Colpito al cuore dalle liriche di Puškin, Vikram Seth abbandona un’avviata carriera da economista per lanciarsi in un’impresa di 590 sonetti in rima ispirati a San Francisco, alla guerra fredda e a una vita intrisa di poesia. La sfida era dichiarata, sfrontata e ambiziosa fin dall’inizio. Raccontare in versi, in una lunga ballata, l’attualità del mondo così come lo vediamo con la sua moltitudine di voci, di simboli, di idee per aria, di connessioni che non uniscono e di parole che non dicono. Golden Gate doveva essere un romanzo in forma di poema, chissà, forse un omaggio senza timori alla gloriosa epopea di Walt Whitman, oltre che al dichiarato colpo di fulmine con Puškin. Con l’intenzione di abbracciare il possibile e l’impossibile, partendo dalle origini primordiali, quando Vikram Seth dice: “Cos’è in fondo l’origine del mondo? Un tic-tac nel silenzio dello spazio”. In corso d’opera, sospinto dall’innegabile ricchezza di un vocabolario e da una spiccata sensibilità ritmica, Golden Gate deve aver proprio invertito la sua polarità. Prendendo la mano a Vikram Seth è diventato qualcosa di molto simile a un poema in forma di romanzo perché la frammentazione delle sue stanze ha riflettuto, più che interpretato, il caos del nostro mondo, dove morale e legge spesso non combaciano (“Ci sono delle occasioni in cui morale e legge civile sono in conflitto. Anche se l’unica legge ufficiale è quella del diritto. Se rispondiamo alla nostra coscienza e non vogliamo distruzione e violenza e né che degli ordigni intelligenti colpiscano degli umani innocenti, ci vuole una chiosa alla citazione. Una corretta analisi filologica deve comprendere l’intera logica del testo”), la guerra è onnipresente (“La nostra nazione ha creduto a lungo che la guerra era uno sport”) e il dubbio è l’unica certezza (“Non c’è salvezza e non c’è vittoria. Non c’è difesa, non c’è alcun confine. Non ci sono limiti, non c’è storia”). Prosa o poesia, l’originalità e la temerarietà di Vikram Seth non sono in discussione perché Golden Gate è una rotta trafficata e rocambolesca attorno ad un’idea cosmopolita, un clamoroso laboratorio linguistico, che purtroppo è rimasto tale. Dovessero contare più le premesse dei risultati concreti, Golden Gate vincerebbe ancora oggi il premio Pulitzer. Essendo rimasto un caso, eclatante ma pur sempre un caso, rimane sospeso e incompiuto tra la certezza di una frattura epocale (“Noi/Loro. La scoraggiante visione che sottintende questa ribellione. L’ipocrita superficialità non estirperà il seme del peccato, e non guarirà questo caos dannato”) e una sincera curiosità che Vikram Seth, con una domanda sacrosanta (e rivelatoria), sintetizza così: “Se il desiderio lacera il tuo cuore, come può quello che hai letto qua e là, cose risalenti a secoli fa, convincerti che è fasullo l’amore che provi, e che questa tiritera di dogmi, cavalli e carri, è vera?”. Così viviamo oggi, e anche se nell’infinita ballata di Vikram Seth la domanda rimarrà senza risposta, la sfida è vinta, ai punti.
venerdì 24 novembre 2017
giovedì 23 novembre 2017
Geoff Dyer
Un’altra
formidabile giornata per mare è un reportage insolito anche per
Geoff Dyer, scrittore curioso e mai spaventato dal trovarsi
disorientato o fuori luogo. Solo che una portaerei americana in
servizio nel ventunesimo secolo è un luogo irto di ostacoli, una
struttura metallica sospesa tra mare e cielo, inattaccabile e
incomprensibile ai più. Si capisce subito che Geoff Dyer, arrivato
sulla USS George Bush inseguendo un sogno infantile, non è
nel suo elemento: brancola (letteralmente) nel buio e si aggira a
fatica negli spazi angusti della nave che, per quanto enorme, non
consente alcuna libertà di movimento, essendo “un labirinto
tridimensionale di passaggi, scali e portelli”. Il processo di
ambientazione prevede molta pazienza e la sopportazione dei limiti
delle imposizioni della vita militare e delle particolari condizioni
della routine a bordo. Geoff Dyer ammette: “Ho passato il resto del
tempo sulla portaerei a schivare e scansarmi o, più esattamente, a
scansarmi e chinarmi”. La portaerei è un’altra galassia.
E’isolata, autoreferente, claustrofobica, anche se è una città
che galleggia nell’oceano. Quello che succede è solo lì, nel
presente e nell’immediato annunciato ogni mattina proprio dallo
slogan Un’altra formidabile giornata per mare. E’ sempre
in emergenza perché ospita mostruosità tecnologiche e tonnellate
d’acciaio sempre in movimento e, va da sé, è una polveriera. E’
difficile viverci dentro, perché gli spazi sono limitati e dove non
sono limitati sono i posti più pericolosi del mondo, il deposito
delle armi, l’hangar e soprattutto il ponte di volo, dato che “non
solo la portaerei era un altro mondo: il ponte di volo era un mondo a
parte rispetto al resto delle portaerei. E tutto quanto succedeva
negli altri punti della portaerei aveva un significato e
un’importanza solo rispetto a quello che succedeva lì. Tolti il
ponte di volo e gli aerei non restava che una nave enorme”. Come
sia finito e cosa ci faccia Geoff Dyer sulla portaerei non è chiaro,
neanche quando prova a spiegarlo nel dettaglio: “Da piccolo ho
amato la guerra e i soldati. Da studente, ormai libero da
quell’infatuazione sanissima, la mia vita ha cominciato a prendere
il contrario di una piega militare nel senso che, grazie a una
combinazione di ambizione passiva e di fortuna, sono diventato, come
dicono gli adulti, capo di me stesso. Liberato dalla catena di
comando dell’ufficio, ho acquisito uno strano genere di
autodisciplina, del tutto simile all’autoindulgenza, che è diventa
una seconda natura. Ma nei pomeriggi in cui non riuscivo a scrivere e
nelle sere in cui non sentivo nessun obbligo a provarci, ho letto
sempre di più sulle forze armate, accrescendo il fascino per un
mondo che era l’esatto opposto del mio”. La portaerei diventa
un’occasione per parlare di se stesso attraverso un filtro
singolare, “un regno di poesia accessibile solo a chi ha una
visione del mondo basata sulla tecnologia, il sapere e il calcolo
anziché sulla meraviglia stupefatta”. Geoff Dyer, per quanto
impacciato, se la cava con una congrua dose di ironia e questo
traspare benissimo nella parte conclusiva delle sue Cronache da
una portaerei, quando ormai sta per ripartire: “Insomma, eccomi
lì, un turista con il taccuino, un antropologo marino i cui dati si
mischiavano in modo così totale e distorto agli strumenti per
procurarseli che probabilmente non avevano alcun valore come dati ma
solo come ricordo o come raccolta di istantanee di una vacanza senza
macchina fotografica”. Il suo bilancio è onesto e sincero nel
valutare Un’altra formidabile giornata per mare: in fondo è
un coraggioso tentativo di comprendere una realtà complicata e
spigolosa, ma i risultati conseguenti, tutto sommato gradevoli e
interessanti, sono anche abbastanza relativi.
mercoledì 22 novembre 2017
Jean Echenoz
Uno
dei più importanti architetti francesi, Jean Nouvel, sostiene che
“un edificio deve saper comunicare le inquietudini di un’epoca”.
Una definizione che collima alla perfezione con L’occupazione
del suolo: il
ritratto di Sylvie Fabre, un enorme murale pubblicitario esposto al
vento, alla pioggia, agli elementi naturali (e non) è quasi un’opera
di landscape art che deve assorbire quell’aria, quel clima,
quell’atmosfera, in cui “per negligenza o per volontà, si
lasciava deperire lo spazio”. E’ tutto quello che rimane di lei
al padre e al figlio Paul e quando la costruzione di un
nuovo palazzo va a coprire il dipinto, i tentativi di restargli
vicino, di vederla ancora, determinano anche la consapevolezza di ciò
che non si vedrà più perché come diceva un altro grande
architetto, Bernard
Tschumi, “un oggetto di architettura non è architettonico perché
seduce o perché adempie a qualche punizione pratica, ma perché
mette in moto l’inconscio e le operazioni di seduzione”.
L’occupazione
del suolo
in sé non è meno attraente dell’immagine dipinta sul muro, ma è
il contesto di Parigi e della sua evoluzione a determinare i
movimenti principali, le scosse che arrivano a mostrare nuovi profili
e nello stesso tempo a oscurarne altrettanti. Il segreto, neppure
tanto invisibile nel minuscolo capolavoro di Jean Echenoz, sta
proprio nel trascrivere le emozioni dello sguardo per quelle
variazioni architettoniche. La sensazione sembra quella
descritta negli stessi anni da Jean Vautrin: “Ecco cosa ho visto,
ma nessuno è obbligato a crederci”. E’ un punto ben preciso
sulla mappa. L’occupazione del suolo, è delimitata da quai
de Valmy che corre lungo il canale Saint-Martin, il santo dei
traslochi, e lì, sul suo fondo “si
trovavano troppo poche armi del delitto, gli unici scheletri erano
armature di sedie di ferro, carcasse di ciclomotori. Per il resto,
solo cerchioni e pneumatici scompagnati, marmitte, manubri; la
proporzione di bottiglie vuote sembrava normale, in compenso la
quantità di carrelli di ipermercati rivali era sconcertante”.
La vocazione del cantiere è innata perché la via, in origine, quai
de Louis XVIII, si sviluppa proprio per la costruzione del canale, a
cui è legata in modo indissolubile. In quegli anni Parigi è tutta
un cantiere verso il futuro, un’onda lunga partita dal Beaubourg e
culminata nella costruzione dell’Institut du Monde Arabe, della
Villette e della Cité des Sciences et dell’Industrie, ma come
scriveva Edmond Jabès, contemporaneo a Jean Echenoz, “la tua città
è un miraggio. La terra, rispetto all'universo, un uccello perduto,
dalle ali troppo fragili per sfidare, sola, l’ignoto. Cammina su
questo pianeta così maneggevole che un niente lo fa girare. Dove
sei? Caduto nella trappola del reale e dell’inverosimile. Cercando
l’uscita”. Padre e figlio restano impigliati proprio lì: quando
di Sylvie Fabre rimane soltanto la pubblicità di un profumo, non
sfugge il simbolismo, anche se Jean Echenoz la tratta con gentilezza.
L’icona prende vita non per le necessità del commercio, ma per la
nostalgia, per il vuoto che ha lasciato e che ha fatto implodere i
legami famigliari. Il pellegrinaggio davanti alle inarrivabili
dimensioni di Sylvie Fabre è il tema costante di un racconto che ha
il ritmo della ballata di uno chansonnier, ma con un sottofondo
minimalista di rumori e distorsioni impercettibili, che disturba quel
tanto che è giusto. La declinazione dei tempi è enigmatica e l’uso
del condizionale un’incongruenza perfetta nello stile perché rende
benissimo l’idea di un tempo transitorio, dove L’occupazione
del suolo genera distorsioni significative nella percezione dei
luoghi perché “basta un oggetto per avviare una catena, se ne
trova sempre uno che sigilla ciò che lo precede, colora ciò che
seguirà, così, al normografo, l’avviso del permesso di
costruzione. Poi è tutto molto rapido, qualcuno probabilmente si è
venduto l’anima assieme allo spazio, c’è il buco”. Sì,
L’occupazione del suolo è la dimostrazione che in poche
parole (una trentina di splendide pagine) si può dire tutto.
lunedì 20 novembre 2017
J. G. Ballard
Cocaine
Nights è un romanzo importante e, per certi versi
indispensabile, perché è l’unico, negli ultimi anni, ad esplorare
in modo così esplicito ed incisivo il nostro futuro. La fantascienza
non c’entra nulla: anche se non si sono indicazioni specifiche,
Cocaine Nights è proiettato in un tempo che vede l’oggi
come passato prossimo e in un luogo, la spagnola Costa del Sol, che
per la sua vicinanza a Gibilterra, vale soprattutto quale paesaggio
metaforico, un’ambigua zona di confine. L’atmosfera generale, la
zuppa in cui J. G. Ballard intinge le sue intuizioni, è quella di
una comunità che dispone di quantità illimitate di tempo libero,
prospettiva che più di un sociologo si sentirebbe di controfirmare:
la televisione non è più sufficiente, la noia è sempre in agguato,
la voglia di vivere (e quindi: di consumare) potrebbe venir meno con
danni irrimediabili all’industria dell’intrattenimento, del
turismo, dello spettacolo, della pubblicità. Non ci sono in gioco
soltanto incalcolabili interessi economici, ma anche tutta la
complessa rete di rapporti, valori, tradizioni e convenzioni,
idiosincrasie e contraddizioni che fin qui hanno retto quelle
strutture (politiche, industriali, commerciali) che nessuna
rivoluzione è riuscita né a capire né, di conseguenza, a
rovesciare. Nelle propaggini di Cocaine Nights J. G. Ballard
scopre una sorta di accelerazione di questa decadenza, un impulso
all’autodistruzione per tedio che ha nella bucolica enclave di
villaggi turistici e campi da tennis,della Costa del Sol ha il suo
humus ideale. La risposta, per mantenere lo status quo, è
paradossale, ma comprensibile: trasgressione. Sesso, droga, soldi
sono gli stimoli adatti e cominciano a incuriosire sempre di più la
popolazione della Costa del Sol mentre le inevitabili
controindicazioni (microdelinquenza, tossicodipendenza, truffe e
derivati) diventano altrettante fonti di guadagno: sistemi di
sorveglianza, cliniche private, casinò, riciclo di denaro. Cocaine
Nights è molto lucido nel rivelare una perversa idea di
ingegneria sociale: il suo caos stratificato, il suo progettare una
vitalità con l’ambiguo supporto di vandalismi, furti, danni e
aggressioni, cresce dove “il crimine e la creatività vanno di pari
passo, e l’hanno sempre fatto. Maggior è il senso del crimine,
maggiore è la coscienza civica e più ricca la civiltà. Non c’è
nient’altro che faccia da collante in una comunità”. Una
percezione confermata altrimenti anche da Don DeLillo: “Considero
la violenza contemporanea una specie di risposta sardonica alla
promessa di appagamento consumistico. Uomini che non possono uscire
dalle loro minuscole stanze e devono organizzare la loro disperazione
e la loro solitudine, devono cercare un destino per disperazione e
solitudine e spesso finiscono per farlo con mezzi violenti. Vedo
questa disperazione nei pacchetti dai colori sgargianti e nella
felicità del consumatore e in tutte le promesse che la vita del
consumo ci fa giorno per giorno e minuto per minuto ovunque andiamo”.
Capace di trasformare un’esile trama noir in un’acuta
osservazione del presente, dove tra crimine e vittime le distanze si
sono affievolite, con Cocaine Nights J. G. Ballard tocca molti
nervi scoperti e, fin dall’incipit (strepitoso) ricorda che quella
frontiera l’abbiamo passata tanto tempo fa.
venerdì 17 novembre 2017
Derek Raymond
Nella
personale vicenda di Derek Raymond, eccellente scrittore e
straordinario outsider, Quando cala la nebbia rossa ha un
valore e un sapore del tutto particolari perché è l’ultimo
romanzo a cui ha lavorato e che aveva finito soltanto qualche mese
prima della sua scomparsa. Un finale di partita convulso in cui si
ritrova tutto il disastrato paesaggio umano caro a Derek Raymond, a
partire dagli sbirri della Factory e dal loro universo senza
speranza. L’aspetto poliziesco, nonostante l’intensità della
trama che coinvolge i servizi segreti di mezzo mondo, tutti i
bassifondi della polizia e dell’umanità londinese, scivola
episodio dopo episodio, battuta dopo battuta (e ci sono dialoghi che
bruciano come la canna di un revolver) in secondo piano, come se
fosse una traccia da cui partire piuttosto che un punto d’arrivo.
Tutto comincia con un furto che tanto banale non è trattandosi di un
blocco di passaporti britannici nuovi di zecca. Il loro valore,
piuttosto elevato, non è niente confronto al vaso di Pandora che il
furto scoperchia e da cui salta fuori una congregazione
internazionale di spie sulle tracce di un intero arsenale, ivi
comprese un paio di testate nucleari. Sarà un piccolo delinquente,
uno dei tipici perdenti tratteggiati da Derek Raymond, a dover
trovare il bandolo dell’apocalittica matassa. A parte un
collegamento immediato con Aprile è il più crudele dei mesi,
la firma di Derek Raymond è una sorta di garanzia assoluta: una
scrittura tagliente, spietata, a tratti persino dolorosa che mette il
genere umano di fronte alla sua disperazione, visto che “se si
venisse a sapere come stanno le cose, correrebbero tutti a
nascondersi nei bunker, sempre che ce ne siano”. Senza mezzi
termini, senza alcuna concessione ed è proprio quest’onestà il
tratto principale del suo stile, tra l’altro lirico e preciso, che
consente di toccare con mano la disperazione di Gust, ovvero del
protagonista di Quando cala la nebbia rossa. Delinquente tanto
infinitesimale e irrilevante quanto irriducibile, Gust dovrebbe
diventare il perfetto capro espiatorio di un complotto stratificato,
le cui finalità, come in ogni complotto che si rispetti, sembrano
non aver data di scadenza. Gust è la vittima sacrificale che va bene
a tutti perché non conta nulla, se sbaglia respiro finisce di nuovo
in galera ed è già bruciato in partenza. Per il ruolo che gli è
stato assegnato, non serve altro, ma, come ha insegnato qualcuno,
essere perdenti è un lavoro a tempo pieno, e allora Gust si ribella
cercando di salvare il futuro del mondo soltanto perché, intanto,
deve salvarsi il suo, di destino. E’ un loser che non ha nulla da
perdere e provoca una reazione a catena in cui Derek Raymond sembra
persino divertirsi a posare le statuine dei suoi presepi:
psicopatici, disillusi, folli, coraggiosi, tragici esseri umani che
si trovano a fare sempre le stesse, identiche mosse da una parte o
dall’altra di una trincea chiamata vita e che Quando cala la
nebbia rossa possono soltanto immaginare di limitare i danni. Il
suo mondo, per l’ultima volta.
giovedì 16 novembre 2017
Ricardo Piglia
Partendo
dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa
più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di
autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare
figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo
corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che “la
lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa
venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà.
Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio
dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il
sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione
è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti
immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca
nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che
legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena
di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un
thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è
proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif
Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando
dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il
destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo
essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che
non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che
vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o
poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai
libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste
sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come
in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si
ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima
solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché
“chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale”
e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il
mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di
costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è
triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste
tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in
quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora
si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da
Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che
Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un
modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va
costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima
bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro
universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per
meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto
accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un
libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico
nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”.
Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un
viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo
il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere
errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un
po’ più fortunato.
mercoledì 15 novembre 2017
Árni Thórarinsson
Essendo
un’isola, l’Islanda è un ecosistema chiuso e concluso su se
stesso e si riflette nella vita dei suoi abitanti. Nello stesso
tempo, nonostante la distanza, l’Islanda non è dissimile dal resto
del continente europeo alle prese con crisi economiche, speculazioni,
violenze, abusi. I problemi di ogni altra nazione di questo mondo.
Anche a nord del paese, le tensioni risentono di tutti questi
elementi, in contrasto con la vita al rallentatore e i ritmi
bucolici. Einar, giornalista della capitale islandese viene spedito
ad Akureyri, una cittadina settentrionale che non raggiunge i
ventimila abitanti, dove un vento appena più forte della brezza
sarebbe già una notizia. Retrocesso a cronista di provincia, Einar
pare sempre all’ultima spiaggia nei suoi rapporti: con il giornale,
con la figlia (si intuisce una separazione, alle spalle), con la
solitudine, con l’alcol (a cui deve rinunciare) e con la sigaretta,
che consuma sempre come se fosse l’ultimo desiderio del condannato.
Messo così, è normale che affronti tutti gli ostacoli con
riluttanza. Mentre cerca un modus vivendi con un insopportabile
caporedattore centrale votato alla carriera e uno locale con cui non
si capisce, ad Akureyri tre persone muoiono in circostanze non
proprio naturali: una donna affoga durante una stupida discesa di
rafting con i colleghi per rafforzare lo spirito aziendale, una
ragazza si suicida e uno studente, appassionato attore e aspirante
regista, viene trovato carbonizzato. La trasferta comincia a farsi
movimentata: Einar trova un appiglio su cui concentrarsi, un posto
dove stare e da cui elaborare strategie di sopravvivenza. E’ un
osservatore meticoloso, distaccato, un investigatore istintivo e
maniacale, solo che ci mette un bel po’ ad arrivare la punto
giusto. Lento e caparbio, ha la tendenza a cercare e a ricostruire
l’intero quadro: le vittime, i colpevoli, il contesto, i moventi, i
precedenti, gli innocenti. Sono tutti importanti, nello stesso modo,
solo che è difficile spiegarlo e a Einar non sfugge la confusione:
“Tendenze sessuali, etnia, razza, pelle, nazionalità, culto.
Quando sono in ballo questioni del genere, la gente spesso confonde
le questioni secondarie con quelle principali. Qualsiasi siano i
motivi”. L’omicidio, in particolare, genera una moltitudine di
scintille anche nella sonnolenta Akureyri ma l’unico disposto a
seguirle sembra essere Einar, animato dall’istinto e dalla
necessità di sentirsi ancora vivo e utile. Una condizione che
Hannes, il suo direttore editoriale, ammette così: “Forse il tuo
dubbio, a guardar bene, è se tutti noi apparteniamo davvero a questa
società. A volte ne dubito anch’io. Ne dubito profondamente. Ma
non possiamo fingere che non esista”. Il tempo della strega
è un romanzo sornione, con un andamento indolente consono al tran
tran di Einar, però sotto la finta pelle della black comedy, i toni
ironici (se non proprio comici, a tratti) scoprono le incrostazioni
spontanee del ventunesimo secolo, che sono uguali a tutte le
latitudini: fusioni aziendali che sono fallimenti mascherati,
bancarotte figlie di ruberie continue, l’attrito tra tradizioni
religiose e radici pagane, lo sfruttamento indiscriminato del
territorio e le contorsioni politiche, la noia dei giovani e
l’assuefazione degli adulti. Senza pretese moralistiche e con molto
garbo perché Árni Thórarinsson ed Einar si somigliano molto, sanno
che per vivere in Islanda, come in ogni altro luogo, serve
accontentarsi un po’.
giovedì 9 novembre 2017
Eshkol Nevo
Mentre la
Francia vince i campionati mondiali di calcio del 1998 con una
squadra cosmopolita e variopinta, quattro amici decidono, un po’
per gioco, un po’ per sfida, di cominciare una bizzarra partita con
il destino. In foglietti piegati e riposti con cura, infilano i loro
desideri più profondi che vorrebbero vedere realizzati entro e non
oltre un termine ben preciso, ovvero la successiva edizione dei
mondiali. Se l’idea parte nella condivisione della certezza che
“noi tutti sentiamo di appartenere a qualcosa solo quando siamo
insieme”, l’aver fissato una destinazione nella realtà implica
soltanto una precisione sulla carta dei calendari, ipotetica almeno
quanto la natura dei desideri. La scadenza, ogni quattro anni, è uno
spartiacque temporale, un confine invisibile e ideale tra speranze e
promesse, tra l’evoluzione delle personalità, l’incidenza
dell’età, degli imprevisti e delle probabilità. Quello che resta
è il dato concreto, e inalienabile, con cui è partito l’azzardo:
ormai scritti, i desideri resteranno lì, incidendo una linea
assoluta che rende il gioco inventato dagli amici davanti alla
televisione un rischio permanente, e inquietante. Zinedine Zidane
alza la coppa del mondo e arrivederci a quattro anni dopo. Eshkol
Nevo manovra con una certa abilità l’incrocio tra le personalità
di Ofir, Churchill, Amichai e Yuval (a cui vanno aggiunte Ilana,
Maria e Yaar) finché i desideri si realizzano, ma con una
“simmetria” (che è poi quella del titolo) sfasata rispetto alle
intenzioni, secondo trame imprevedibili, segnando la vita, i legami e
le storie degli amici. D’altra parte c’è una precisione
divinatoria se un gioco nato per caso e per scherzo davanti alla
televisione diventa un rituale rivelatorio, a cui i quattro amici
torneranno spesso a fare riferimento. Come se gli servisse a
comprendere che i desideri erano tutti giusti, ma al posto sbagliato,
mentre le tracce delle loro vite venivano segnate, anno dopo anno, da
quella che Eshkol Nevo chiama “incostanza dei sentimenti”. Come
era facile intuire, la partita è persa fin dall’inizio. La
difficoltà di far coincidere i legami e i rapporti con i propri
desideri non è l’unica che devono affrontare i quattro amici. Si
devono destreggiare anche con le proprie famiglie, con una vita
quotidiana fatta di guerra e di violenza, con città evanescenti e
notti surreali. Si devono confrontare anche con le fragili
intersezioni di un’amicizia con l’altra, dove, come capita
regolarmente nella realtà, il tradimento, l’assuefazione, il
sospetto e la confusione prolificano in modo esponenziale. “Se è
tutto sbagliato da cima a fondo, che almeno si tratti di un errore
maestoso” scrive Eshkol Nevo e, senza forzare i toni, anzi
piuttosto con garbo, misura e discrezione, conduce il romanzo in
porto. Solo che sua “simmetria” più che geometrica deve essere
stata matematica. Il segnale che giunge è che, pur di giungere alla
stessa somma, quell’insieme, che è poi il “desiderio” più
importante, vale la pena scambiare i ruoli, magari in attesa dei
prossimi mondiali.
mercoledì 8 novembre 2017
Paulina Chiziane
David,
dirigente d’azienda nel Mozambico rivoluzionario, sente che il suo
posto è a rischio e ricorre alla magia per preservarlo, sapendo che
“nessuno sale in alto con la carità” e che “il potere obbliga
l’uomo a scendere nel sudiciume più profondo”. Gli avvisi di
indovini e fattucchiere che consulta non servono a frenare la
maniacale ambizione di David che, innescando una serie di eventi
incontrollabili, lo condurrà lui e la sua famiglia, a partire dalla
moglie Vera, a scoprire il proprio destino. Magia bianca e nera,
conflitti sociali e guerre civili: Paulina Chiziane sviluppa
circostanze di un’intensità inusitata senza nascondere le proprie
sensazioni, i propri giudizi (“Lo spargimento di sangue è
premeditato, pianificato, con un’intenzione benefica e un nobile
progetto. Le vite sono capelli, dicono i guerrieri. Se ne tagliano
pochi e ne nascono molti, più forti e più sani. Ci sono ogni giorno
meno scuole, meno lavoro, meno pioggia, più fuoco, più sole, più
armi. Ci sono più morti che vivi, ma ancora non è arrivata la fine
del mondo, la vita trionferà, per la gloria del vincitore. Il
campione di questa guerra costruirà il maestoso palazzo imperiale
con ossa umane come se ne vanno in giro a tonnellate nei boschi”) e
imprimendo alla trama, alla storia un ritmo travolgente. Anche i
personaggi, a partire dal protagonista, David, sono combattuti e ben
definiti (“Ogni vincitore viene vinto dai suoi crimini. La terra
non sarà mai proprietà degli uomini”) con una percezione che è
sempre provocazione, come fa notare Lourenço: “Sono un eroe. Agli
eroi è permesso uccidere in nome di qualsiasi utopia: democrazia,
libertà, indipendenza. Io non ho ucciso nessuno, ho rubato nel nome
di una realtà molto concreta. Le mie tasche. Sono di gran lunga il
più santo degli eroi. Ho le mani pulite. Sono la persona più
innocente di questo mondo”. La storia,
sospesa tra un’intricato trama di tradizioni e magia e un acuto
realismo, è avvincente. Paulina Chiziane sembra condensare con Il
settimo giuramento secoli e secoli di
tradizioni africane, ma anche l’influsso delle culture europee,
imposizioni coloniali e rivoluzioni comprese. La composizione
potrebbe sembrare ardita e caotica, solo che la voce di Paulina
Chiziane è forte, senza remore, rende alla perfezione le motivazioni
che portano David verso Il settimo giuramento
e le sue inevitabili conseguenze: “Morale vuol dire essere deboli,
piccoli, inferiori. Immorale vuol dire odiare, rompere gli equilibri.
Risvegliare. Far vibrare. Vivere. Vuol dire fare la guerra. Vincere
la guerra. Vuol dire trasformare i più deboli in polvere e nulla.
Senza odio né tirannia non sarebbero state costruite le piramidi
d’Egitto, né le strade, né i ponti, né le ferrovie, né i
monasteri, e anche l’America non si sarebbe sviluppata a costo del
sudore dei neri. Le trasformazioni hanno bisogno di un movimento,
figlio dell’odio”. L’adesione che Il
settimo giuramento richiede è quella. Il
prezzo da pagare va scoperto in fondo a un romanzo intenso e
suggestivo, a tratti crudele e spietato, sempre sorprendente.
lunedì 6 novembre 2017
Omar Cabezas
E’
giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e
ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle
montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà
per uno studente universitario, che si rende necessario perché la
montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un
linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha
scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte
l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che
rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla
montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in
sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e
ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano
quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La
resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio
dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica,
della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è
un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre
sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire
alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano
carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di
latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel
fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita
di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di
tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la
pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro.
La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i
riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri
ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si
acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco,
della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a
scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue
descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il
classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma
emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era
solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi,
accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora,
finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa
prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa
apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta
pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa
inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove
lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa
è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il
futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi
sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena.
Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in
montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro,
prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero.
Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando
passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo
incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che
il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci
evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu,
rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.
domenica 5 novembre 2017
Ian McEwan
C’è
una scena, all’inizio, un po’ surreale: una mongolfiera in
difficoltà, un gruppo di uomini coinvolti all’improvviso dalla
casualità e nello stesso destino, lo sfondo bucolico della campagna
inglese. Sembra “l’avanzo di un ricordo”: la mongolfiera è
simbolo di una certa leggerezza e un dei protagonisti si accorge che
“come il personaggio di un sogno vivevo al tempo stesso in prima e
in terza persona. Agivo, e mi vedevo agire. Avevo dei pensieri, e li
vedevo su di uno schermo. E come in un sogno, le mie reazioni emotive
erano inesistenti o inadeguate”. Nel movimento corale una domanda
rimane sospesa nell’aria, proprio come la mongolfiera: “Verso che
cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in
fondo”. Nell’incipit, Ian McEwan sfoggia uno dei suoi migliori
esercizi di stile e costruisce il momento con precisione geometrica,
rivisitandolo da più angolazioni e senza trascurare il minimo
dettaglio, sapendo che “viviamo avvolti dentro una nebbia
percettiva in parte condivisa, ma inaffidabile, e i nostri dati
sensoriali ci arrivano distorti dal prisma di desideri e convinzioni
che alterano persino i ricordi”. E’ in uno di quei particolari
che, affiorando nitidi, scatenano il motivo di fondo che anima
L’amore fatale: Joe Rose si ritrova ad essere l’oggetto
del desiderio di Jed Parry, un allucinato di primissima categoria, la
cui mente è offuscata una patologia erotica che associa religione e
amore. Ne segue una vera e propria persecuzione che mette in dubbio
la vita stessa di Joe Rose (giornalista scientifico con non poche
contraddizioni nascoste) e della compagna, Clarissa, fino al convulso
finale, non privo di colpi scena (appendici comprese). Qualcuno ha
voluto vedere in L’amore fatale una testimonianza delle
nevrosi spirituali moderne, a partire dalla new age, ma niente di
tutto ciò ha una ragione d’essere perché l’acqua in cui
galleggia Ian McEwan è quella delle nostre ossessioni quotidiane,
delle paure e delle idiosincrasie di tutti i giorni, che in sintesi
sono riassunte così: “L’oggettività spietata, specie riguardo a
noi stessi, è sempre stata una strategia sociale funesta.
Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per
convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se
stessi. Nel corso delle generazioni, il successo ci ha selezionato
lasciandoci inciso nei geni, però, il solco profondo del nostro
peggiore difetto: se qualcosa non risponde ai nostri difetti siamo
portati a negarne l’esistenza. Credere coincide col vedere”. Ian
McEwan legge L’amore fatale, più che scriverlo, lo dipana
con grande maestria, come se il romanzo fosse già esistito in
origine, non frutto di un’elaborazione. L’unico calcolo di Ian
McEwan riguarda la prospettiva, il punto di vista, come se il lettore
dovesse vedere più che leggere, di conseguenza è consentita una
partecipazione a distanza, anche se Ian McEwan non trascura nulla e
non lascia niente al caso. Per certi versi, L’amore fatale è
opposto e strettamente complementare a L’informazione di
Martin Amis: entrambi colgono, da prospettive differenti, alcune
delle inquietudini più significative dei nostri tempi, con uno stile
letterario destinato ad assumersi, come scriverebbe John Keats,
un’ombra di grandezza. L’autore dell’Hyperion non è
estraneo a L’amore fatale perché oltre ad essere al centro
degli studi di Clarissa (professione: docente universitario) viene
regolarmente citato nei tratti salienti del romanzo, come se fosse
una chiave di volta per l’interpretazione delle intuizioni di Ian
McEwan. Un verso dell’Hyperion stesso sembra dare
un’indicazione molto interessante in merito: “Il poeta e il
sognatore sono distinti, diversi, meri opposti, antipodi. L’uno
riversa un balsamo sul mondo, l’altro lo inquieta”. A Ian McEwan,
quale che sia la categoria di appartenenza, per inquietare il mondo
basta osservarlo e descriverlo minuziosamente, con precisione
matematica, con uno stile che ha pochi eguali tra i suoi
contemporanei e con quelle intuizioni pazzesche che rendono grande e
unico un libro come L’amore fatale.
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