domenica 29 marzo 2020

J. G. Ballard

Una bomba all’aeroporto di Heathrow introduce il protagonista di Millenium People: David Markham è l’ex marito di una delle due vittime, Laura, ed è uno psicologo con parecchie conoscenze nelle forze dell’ordine. Un po’ per dovere, un po’ per istinto comincia una persona indagine per scoprire gli assassini di Laura e si infiltra in un gruppo di presunti ribelli nell’ameno quartiere di Chelsea Marina. La strategia narrativa di Ballard segue un andamento rigorosamente circolare: comincia e finisce a Heathrow (un’ossessione, evidentemente), con David Markham che diventa di volta in volta vittima e carnefice, come se dovesse interpretare due ruoli contrastanti. Succede più o meno a tutti i personaggi che popolano le pagine di Millenium People perché devono calarsi in ruoli diversi, e tra Robert Gould e una bella sequenza di figure femminili (Sally, Vera, Kay, Joan, Angela), nessuno è chi dice di essere veramente, a partire proprio da David Markham, e tutti sono arrivati in qualche modo ai margini (se non oltre) della legalità, nonostante le ottime lauree e le belle carriere. Tutto l’intersecarsi di identità vere e fittizie è destinato a mostrare le contraddizioni dell’ultima rivoluzione borghese, che si protrae come un elemento omeopatico alla noia suburbana, visto che nell’inarrestabile declino della middle class il mondo è diventato “un interminabile parco a tema, dove tutto è stato trasformato in intrattenimento. Scienza, politica, educazione sono altrettante giostre di una fiera. Per quanto triste, la gente compra i biglietti e sale a bordo”. A quel punto il focolaio rivoltoso di Millenium People imperversa su due distinti livelli. Da una parte ci sono le azioni terroristiche del gruppo di Robert Gould che comprendono i tentativi di distruggere “le prigioni culturali”, compreso il rocambolesco attentato incendiario al National Film Theatre. Poi c’è l’insurrezione dei residenti di Chelsea Marina che, pur benestanti, istruiti e rispettosi delle istituzioni, vedono sgretolarsi il potere d’acquisto e il valore delle proprie abitazioni, mentre tutto il quartiere è già nel mirino della prossima speculazione edilizia. Con uno sguardo lucidissimo, Ballard fa notare che “la rivoluzione era stata rimandata a un giorno più opportuno. I ribelli della borghesia tenevano in gran conto il tempo libero, e l’assalto sulle barricate sarebbe stato strizzato tra un concerto o un teatro e i piaceri del pesce fresco”. Come già in Il condominio e ancora di più con il Regno a venire, Ballard pone l’accento sull’influenza dei luoghi e dell’architettura, ridisegnando il paesaggio immaginario che è un’estrapolazione allucinata della realtà, una deformazione necessaria per comprenderla. La critica al modello di organizzazione sociale è implicita ed esplicita, perché Chelsea Marina è Londra e non è Londra, e i suoi residenti si sentono oppressi non meno che schiacciati in un deserto urbano, dove la sensazione d’impotenza deriva dal fatto che “non c’è né passato né futuro. Potendo, loro scelgono le zone prive di significato: aeroporti, centri commerciali, autostrade, parcheggi. Sono in fuga dal reale”. Per capire come si risolvono le frustrazioni sotterranee nello scenario alienante della cintura suburbana londinese, è necessario seguire David Markham nell’intricata trama di Milllenium People finché il cerchio non si chiude sulla repentina metamorfosi della rivoluzione visto che, in effetti, “una legione di nullità stava moltiplicando le tabelline di una nuova matematica basata sul potere dello zero, generando una psicopatologia virtuale della propria ombra”. Criptico, ma preciso.

mercoledì 4 marzo 2020

Mark Blake

La storia è stata raccontata più volte, ma Mark Blake ha trovato un modo per comprimerla in un bel libro, un lavoro collettivo che si sforza di saldare molte giunture tra gli USA e il Regno Unito e quindi facendo anche un po’ di ordine cronologico e dunque storico nell’essenza del punk. L’introduzione di Blondie alias Deborah Harry è lì a dimostrarlo e non ha bisogno di mentire (non più, ormai): “Il punk trapelava dalla musica che suonavi, dal modo in cui ti vestivi e dai posti che frequentavi. Era inevitabile che finisse per lasciare il segno. Sebbene ora chiunque ci sappia fare riesce a distinguersi dalla massa, il punk è tutta un’altra cosa ed è ancora tra noi. È stata un’esplosione: la prima vera espressione di rottura”. Punk. Tutta la storia si limita all’esperienza di Londra e New York attorno al 1977, prima e/o dopo. Gli aggiornamenti più recenti riguardano la reunion dei Sex Pistols del 1996, Joe Strummer, nel decennale della sua scomparsa, i Black Flag e i Green Day. È inutile cercare di stabilire dove e quando sia nato perché il punk, come ogni fenomeno culturale, si è evoluto e si è moltiplicato in più direzioni. È più interessante scoprire e riscoprire l’eccentricità delle connessioni, di strambe e fortunate soluzioni e di una rivoluzione nel gusto, nell’attitudine, nelle idee che ha segnato la musica alla fine del ventesimo secolo. Tutta la storia del punk rimbalza tra le due sponde dell’Atlantico in un frenetico sovrapporsi di immagini che spesso dicono molto di più. Il libro è esaustivo senza essere complicato: fedele allo spirito punk si accontenta di ripristinare le cronache e le vicende dei protagonisti e dei loro dischi attraverso le ricostruzioni in prima persona di Nick Kent o Gary Valentine e una pattuglia di cronisti molto affidabili, tra cui Peter Doggett, Pat Gilbert, Charles Shaar Murray, Ira Robbins. Le ricostruzioni sono frammentarie, immediate, come tante istantanee fedeli a una rivolta che è bruciata in fretta e furia. Le immagini rispecchiano le parole, perché il punk è stato apparenza e superficie, ma in prospettiva c’è tutto un immaginario che con il tempo ha acquistato una dimensione leggendaria. I Ramones in metropolitana con le chitarre nelle buste di plastica, Richard Lloyd dei Television in ospedale con flebo e sigaretta, le spogliarelliste degli Stranglers, Shane McGowan delirante nel pubblico e steso per terra davanti a Mick Jones, il sangue di Sid Vicious, le pose dei Clash (i più fotogenici), il CBGB a New York (“Linda Ronstadt venne a sentire i Ramones. Infilò la porta con le mani sulle orecchie”, ricorda Hilly Kristal) e i club a Londra fino ai bricolage di Jamie Reid che indicò una linea grafica partendo dal nulla. Come ammette lo stesso autore dei collage che hanno distinto molti materiali punk, la scelta di usare tagli e ritagli di giornale dipendeva dalla miseria in cui era costretto a muoversi. Un tratto comune a tutto il punk, che è stato un movimento partito da “meno di zero”, come direbbe Elvis Costello. La sua forza è stata quella che spiega il deus ex machina e uno degli artefici principali di tutto il casino, Malcom McLaren, nella postfazione: “Il punk ha dato alla gente la possibilità di essere un abbagliante fallimento piuttosto che un tiepido successo”. Non si poteva dire meglio.

domenica 1 marzo 2020

Don Letts

Nei territori londinesi del 1977 Don Letts occupava un avamposto strategico. Era il disc jockey al Roxy, il club che è stato il primo giro di boa per gran parte dei gruppi punk che stavano incendiando la città. Nei cento giorni di vita del Roxy, riempiva le serate alternando i primi dischi punk con una densa selezione di proposte di origine caraibica: “Io suonavo il mio dub tra concerti dei Clash, dei Damned, dei Buzzcocks, delle Slits, dei Generation X, dei Banshees e molti altri ancora”. Le due forme musicali, così diverse e distanti trovarono proprio lì uno spazio di incontro, destinato ad allargarsi e ad approfondirsi, come ricorda lo stesso Don Letts: “L’interazione culturale tra reggae e punk stava cominciando a lasciare il segno sui gruppi di entrambi gli schieramenti. Anche se il punk attinse dal reggae più di quanto il reggae facesse dal punk, il reggae ne beneficiò dal punto di vista della visibilità. Anche l’atteggiamento lo possono fare tutti funzionò alla grande da ambo le parti”. È quell’attitudine a “trasformare i problemi in risorse” che permeava fin dagli albori la cultura giamaicana, dal costruirsi da soli le chitarre con quello che c’era (Bob Marley per primo) all’autonomia sonora dei sound system, che ha generato l’intuizione alle fondamenta dell’idea punk del do it yourself. Privo per sua stessa ammissione di qualsivoglia talento musicale, Don Letts ha applicato quell’attitudine, dopo i giradischi del Roxy, in un  campo altrettanto strategico, inventandosi regista e filmaker. Dietro la cinepresa non è stato soltanto un testimone oculare e a distanza ravvicinata dei fermenti punk, coltivando relazioni pericolose sia con i Clash che con Pistols (“Si dice sempre che i Pistols ti fanno venire voglia di sbattere la testa contro un muro mentre i Clash te ne spiegano il motivo”), ma ha coltivato, in tempi pionieristici, la sottile arte del videoclip, prima che cominciasse a fare danni alle immagini e alla musica. Il racconto di Don Letts è informale, colorito e diretto: “una sorta di storia orale”, come lo definisce David Nobakht, con cui l’ha scritto. Essendo “uno della tribù dispersa”, le sue gesta autobiografiche partono dalla ricerca di un’identità sfuggente, tra le lontane radici caraibiche e la nuova identità inglese, foriera di attriti e conflitti fino al Punky Reggae Party come Bob Marley, a modo suo, ha celebrato l’incrocio esplosivo tra Punk & Dread. Ad accomunare gli spiriti era l’insofferenza, ormai arrivata a una soglia non più tollerabile, verso la decadenza delle istituzioni, che impediva l’emergere (e spesso anche la semplice sopravvivenza) delle comunità di immigrati ed esuli, così come l’espressione delle sottoculture giovanili che ruotavano attorno alla musica. Le rivolte, ormai inevitabili, si identificarono per vie parallele nell’attrazione magnetica tra Punk & Dread, e se è vero che le due culture non si trasformarono mai in un ibrido e restarono identità ben distinte, le connessioni rimasero attive e vitali con Don Letts a interpretare l’ufficiale di collegamento tra le parti. Condividendo a lungo l’evolversi dei Clash (fino a far parte dei B.A.D. con Mick Jones), Don Letts ha colto il senso di quel momento quando ha detto: “Io provengo da un’epoca in cui si combatteva per qualcosa, invece di arrendersi davanti a tutto come oggi succede di continuo”. Lo scontro poi è mutato nella ricerca verso New York, l’Africa, l’hip-hop, gli incontri con Sun Ra e Gil Scott-Heron, seguendo una via che, dalla Londra in fiamme, si spalancava verso un mondo più colorato e rumoroso, ma Don Letts è rimasto il bricoleur lucido e appassionato che ha saputo incollare Punk & Dread nello stesso modo che i suoi amici, bianchi o neri che fossero, imparavano due o tre accordi e mettevano insieme un gruppo. Non è poco.