venerdì 27 novembre 2020

Sarah Blau

Il tocco della magia che Il libro della creazione raccoglie ed espande, fin dal titolo, è una concentrazione di rituali che sorprendono e ipnotizzano, trasportandoci con sobrietà ed eleganza a confrontarci con tutte le nostre fragilità, e la nostra insipienza davanti ai misteri della vita e della morte, e dell’amore che c’è o non c’è tra i due ineluttabili estremi. Telma è un’insegnante e a trent’anni è ancora sola e vive dentro “una famiglia chiusa, usurata, ostile”. Per lei, i genitori Ruben e Ghila, il padre e la madre, sono “cadaveri ambulanti” e li vede come figure sbiadite e rattrappite. Nei loro confronti arriva a usare precauzioni infantili, per esempio: “Non osservare mai da vicino il viso di tuo padre. Se lo fai, sei destinata a restare da sola fino alla fine dei tuoi giorni”. Le descrizioni puntigliose dei volti, dei corpi, degli umori, dei gesti concorrono a determinare un linguaggio forbito e scorrevole e a definire l’ambiente stesso che è opprimente all’infinito. Al punto che Telma sostiene di “di essere coraggiosa solo dietro la porta chiusa”: è il suo autoritratto perfetto e apre una crisi introspettiva in cui arriva a credere che “così passa la mia vita, accanto”, e che sta evidentemente per sfuggirgli di mano. I legami sono innumerevoli, ma gli unici che la emozionano sono quelli con i cugini Nilli e Chanan, un nome che rimanda alla misericordia e al perdono. Telma cova un bollente, quanto platonico, sentimento verso di lui e la svolta arriva con una precisione cabalistica nel corso delle celebrazioni della Pasqua, che vive e descrive così: “Festa di polpette e pane azzimo, festa di sangue, soffocante. Sento come se il mio cervello stesse diventando una palla di impasto. Non reggerò, non questa volta. Notte, rotonda, viola, lunga, unta, luccicante, acidula. Notte di azzime e vino, erbe amare, notte di cedimenti, di sangue e fuoco e voluta di fumo”. Telma beve per tutta la serata e quando vede Chanan baciare Nilli, gli scaraventa addosso un diluvio di vomito, una scena degna di Woody Allen in acido che scatena il prevedibile psicodramma famigliare. Ma è anche il momento in cui Telma si aggrappa al residuo coraggio e aprendo Il libro della creazione, si avvia al cimitero per creare un golem. L’essere misterioso della tradizione ebraica prende forma plasmato nella terra nera e Telma lo chiama Shaul, che non è solo il primo re di Israele, ma è anche il regno dei morti. Sarah Blau che ben conosce il potere dei nomi, lascia intuire che la sua prosperità dipende all’alito vitale delle persone vicine. Per Telma è la prima scoperta dell’amore, e non lo può nascondere, ma il rabbino Stauber la mette in guardia ricordandogli che “un golem non è soltanto un corpo”, ed è un essere imperscrutabile. Ma Shaul più che a una creatura folkloristica somiglia a un irrequieto Frankenstein: assorbe troppo in fretta le caducità umane e si lascia trasportare nella turbolenta insofferenza di Telma. Il libro della creazione è la dimostrazione di quello che scriveva Mary Shelley, ovvero che “l’invenzione consiste nella capacità di cogliere le potenzialità di un argomento e nel potere di plasmare e foggiare le idee che questo suggerisce”. Attorno alla leggenda del golem, Sarah Blau, gestendo con grande disinvoltura e originalità l’elemento fantastico, ha dipanato una fittissima rete simbolica e metaforica che avviluppandosi all’albero genealogico di Telma risale lungo i rami femminili, dalle volubili zie Edith e Tzila fino al dramma di Chaya che partorisce due gemelli siamesi, l’ultimo degli arcani che si protraggono lungo Il libro della creazione, fino alla forza della nonna Gerta. In realtà tutto comincia dal suo funerale: se Telma compone il golem per soddisfare le sue voglie d’amore, lei li avrebbe voluti al fianco nell’insurrezione di Varsavia, nella primavera del 1943. Ma non arrivò nessun gigante e anche gli alleati tra gli esseri umani si rivelarono molto, molto piccoli.

martedì 24 novembre 2020

Klaus Maeck

Ci sono due avvertenze che delimitano l’avventura degli Einstürzende Neubauten. La prima risale alla segnalazione di un concerto tedesco che diceva: “Questo spettacolo potrebbe causare danni a tutti coloro che hanno problemi cardiaci e preesistenti problemi all’udito”. L’avviso, che rispecchia bene il sottotitolo, Ascolta con dolore, è una bella presentazione per introdurre un gruppo iconoclasta, folle e geniale, capace di superare le regole e i luoghi comuni dell’industria dell’intrattenimento, ma soprattutto di forzare i confini della percezione e dell’arte. L’intenzione, rimasta coerente nel corso degli anni, è quella dichiarata da Blixa Bargeld: “Per me ogni forma di creatività è possibile solo in una situazione estrema. Non credo che altrimenti possa venir fuori qualcosa di valido”. Sembra di risentire le lezioni di John Cage, rispolverate e adattate alla città dove la distruzione, la ricostruzione, la separazione hanno generato il territorio ideale per la fermentazione degli Einstürzende Neubauten. Il legame con Berlino è indissolubile perché come scrive Chris Bohn “hanno fatto da specchio alla parte più orrenda della città, distorcendola in modo tale da farla riapparire più bella che mai”. Inventandosi un spazio autonomo, strutturando mezzi e logiche di produzione propri, creando una rete alternativa di diffusione e sostegno, gli Einstürzende Neubauten appena “usciti dalla rovine della cultura berlinese, appiccano il fuoco in un’autostrada deserta”, come scrive Alfred Hilsberg e da lì hanno martellato senza pietà, attraversando tutti gli emisferi, dal deserto americano alle entusiaste platee giapponesi. Grazie al lavoro di assemblaggio di Klaus Maeck, che li ha conosciuti a distanza ravvicinata, Ascolta con dolore è un ritratto a più voci, supportato da un ricco apparato iconografico che rispecchia il lavorio degli Einstürzende Neubauten. Se possibile, la dimensione di Ascolta con dolore è ben riassunta nella definizione di  Chris Bohn quando dice che “gli EN hanno dissolto ogni confine tra arte e dura vita quotidiana. La produzione della loro musica è per loro un lavoro fisicamente ed emotivamente estenuante: creano musica con Black&Decker, martelli pneumatici, putrelle d’acciaio, piedi di porco, vecchie radio, bassi e chitarre. Le percussioni personalizzate fatte di acciaio tante volte restano inutilizzate, perché per creare i loro ritmi duri i Neubaten preferiscono la ferraglia raccolta in strada”. Questo rispecchia alla perfezione la musica, come spiega Blixa Bargeld  vista “come il risultato di tre componenti: potere, magia e follia”, estranei al “pensiero dominante che tu debba per forza saper suonare uno strumento. Noi invece, neanche gli strumenti musicali abbiamo più, ma solo metalli e rottami. Non abbiamo più neanche la batteria. Abbiamo solo una chitarra e se va avanti così non avremo più nemmeno quella. Avremo solo pezzi di ferraglia e produrremo musica folk, la stessa musica che veniva suonata duemila anni fa, simile alla nostra. Questo è un beat psichedelico, il ritmo che si nasconde sotto la nostra musica perché questo è il ritmo che ci circonda”. Tra i contributi vanno annoverati, oltre allo stesso Blixa Bargeld, Nick Cave, F.M Einheit, Teho Teardo, Paolo Bandera, a rammentare le ramificazioni telluriche trasmesse dagli Einstürzende Neubauten, che poi sono riassunte nell’altro, fondamentale avviso, che merita di essere proposto per intero: “La scala Richter viene usata per misurare la forza dell’onda sismica di un terremoto da uno a cinque. 0: assoluta calma; 1: vibrazioni percepibili; 2: crepe sui muri; 3: edifici che tremano; 4: edifici in parte distrutti; 5: Einstürzende Neubauten, che poi è la verità visto che il nome significa proprio edifici che crollano.

mercoledì 11 novembre 2020

Wisława Szymborska

Nel suo complesso, l’opera omnia di Wisława Szymborska rispecchia l’intuizione da cui tutto è cominciato, la sensazione che “il nostro bottino di guerra è la conoscenza del mondo: è così grande da stare tra due mani, così difficile che per descriverlo basta un sorriso, strano come l’eco di antiche verità nella preghiera”. Lo scriveva nel 1945, in Raccolta non pubblicata, e quella naturalezza è rimasta intatta, custodita in una linguaggio limpido, che sa dominare L’orribile sogno del poeta, quello che “nelle frasi domina l’incondizionale, i nomi aderiscono strettamente alle cose. Nulla da aggiungere, togliere, cambiare e spostare”, e coltiva con discrezione l’umiltà espressa in Possibilità: “Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne”. In realtà, nelle Opere di Wisława Szymborska si scopre la maturazione di una forma di dialogo continuo, che parte proprio dalle dimensione del sogno (“E sognerai che non occorre affatto respirare, che il silenzio senza respiro è una musica passabile, sei piccolo come una scintilla e ti spegni al ritmo di quella” diceva in Appello allo Yeti), manifestata apertamente con La veglia (“Non i sogni sono folli, folle è la veglia, non fosse che per l’ostinazione con si aggrappa al corso degli eventi”) e La memoria finalmente (“Solo ora posso dire in quanti sogni hanno vagato, in quante resse li tiravo fuori da sotto le ruote, in quante agonie da quante mani mi scivolavano”). Dalla folta selva onirica, gli orizzonti si allargano e sapendo “come sono permeabili le frontiere umane”, la poesia di Wisława Szymborska si accorge in Campo di fame presso Jasło come “la storia arrotonda gli scheletri allo zero” e, con Disattenzione, che “il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle, e io l’ho preso solo per uso ordinario”. La distingue comunque l’accettazione di un limite, quello espresso in Parabola (“Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. È quel che accade con le verità universali”) o Movimento irrigidito (“Un passo dall’arte eterna all’eternità artificiale, con riluttanza ammetto che è meglio di niente e più giusto che no”). Più ci si inoltra nelle Opere di Wisława Szymborska e più ci si accorge di come la sua voce si sia fatta via via in grado di affrontare piccoli e sfuggenti dettagli sapendo “il particolare è inflessibile”, condensando una raffinata ironia (straordinaria in Autotomia: “Morire quanto necessario, senza eccedere”), e conservando una genuiva relatività. Evidente nei versi di Una vita all’istante: “Non conosco la parte che recito. So solo che è la mia, non mutabile”, ed per questa convinzione, che la ricchezza della sua poesia risponde a una precisa collocazione, anche quando si adegua a rileggere le coordinate esistenziali in Solitudine cosmica (“La vita è schizzinosa e richiede un concorso di circostanze assai particolari; il loro verificarsi si osserva sul nostro pianeta e, per il momento, da nessun’altra parte”) o in Ogni caso (“E ciò che d’un tratto mi è saltato da sotto i piedi, non è saltato lontano, perché calpestato è caduto, e benché ancora si svincoli ed emetta un prolungato silenzio, è un’ombra, troppo mia perché mi senta alla meta”) e con Il ballo (“Non so agli altri, per essere felice e infelice, a me basta questo: una dimessa provincia dove anche le stelle sonnecchiano e ammiccano nella sua direzione non significativamente”). Il denominatore comune del patrimonio lirico di Wisława Szymborska è una ricchissima coltivazione di parole, delimitata da piccole digressioni sul tema. Se ne possono ricordare almeno due, a definire un possibile tracciato, inizio e fine intercambiabili. Scriveva in Il classico: “Qualche zolla di terra, e la vita sarà dimenticata. La musica si libererà dalle circostanze”, e così d’altra l’eco rispondeva In lode di mia sorella: “A volte la poesia scende a cascate per generazioni, creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire”. Ed dunque si ricomincia dall’inizio perché “conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova” e la forza di Wisława Szymborska è nel contrasto tra l’ammissione che “solo ciò che è umano può essere davvero straniero. Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento” e la vocazione espressa con “la gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta d’una mano mortale”. È tutto lì, e molto più di un premio Nobel.

giovedì 5 novembre 2020

Nadeem Aslam

Ci sono due nazioni, due mondi e due universi che raccontano le Mappe per amanti smarriti. Gran Bretagna e Pakistan, civiltà occidentale e Islam, la natura del mondo reale e quella fantastica delle patrie immaginarie dei sogni e dei legami. È tutto doppio in quel gioco di incontri e contrasti che è la vera trama sotterranea del romanzo di Nadeem Aslam. Sullo sfondo delle differenze tra modi di vivere diversi si sviluppa un’educazione ai legami e all’amore di un’intera comunità. Il punto di partenza è la scomparsa di Jugnu e Chanda, i primi amanti smarriti della storia, che inserisce una sottile indicazione noir nella geografia del racconto. Per inciso, “Jugnu, lo studioso di lepidotteri, sosteneva che le farfalle rosa liberate nell’aria durante il concerto dei Rolling Stones a Hyde Park nel luglio 1969 doveva essere semplici farfalle bianche immerse in un bagno di colore, perché in natura non esistono farfalle rosa”. Un passaggio che, all’inizio di Mappe per amanti smarriti, rende già evidente l’amore di Nadeem Aslam per i dettagli naturali, e non. Poi c’è, quasi speculare, il confronto tra Shamas (il fratello di Jugnu) e la moglie Kaukab che è anche l’immagine del divario tra l’accettare e lo scoprire il nuovo mondo e il rimanere legati alle tradizioni. L’intreccio, complesso e per certi versi temerario, contiene anche il distacco e le aderenze tra India, Pakistan e la Gran Bretagna, tra la civiltà occidentale e l’Islam che Nadeem Aslam racconta inserendo profumi, sfumature e descrizioni particolareggiate con certosina abilità e anche con un delicato senso musicale del ritmo e della parola. Aiutato da un immaginario legatissimo allo svolgersi spontaneo dei tempi e delle stagioni, che scandiscono l’andamento di tutto il romanzo, perché “il tempo trasforma tutto in ricordi”, Mappe per amanti smarriti è un libro attraente, anche se non sfugge una certa patina di formalità nella sua costruzione. Come se Nadeem Aslam, nel tentativo di convincere il lettore, abbia esagerato un po’ troppo nell’elaborazione e nella rifinitura, smarrendosi con i suoi amanti. L’intricata filigrana, a tratti barocca, è una componente ridondante nella scrittura, pur con una sua logica. Piccoli difetti di gioventù, quando “l’immaginazione pretende di spaziare in tutti gli aspetti della vita” e manca ancora quella mappa che serve per non lasciarsi travolgere dall’esuberanza e dall’entusiasmo. Le cartoline sulle vie intraprese dagli amanti perduti sono preziosi ricami sia con lo sguardo rivolto in alto (“Il cielo è così azzurro che viene voglia di toccarlo. Presto sarà azzurro e oro”) che puntato verso la terra (“Gli aceri lungo la ripida stradina fra la moschea e la chiesa avevano incominciato a sanguinare goccia a goccia all’inizio dell’autunno e adesso sono quasi completamente spogli, scheletri degli alberi che erano”), ma scrutando il destino dei suoi amanti Nadeem Aslam avverte comunque: “Niente avviene per caso: è sempre colpa di qualcuno; forse, ma  nessuno ci insegna a convivere con i nostri errori. Ciascuno è isolato, solo con il suo dolore e la sua colpa, e una domanda troppo acuta può far sì che il giorno dopo le persone non riescano più a guardarsi in faccia tra loro. E non sa neppure se sarà mai capace di affrontarla o costringerla ad ammettere la verità. Sono intrappolati qui l’uno con l’altro rinchiusi nella stessa cella d’isolamento, e non c’è liberazione”. Questo vale per tutti, e forse bastava molto meno per dirlo.