martedì 22 febbraio 2022

Elias Canetti

Frasi sparse in prima, seconda e terza persona, citazioni, progetti, note di viaggio, diari e impressioni delle letture o dal cinema, riflessioni e descrizioni, tematiche da ampliare, buchi da riempire, righe da trasformare, segnalazioni quotidiane, forme di pensiero, assoluti (“Affrancarsi dai bisogni più recenti. Ne dipendiamo come tutti gli altri, e non per i bisogni in sé”), tempo bloccato in forma di parola, riscoperte di poesie come scavi nel tempo e romanzi come quadri generali, del passato o del futuro, strumenti di comunicazione dentro e attraverso gli anni, parole scritte sui bloc notes da quattro soldi, storie da registrare e chiavi di lettura, perché “chi legge se stesso, ha un’altra esistenza, fuori dallo specchio”: lo spirito di Un regno di matite è quello dichiarato nelle prime pagine, ovvero “quando i pensieri corrono, lasciali correre”, e qui si va di fretta, senza aggiuntivi o riempitivi e nello stesso modo Elias Canetti celebra l’assioma per cui “si scrive, per essere diversi. Chi imbroglia scrivendo rimane ciò che comunque è”. Un regno di matite è un’antologia di piccoli frammenti, aforismi, residui e appunti che però, anche in un quadro del tutto disarticolato, formano un tracciato in cui si incontrano, tra gli altri, Kafka, Karl Kraus, Kant, Joyce, Robert Walser, Blake, Hegel, Shakespeare, Goethe, spesso liquidati con una battuta (“Se fossi Freud me la darei a gambe”), ben sapendo che “la vera lode è lo stupore”. Ma Un regno di matite è anche un dialogo con se stesso (“Rinfrancarsi con i diari. Come la si conosce questa gentaglia, se stessi”) e con l’attualità. Intorno alla guerra in Bosnia, Elias Canetti scrive, insieme al ritratto impietoso di Radovan Karadzic, l’epitaffio del ventesimo secolo: “Bisogna domandarsi come sarebbe stato possibile sopravvivere a questo secolo senza le sue speranze. Per me è incominciato con la guerra balcanica (1912) ed è rifluito, ottant’anni dopo (1992) nella guerra balcanica. Come capacitarsene? Dipenderà da una legge? Eppure, in mezzo, ci sono due conflitti mondiali”. In Un regno di matite prendono forma tutte le “ossessioni che rendono completo un uomo, che lo sostengono come un’ossatura di cui non lo si potrà mai privare. Ossessioni che vanno perfino contro la comprensione di tutti, per quanto se ne parli la lingua e si rimanga intelligibili a dispetto di ogni apparente assurdità, incrollabili, ma anche incrollabilmente chiari. Di più da sé non si può pretendere, di meno sarebbe deplorevole”. Il tratto è personale perché secondo Elias Canetti “in una biografia deve esserci molto da decifrare e indovinare, e le presunte soluzioni devono potersi anche rivelare errate. Alcuni aspetti occorre siano disposti in modo tale da rimanere per sempre occulti. Ogni intromissione pretenziosa e fuorviante farà i conti col ridicolo. Una biografia è misteriosa come la vita di cui parla. Una vita esplicita non è stata una vita”. E qui, di conseguenza, Elias Canetti si concede alcune note autobiografiche (“Non ho mai concluso una pace meschina. Non sono mai affogato tra le chiacchiere. Ho custodito in me il sapere duro, insostenibile”), un suggerimento per assecondare il senso ultimo della memoria (“Bisognerebbe ricominciare l’infanzia da capo. Ci sono molte infanzie, la maggior parte va dispersa”) e per rendersi singolari (“Restare indietro, sempre, non assecondare mai quanto al momento è in voga. L’effetto ritardato è tutto, il recupero differito del tempo”) senza dimenticare quello che è probabilmente il consiglio più azzeccato: “Occorre l’onestà di chiamare per nome il limite contro il quale abbiamo urtato”. Dovrebbe bastare così.

lunedì 14 febbraio 2022

Hermann Broch

Il primo insieme è quello naturale della famiglia dove gli elementi sono connessi tra loro da rapporti elettrici. Nel vuoto lasciato dal padre, gli Hieck sono un’equazione composita dove la madre, Katharine, deve bilanciare le forze opposte e divergenti dei figli. Susanne, animata da un afflato religioso, è concentrata sulla preghiera, a cui rimanda ogni considerazione, mentre “la vita rumoreggia, là fuori, grande e intensa”. Otto, il più prosaico ed effervescente, è solleticato da vaghe velleità artistiche, ma il più delle volte si concede di godersela con l’amico Karl. Siamo a Vienna, all’inizio del ventesimo secolo, e “la condizione del mondo” è tale da concedere ancora occasioni a sufficienza. Al contrario, Richard è ossessionato dalla matematica, non solo per via degli studi e poi della professione accademica, ma perché la considera “una limpida rete di luminose verità e bisognava procedere a tentoni, di nodo in nodo, sì, era una cosa del genere, un intreccio celeste complicato come il mondo, un intreccio che bisognava sciogliere per possedere, alla fine, la realtà”. Il secondo insieme che L’incognita (nella traduzione e con la cura di Luca Crescenzi) sottintende di vedere le figure in movimento per intero, con tutti i gesti, le relazioni e le connessioni e qui la scrittura cristallina ed equilibrata di Hermann Broch lascia intravedere una filigrana raffinata come il lavoro di un artigiano, ma che riesce a sopportare sia per “la realtà della terra concreta e visibile”, sia “il contrassegno accidentale di avvenimenti immani”. La dicotomia in sé prevede un nuovo livello dove la razionalità è in bilico sull’orlo del paradosso. Come scrive Hermann Broch nei Lineamenti del romanzo, “la vita intellettuale di Richard Hieck è dunque soltanto una possibilità fra le tante” e si comprende quando arriva a dire che “all’improvviso gli fu chiaro: l’imprevedibile è il peccato nel mondo. Tutto quanto è sciolto dal nesso casuale e dalle leggi, fosse anche un unico suono solitario vagante nello spazio, è peccato. Tutto ciò che è isolato è privo di senso e al tempo stesso è peccato”. La fede assoluta nella scienza è una delle infinite contraddizioni di termini che attraversano L’incognita finché Kapperbrunn, assistente universitario e poi collega di Richard Hieck non spiega che “la matematica è una sorta di impresa disperata dello spirito umano... Di per sé non ce ne sarebbe alcun bisogno, ma è una specie di isola del decoro, e per questo mi piace”. L’ammissione, considerevole in sé, apre un nuovo campo, ed è qui che “c’è un errore o c’è un miracolo”. In apparenza, Richard Hieck dissimula le emozioni dell’incontro con una ricercatrice (o due, ma siamo in un’area in cui le somme non tornano mai), sostenendo che “quel sapere era l’amore e che anche l’amore non è altro che sapere”. Sarà vero, ma è proprio dove L’incognita si manifesta con tutta la sua forza, incrinando la solidità della conoscenza intellettuale che, come precisa Hermann Broch, “è in primo luogo razionale e scientifica”. Lo scontro con la realtà, nello specifico nei turbamenti affettivi di Richar Hieck, viene celebrato da un passaggio lirico nella stesura e significativo nel procedere a comprendere tutta la complessità che L’incognita rappresenta e sviluppa: “Il fondamento ultimo della matematica si trova al di fuori della matematica, eppure, anche al suo interno, la divina finalità dell’essere si trova al di fuori dell’essere, e il fine ultimo dell’amore si trova al di fuori dell’amore, ma è pur sempre amore, oh, sposa splendente, oh morte oscura, singolare confusione delle sfere”. Si spalancano così le porte del finale che riporta il destino di Richard Hieck e di ogni altro protagonista a terra, e a zero, perché la matematica è un’opinione, e così l’infinito, e pure l’amore, laddove L’incognita svela che “il mondo brucia dentro di noi, non fuori di noi”. Essenziale.

mercoledì 9 febbraio 2022

Steve Turner

Elvis, la fede, le droghe, la televisione, i successi, le sconfitte: nella biografia di Johnny Cash, Steve Turner lavora sull’essenziale, lascia scorrere e semplifica dove serve e dove è necessario e tutto in funzione del racconto che è diretto, puntuale e senza inventarsi nulla di trascendentale, che di richiami ce ne sono già abbastanza nella vita di Johnny Cash. È così che Steve Turner traccia un profilo credibile, di sicuro un buon punto di partenza per eventuali approfondimenti, e una storia dallo svolgimento pratico e godibile. Comincia dalla fine, cioè dalla morte della moglie, June Carter, ma poi il percorso si fa piuttosto lineare, senza particolari scossoni. L’inizio al contrario è l’unica eccentricità che si concede Steve Turner: la ricostruzione è fedele, dettagliata quanto basta e ricca di testimonianze, che poi offrono un ritratto particolare e sono il valore aggiunto in più. I ritratti convergono pur provenendo da fonti diverse. Diceva di lui il musicista e produttore Jack Clement: “Lo chiamerei una grande entità musicale. Era una forza musicale e un grande cantante. La gente credeva in ciò che lui cantava. Pochi riconoscono nella voce uno strumento che deve fondersi con gli altri. In qualche modo Cash lo capiva. Soprattutto perché non gli importava. Lui cantava e basta. In qualche modo funzionava”. Da un altro punto di vista, comunque convergente, gli fa eco Kris Kristofferson: “Sono certo di aver imparato da John la coscienza sociale. Ho imparato a preoccuparmi per i fratelli e per l’indipendenza: fare ciò in cui credi nonostante quello che ti dicono gli altri. Ammiravo il modo in cui parlava con parole sue. Non potevo certo imitarlo, perché era unico come un fiocco di neve”. All’ultima parte dell’esistenza di Johnny Cash è dedicato un ampio spazio, come è giusto che sia, al rapporto con Rick Rubin e alla produzione degli American Recordings, che illumina uno dei momenti più alti e originali della canzone d’autore americana degli ultimi anni. La storia è declinata in tutti i dettagli, dal primo incontro tra quelle che sembravano due personalità agli antipodi allo sviluppo della serie. Anche qui, l’aspetto musicale viene superato dalla personalità di “the man in black”, come raccontava Rick Rubin: “Johnny Cash è sempre stato un fuorilegge, una figura che non rientrava nei canoni. Lo consideravano un artista country, ma non credo che l’ambiente del country l’abbia mai accettato davvero. Era un outsider, e credo sia stato questo ad attrarmi più ogni altra cosa”. E parafrasando il titolo di Unearthed, il box degli American Recordings pubblicato postumo, giusto a due mesi dalla sua scomparsa, Steve Volk descriveva Johnny Cash come “un colono che ha scavato nella terra, ha scoperto se stesso e ha scoperto noi”.  Alla fine deve ammetterlo anche Steve Turner: “Come per tante leggende della musica popolare, non è facile dire esattamente cosa rendesse grande Cash. Non divenne mai un grande chitarrista, la sua voce aveva un’estensione limitata e i testi delle canzoni oscillavano dal poetico al prosaico. Ma la combinazione di quella voce, quelle parole e quella chitarra superava di molto la grandezza di ogni singolo elemento. Era una presenza, una forma di energia, un veicolo di verità”. Per conoscerlo (o riscoprirlo) si può cominciare da qui.

martedì 8 febbraio 2022

Hans Magnus Enzensberger

“It’s the economy, stupid!” era lo slogan della campagna elettorale che portò all’inaspettata vittoria di Clinton del 1992. È sempre l’economia, che non cambia mai, e Enzensberger l’aveva già capito dieci anni prima, con questa raccolta di articoli che risale al 1982, ma mantengono intatte le loro peculiarità. La lucidità di Enzensberger è tale da imporre una riflessione, anche in un ordine non proprio rigoroso, come è la composizione di In difesa della normalità. Rigorosa è piuttosto l’analisi, che arriva puntuale e trasparente. Enzensberger infatti usa un tono pratico per spiegare sistemi complessi, con molta ironia e uno spiccato senso dell’ironia e del paradosso. Del resto avvisa ben presto, con un pizzico di arguzia, il tenore della sua formazione: “A scuola non ci sono mai andato volentieri. Però ho sempre imparato volentieri qualche cosa di nuovo”. L’ordine in cui sono composti i saggi comincia con una severa valutazione e identificazione delle condizioni del sottosviluppo che nella loro progressione conducono, inevitabilmente a riflettere sui meccanismi finanziari che regolano le relazioni economiche. Era già chiaro, allora, che qualcosa non andasse e Enzensberger non lo manda a dire: “Infatti, l’ho sempre sospettato. Ma è una consolazione? Che l’economia non sappia quello fa: che in modo del tutto naturale, come la gallina fa coccodè e la zanzara punge, guadagni danaro addirittura in seguito a bancarotta, mi risulta già sufficientemente strano; che però i governi dei più importanti paesi del mondo fondino la loro economia sul principio della mosca cieca, trovo sia preoccupante”. Per naturale estensione, il giudizio sui governanti è altrettanto lapidario: “Perché i nostri politici non hanno bisogno di farsi venire delle idee. Ottengono gratis tutto quello di cui necessitano: soldi e pubblicità. I partiti si sono lottizzati tra loro la vita pubblica e hanno criminalizzato le frange riluttanti. Dappertutto si sente il loro familiare odore di stalla. Il desiderio di rimuovere il letame sembra utopico”. I punti di vista convergono con decisione quando, parlando della Germania (casa sua), dice: “Dopo trent’anni non sarebbe forse una cattiva idea analizzare la ricchezza sociale e le sue conseguenza con obiettività e senza i consueti contorsionismi. Non dovrebbe essere difficile. La questione ha l’aria di esser prossima alla fine. Nessuno che abbia aperto una volta un atlante o una Bibbia può stupirsene. Che la ricchezza sia sempre l’eccezione e mai la regola lo sapeva già il grande Salomone: una condizione estremamente improbabile, del tutto transitoria, una stravaganza storica sulla cui continuità può contare solo chi crede nei miracoli. Altri si consoleranno riflettendo sulla caducità dei nostri costumi. Personalmente non penso che la sazietà sia più pericolosa della fame. Comunque, non esageriamo! Non siamo ancora al limite di guardia con la nostra ricchezza, questa effimera dura a morire! Il fatto di passarcela a tutt’oggi discretamente bene è un destino che dovremmo sopportare con un certo distacco e un pizzico di ironia”. La conclusione di Enzensberger spiega come la “difesa della normalità” ci si avvalga di strumenti istintivi, compresa una strisciante regressione, perché “rifiuto è già dire troppo. Si tratta piuttosto di una volontà di non sapere speciale, collaudatissima, di una finta percezione, di un metter dentro e fuori parentesi quasi ironico, di una silenziosa riserva mentale che in fin dei conti è infrangibile”. È una forma di autodifesa, passiva finché si vuole, ma che pare ineluttabile quando tutti i fattori (economici e politici) spingono a sentirsi “fuori posto”. Molto chiaro, molto utile.