lunedì 27 giugno 2022

Shane McGowan

Iconoclasta, irriverente, mai assoggettato, ribelle “pieno d’odio e di idee” e, in definitiva, sempre onesto e sincero, Shane McGowan resta uno splendido outsider, uno di quelli per cui si riesce ancora a sperare che ci sia un posto per i perdenti in questo mondo. Lui l’ha trovato, pur con tutti i guai, i conflitti e le peripezie di cui si è reso protagonista e che sono una componente ridondante nel libro costruito attorno al confronto con la compagna, e poi moglie, Victoria Mary Clarke. Una pinta con Shane McGowan è disordinato e divertente mentre riporta in presa diretta al bizzarro milieu del cantante dei Pogues, ma perde l’occasione di approfondire la sua poetica, e questo è probabilmente il limite maggiore, insieme a una certa autoindulgenza. Il racconto è spesso informale (anche troppo a volte, dove il dialogo tra i due diventa alticcio e un po’ banale), ma la condizione è quella fin dall’inizio, quando Shane McGowan narra l’infanzia in Irlanda e in particolare la vita in campagna, dove “il mio primo ricordo è di tutta la famiglia che costruisce un letto e non riesce a farlo passare dalla porta d’ingresso. Non siamo riusciti a farlo passare attraverso quella cazzo di porta. Quindi abbiamo dovuto smontarlo fuori e rimontarlo dentro casa”. Gli aneddoti si sprecano e forse andavano collocati in una trama più completa: a tratti l’impressione è quella di vedere e ascoltare una coppia litigiosa seduta al tavolo di un pub che discute allegramente dell’IRA e di James Joyce, dell’alcol e dei Faces, di Brendan Behan e di Elvis Costello (particolarmente maltratto da Shane McGowan). La ricostruzione è frizzante e caotica, senza filtri e il dialogo tra i due tende a essere esclusivo, per cui è necessario fare un po’ la tara a quello che si dicono. La parte più consistente ruota in gran parte attorno al periodo punk di Shane McGowan, con i Sex Pistols a turbare la quiete pubblica e a imporre gli stili e le mode del momento. Compreso il suo primo gruppo che si chiamava Nipple Erectors, gli erettori di capezzoli, così, tanto per gradire. Dalle risse all’abbigliamento, i dettagli si sprecano e sono fonte di battibecchi con Victoria Mary Clarke ed è con lo stesso spirito che Shane McGowan affronta i rapporti all’interno dei Pogues chiamati, non senza una buona dose d’ironia, “la democrazia”. Dal 1984 al 1991, è l’anima di una festa mobile dove la sua avversione per le regole, le imposizioni e i luoghi comuni è l’ingrediente più piccante. Sono i momenti in cui viene messo in risalto il carattere di Shane McGowan, che ha il pregio di difendere comunque l’autenticità contro la professionalità e, qui, nella faticosa convivenza con l’industria discografica, viene fuori di tutto, compresa la verità: “La gente ci entra pensando che sia qualcosa di artistico, e non lo è. È un’azienda. È solo una cazzo di industria, sai, proprio come qualsiasi altra. È come lanciare merda contro un muro e un po’ resta attaccata. Chi ne fa parte non sa cosa sta facendo, sai. Il music business racchiude probabilmente ogni cazzo di aspetto orribile delle altre industrie. Ha tutta la pubblicità, tutto il cazzo di clamore, tutta la cosa di venderti merda e profumarla di rose, di continuo”. Certo, rimane uno squarcio reale della vita di Shane McGowan, che forse avrebbe meritato un’organizzazione un po’ più accurata, ma l’imperfezione è parte del personaggio, che pure in questo caso si conferma libero e candido, fin troppo, as usual.

lunedì 20 giugno 2022

Tony Judt

Parlando con Philip Roth, Milan Kundera spiegava: “La gente ama dire: la rivoluzione è bella, è solo il terrore che ne deriva a essere male. Ma questo non è vero. Il male è già presente nel bello, l’inferno è già contenuto nel sogno del paradiso, e se vogliamo comprendere l’essenza dell’inferno dobbiamo esaminare l’essenza del paradiso da cui esso deriva”. Questa simbiosi è alla fonte della complessa ricostruzione degli annali europei dal 1945 al 2005 che Tony Judt approfondisce in Postwar. Come la definisce nella prefazione, “la storia della riduzione del continente” comincia all’indomani della caduta di Berlino, assecondando convinto la percezione di Anne O’Hare McCormick: “Il problema umano che questa guerra ci lascerà in eredità non è stato ancora immaginato, e tanto meno affrontato, da nessuno. Non si è mai verificata una simile distruzione, una disintegrazione così completa della struttura stessa della vita”. Tony Judt capisce e chiarisce subito che quella delimitazione è una sorta di linea di partenza: “In retrospettiva, è ironico pensare che, dopo aver combattuto una spaventosa guerra per ridurre il potere della Germania nel cuore stesso del continente, i vincitori sia siano dimostrati talmente incapaci di giungere a un accordo sulla soluzione postbellica per tenere a bada il colosso che finirono per spartirselo al fine di trarre separatamente vantaggio dalla sua ristabilita forza”. Dal piano Marshall all’inizio della guerra fredda, con la formazione della NATO e del patto di Varsavia, Postwar si rivela ben presto un lavoro enciclopedico che parte da un presupposto (molto solido): il destino seguito alla seconda guerra mondiale deve la sua natura proprio ai resti e agli effetti di quel conflitto. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, nella sua analisi, è centrale lo sviluppo delle politiche economiche nella dicotomia comunismo/capitalismo, dove Tony Judt non risparmia nessuno. Senza fare distinzioni tra gli abusi di potere (“In politica, la corruzione è in larga misura una conseguenza delle condizioni che la favoriscono”) e criticando con precisione chirurgica anche le politiche della Thatcher. Su alcuni temi le posizioni sono contraddittorie (in particolare sull’industrializzazione italiana), ma si tratta di questioni fisiologiche nella dissertazione, così ampia e ricca, di una lunghissima transizione che Tony Judt racconta dedicando la giusta attenzione alle evoluzioni architettoniche e urbanistiche, ai fenomeni culturali e alla rappresentazione della realtà, nei suoi diversi modelli (a partire dal cinema, in particolare quello americano, e alla sua prevalenza sull’immaginario del dopoguerra). Vale anche per l’importanza dedicata alla cultura pop (i Beatles più di tutti), perché “ogni generazione vede il mondo come se fosse nuovo. La generazione degli anni Sessanta vide il mondo non soltanto come nuovo, ma anche come giovane” (e lo dicevano anche gli Who, quando cantavano “talkin’ about my generation”), al punto da arrivare alla conclusione che “ogni significativa rivoluzione politica è anticipata da una trasformazione del panorama intellettuale”. Gli anni cruciali (il 1968, il 1989), le battaglie per i “diritti civili, legali, politici”, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, le guerre nei Balcani e lo sviluppo dell’Unione Europea scorrono senza sosta e la ricostruzione è avvincente: lo stile di Tony Judt segue una linea pulita e chiarissima e l’elaborazione è dettagliata, per quanto nel finale è resa evidente la distanza tra la storia e la memoria, il passato che viene cambiato ciclicamente, e viene riletto dalle successive trasformazioni e mutazioni. Detto questo, la tesi di fondo su cui regge l’impalcatura di Postwar resta concreta e validissima ed è che “la nostra storia” dipende ancora dalle scelte e dalle conseguenze del dopoguerra e, a ben guardare quello che sta succedendo, bisogna dire che Tony Judt ha visto giusto, e per tempo.