era la verità durante la guerra fredda, così come trent’anni fa: gli eventi bellici del Golfo, che all’epoca inaugurava il crepuscolo del ventesimo secolo, spalancava le porte a una folle proliferazione di armi, e se proprio bisogna aggiungere qualcosa che non è mai cambiato in tutto questo tempo è, come dice lo stesso Le Carré, introducendo Il direttore di notte, che “nessuno parla delle vittime”, ed è vero anche quello.