venerdì 30 ottobre 2020

Gabriel García Márquez

Quando gli chiesero tredici storie d’amore per la televisione, Gabriel García Márquez pensò di sollecitare il suo laboratorio di scrittura cinematografica di Città del Messico. I soggetti sgorgarono con sollecitudine, i riconoscimenti restarono molto vaghi e così Gabo e i suoi allievi decisero di svilupparli in modo autonomo. A spingerli non erano motivazioni professionali o commerciali (quelle che richiede un mezzo ingombrante come la televisione), ma una vocazione purissima che Gabriel García Márquez riassunse così: “La cosa che più mi interessa al mondo è il processo creativo. Che razza di mistero è questo che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, di morire di fame o di freddo o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare, e che in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla”. Il confronto con i suoi allievi è la parte più consistente di Come si scrive un racconto, ma sono le indicazioni sparse in lungo e in largo da Gabo a costituire una sorta di vademecum per districarsi nello sviluppo delle storie, ben sapendo che “non c’è vera creazione senza rischio, e pertanto una dose di incertezza”. Le istruzioni e i suggerimenti non nascono da una lezione: sono frutto del dialogo costante con gli allievi del corso di cinematografia ma resta il fatto che tra una discussione e l’altra prende forma una sorta di decalogo sulla scrittura secondo Gabriel García Márquez. Il primo punto riguarda un aspetto preliminare a cui bisogna prestare molta attenzione: “La ricerca è sempre utile. È cercando la storia che si scopre il metodo”. Da lì Gabo raccomanda un rigorosa cernita, premurandosi di ricordare che “bisogna imparare a scartare. Un bravo scrittore non si riconosce tanto da quello che pubblica quanto da quello che butta nel cestino della carta. Gli altri non lo sanno, ma chi scrive sa perfettamente ciò che butta nel cestino, ciò che scarta e ciò che conserva. Se riesce a scartare vuol dire che è sulla buona strada”. E giusto per assicurarsi di essere capito, lo ribadisce a stretto giro di posta: “Ciò che non serve non serve, bisogna eliminarlo qualche che ne sia l’origine”. A quel punto, si entra nel merito, e Gabriel García Márquez si fa sempre più accorto nel seguire i suoi studenti, avvisandoli che “se si ha tra le mani una storia, non ci si può lasciar trasportare da idee che la contraddicano. O difendiamo le nostre storie, o cediamo alla tentazione di trasformarle in storie diverse”. I punti cinque, sei e sette sono corollari alla collocazione delle storie: prima di tutto “bisogna avere fede in qualsiasi immagine originale, che ti dica qualche cosa; se ti dice qualche cosa quasi sempre è perché racchiude qualcosa”, poi “bisogna definire il genere sin dal principio. Non c’è niente di peggio di una commedia involontaria, cioè di quando uno è convinto di fare un dramma e gli viene fuori una commedia” e, infine, “bisogna fare attenzione a non alterare gli aspetti essenziali della storia; il nostro compito è apportare delle idee affinché la storia risulti il più coerente e attraente possibile”. Le raccomandazioni pratiche finiscono lì, poi Gabo spiega gli allievi che “il fallimento deve avere una solida ragione drammatica, altrimenti perde senso” e ricorda che persino “le profezie sono cifrate per proteggere se stesse dal fallimento. Non possono correre il rischio di rovinarsi da sole. Se tu credi nelle profezie e ti predicono che quando uscirai da qui, all’una e dieci di notte, ti cadrà una tegola in testa, tu naturalmente non verrai qui, o non uscirai di qui all’una e dieci di notte, e la profezia pertanto non si compirà mai. Le profezie si decodificano con precisione soltanto dopo che si sono avverate, o meglio dopo che succede quanto presumibilmente doveva accadere”. Arrivati alla fine, qui c’è tutto quello che bisogna sapere sulla scrittura e l’ultimo punto è lasciato a un’allieva Gloria che giustamente dice: “Ho una montagna di appunti. Vado a mettermi al lavoro”. Da qualche parte bisogna pur cominciare.

lunedì 19 ottobre 2020

Hafid Bouazza

Attenzione alla civetta, e alle lucertole che guardinghe assistono agli scambi sensuali di uomini e donne, e a Senunu, la rondine che osserva dall’alto condividendo il cielo con i tappeti volanti fabbricati in Cina, compresi tutti i loro difetti e la loro personalità. Tutto un mondo (animale, vegetale e minerale) prende sembianze antropomorfe nel tragitto tra la valle di Abqar e Paravion, una città scoperta sul nome di una busta consegnata dal postino con il Solex, poco più di una bicicletta con un piccolo motore. Non è un caso: nel villaggio della Morea (che non dovrebbe essere molto lontana da Marocco) dove arriva, circondato da una nuvola di polvere, sono poveri e analfabeti, e vivono in una dimensione fantasmagorica di sogni, leggende e magie. Paravion è “un gioco di linee vibranti e colori sfumati” e gli uomini non resistono al desiderio e al fascino dell’incognito. Parte anche Baba Baluk, che lascia la moglie, Mamurra, incinta e accudita da Cheira e Heira, due streghe, gemelle siamesi, che (si scoprirà) trafficano cannabis in cambio di pesce. Lei morirà dando alla luce Baba Baluk junior, e il fanciullo “era taciturno, si spostava in silenzio, con un’eleganza ostinata, con la quiete di un bambino abituato ai desideri non esauditi”. Viene picchiato con regolarità dai suoi coetanei, perché è diverso, perché non c’è altro da fare, perché “i ragazzi sedevano annoiati ai loro banchi, le dita viola d’inchiostro, i quaderni pieni di macchie e tatuaggi. Non c’erano finestre nell’aula, ma sembrava che i loro occhi scrutassero fuori un paesaggio sfumato che offuscava la vista”, e ha ragione Hafid Bouazza quando dice che “qualcuno dovrebbe calcolare quanti litri di lacrime vengono versati durante l’infanzia”. Ma, nella valle di Abqar, Baba Baluk è rimasto l’unico uomo: è assediato dalle donne e cerca un modus vivendi, se non proprio un equilibrio che garantisca la fertilità e la prosperità, e le sorprese non sono finite. L’iniziazione al sesso, alla scoperta del corpo, e nello stesso tempo di una vita eterea che fluttua tra l’arrivo di un carro al villaggio, le visioni dell’hashish, storie e sortilegi, si dipana un romanzo psichedelico nel vero senso della parola, ovvero che comporta una viaggio mentale, di sicuro non lineare, ma conturbante. D’altra parte, a Paravion gli uomini trovano una città con insistenti richiami pubblicitari, dove tutto (anche l’amore) è in vendita. Vi restano imprigionati perché “chi trovava un’anima a Paravion, non poteva più far ritorno in patria per molto tempo”, dato che “nessun cuore può battere in due luoghi nello stesso momento”. La situazione è acida e delirante, dato che “a letto gli uomini scrutavano il soffitto, la carta della loro solitudine, e nel silenzio della loro oscurità lanciavano grida come folli spiriti tormentati nella cella di isolamento di un manicomio”. E così a Paravion, “la vita scorreva senza che loro potessero in qualche modo influenzarla, le cose andavano diversamente da come loro avrebbero desiderato”. Hafid Bouazza non è il primo ad aver scoperto cosa c’è dietro l’illusione urbana, e il disorientamento dell’emigrazione. Anche Tahar Ben Jelloun ha scritto, a suo tempo: “E poi la città e il cielo si sono scomposti, il sogno spezzato colava la sua pena nei vicoli deserti”. Ecco, Paravion si realizza nei contrasti, fortissimi e luminosi, con le persone che “sembrano passare di dimensione in dimensione”, tra la distanza che separa la città dalla valle e gli uomini dalle donne, tanto che Hafid Bouazza, non senza una certa ironia, scrive che “era bizzarra, questa scena di umana seduzione e beffe animalesche. Impregnata di una voluttà irrefrenabile”. È proprio così e, anche se poi “il sogno era disturbato a tratti, la realtà si imponeva e poi spariva, si manifestava e poi ne era inghiottita”, in Paravion uomini e donne, flora e fauna e persino i ruscelli e le pietre popolano uno splendido miraggio, labirintico e ammaliante.

lunedì 5 ottobre 2020

George Steiner

In questi interventi George Steiner si confronta con la rapida evoluzione (involuzione?) del testo scritto nell’era digitale, ma i suoi interrogativi sulla funzione della scrittura in generale e della letteratura in particolare, che partono da riflessioni profonde e articolate sulla forma del libro in sé, e sulle sue mutazioni. A partire dall’impressione che “la lettura diventerà un continuo traffico elettronico, piuttosto che un’attività solitaria, e la scrittura, perfino quella del romanziere, sarà uno scambio aperto, on line, tra l’autore e il pubblico”, si evolvono in una valutazione più ampia sul valore dei libri che secondo George Steiner restano “la chiave d’accesso di cui disponiamo per arricchire la nostra esistenza”. Questa considerazione è la base su cui si intersecano le coordinate di scrittura e lettura con i falò, la censura, il dispotismo, le aberrazioni che sono generate da volumi assurdi o funzionali a tutt’altro che al clima in cui i libri hanno bisogno per sopravvivere e moltiplicarsi che secondo George Steiner deve essere composto da “silenzio, intimità, cultura letteraria”. Da Atene e Gerusalemme, il bivio della cultura attraversato con Platone, Kant, Goethe, Dostoevskij convince George Steiner a ricordare che “il concetto di lettura, considerato un processo che fondamentalmente appartiene alla collaborazione, è intuitivamente convincente. Il lettore impegnato collabora con l’autore. Comprendere un testo, illustrarlo nel quadro nella nostra immaginazione, della nostra memoria e della nostra rappresentazione combinatoria, equivale, seppur nei limiti delle nostre capacità, a ricrearlo”. Questa reciprocità consente di immaginare che “un refuso tipografico può rendere immortali” e nello stesso tempo rivela che abbandonarsi alla lettura “è come lasciare che il mito, la preghiera, la poesia si ramifichino e si sviluppino dentro di noi, modificando, arricchendo il nostro paesaggio interiore nel quotidiano: nello stesso tempo, a loro volta essi subiscono un cambiamento e si arricchiscono grazie al nostro viaggio attraverso la vita”. I libri non sono soltanto le pietre di un guado tra l’autore e il lettore  che restano “vincolati dalla garanzia di un senso”. Secondo Steiner “finché un testo sopravvive, da qualche parte sulla terra, anche in un silenzio ininterrotto, è sempre capace di risuscitare” e “leggere, nel vero senso del termine, una pagina di Kant, una poesia di Leopardi, un capitolo di Proust, significa avere accesso a momenti di silenzio, alla salvaguardia dell’intimità, a un certo livello di formazione linguistica e storica pregressa”. Il ritornello dell’intimità torna spesso nelle digressioni di Steiner perché se “la solitudine che rende possibile un incontro approfondito tra il testo e la sua ricezione, tra la lettera e lo spirito, oggi è una singolarità eccentrica, psicologicamente e socialmente sospetta”, è una delle componenti fondamentali per “lasciare che i libri vivano la nostra vita, completamente o in parte, significa rinunciare tanto ai rischi quanto alle estasi del primario. In ultima analisi, la scrittura è essenzialmente artificio”. Il suo destino è captare il significato e aiutarci a capire come “ciò che non impariamo e non sappiamo a memoria, nei limiti dei nostri mezzi sempre insufficienti, non lo amiamo fino in fondo”. D’altra parte mentre I libri hanno bisogno di noi, ci offrono soprattutto “il privilegio di vivere le nostre passioni”, e a quel punto le distanze tra scrittura e lettura si assottigliano perché “lo studioso, il lettore autentico, lo scrittore è permeato dalla spaventosa intensità della narrativa, è formato per rispondere al più alto grado d’identificazione con il testuale, con il fittizio”. Un piccolo manuale di istruzioni, ma un notevole sguardo d’insieme su ciò che contengono i libri e sulle infinite possibilità che aspettano i lettori.

venerdì 2 ottobre 2020

Nick Hornby

Scrivere di musica, anche solo per passione, è sempre un lavoro bistrattato. Un po’ perché ogni musicista contiene una rock’n’roll star e quindi si vive sempre di luce riflessa. Un po’ perché è vero il luogo comune che dietro ogni critico c'è un musicista mancato. Ciò non toglie che anche scrivere di musica sia, come giustamente ripropone questa bella antologia curata da Nick Hornby, “la testimonianza di una grande passione”. Diventa relativo che a farlo sia il songwriter Robbie Fulks (esilarante e amarissimo nello stesso tempo il suo brano sulla dichiarazione dei redditi) o un veterano dei rock’n’roll writer come Anthony DeCurtis alle prese con la leggenda vivente di Johnny Cash.  È  l’inseguimento della musica, il tentativo (sempre fallimentare, ma non per questo inutile) di descriverne le emozioni, le sensazioni, i piaceri e i dolori legati alle vicende personali quello che conta. Molte di queste storie (a partire da quella, splendida di Rian Malan, che racconta il travagliato percorso che ha portato una canzone di Solomon Linda, Mbube a diventare lo standard mondiale di The Lion Sleeps Tonight) sono veri e propri racconti da collocare nella migliore letteratura. Anche perché, come dice Nick Hornby “era inevitabile che la musica pop sviluppasse alla fine un senso della propria storia, anche se ci è voluto il suo tempo”, e nell’approfondirne il senso è necessario svolgere analisi che vadano un po’ oltre le categorie estetiche. Come fa giustamente  Monica Kendrick che in The Complete Fun House Sessions dedica un ritratto avvincente di Iggy Pop e dice che “è questo che distingue la musica abbastanza buona dalla grande musica: la sensazione che i musicisti siano andati oltre se stessi, che si siano spinti al di là di ciò che loro stessi prima ritenevano possibile, che abbiano insegnato a se stessi qualcosa che nemmeno sapevano di sapere, qualcosa di fisico, di spirituale, di permanente”. La conclusione che vale come metro di giudizio è che “è il processo creativo che fino a oggi non si era mai potuto ascoltare, a rendere questo disco un capolavoro vitale: okay, adesso sfondiamo il muro con la testa un’altra volta. Fun House è la perfetta articolazione dell’inarticolato, di quel punto frustrante in cui i nostri desideri più impellenti si scontrano la barriera del linguaggio e barcollano, ebbri di celestiale idiozia. Sono cose che con le parole non si possono esprimere. Ma con il rock’n’roll sì”. Nell’antologia assemblata da Nick Hornby la provenienza eterogenea dei saggi mostra qualche fisiologica incongruenza: se il racconto dedicato agli ultimi giorni di Jeff Buckley a Memphis in Aurora boreale è un capolavoro intenso e crepuscolare, Jonathan Lethem se la cava con sufficienza, anche se il materiale a disposizione (i mai dimentica Go-Betweens) era molto interessante. D’altra parte meritano un cenno particolare Nick Tosches, notevole in Gagà e gangster, e Steve Erickson in Neil Young in giornata buona, ma, di sicuro, nella selezione di Nick Hornby non c’è nessun imitatore di Lester Bangs e così “non troverete tanta cattiveria in questo libro (forse uno o due pezzi, giusto per condimento), ma troverete un sacco di roba che cerca di spiegare perché la musica è importante, cosa significa, da dove derivano la musica e l’impulso a farla. In altre parole, questo libro ha la speranza di non essere affatto sulla musica, ma su ciò che ci rende umani”. Questo basta e avanza e renderlo un libro prezioso per tutti coloro che vivono dentro e attorno alla musica.