venerdì 20 dicembre 2019

Chris Salewicz

Uno degli aspetti più curiosi che lo scrupoloso lavoro di Chris Salewicz fa emergere non riguarda né i Clash, né il rock’n’roll, ma la maratona di Londra. Scoprire Joe Strummer tra gli appassionati podisti può essere anche una sorpresa, non di certo la sua attitudine. Alla banale domanda di come si fosse preparato per l’occasione, Joe Strummer rispose: “Io non mi alleno, cazzo. Mai. Sono andato lì e l’ho corsa”. Una filosofia valida per un’intera vita e maturata lungo una formazione cosmopolita e caotica, che Chris Salewicz ricostruisce risalendo lungo le radici famigliari scozzesi fino ai repentini traslochi tra Turchia, Egitto, Messico e Germania fino al definitivo approdo a Londra, l’epicentro di tutto il suo personale terremoto esistenziale. Avvolta in un’atmosfera ballardiana, Londra diventa il palcoscenico ideale per Joe Strummer: le strade, i pub, gli squat, le band sono parte di un ecosistema dove “non c’è molto da fare a parte il rock’n’roll, uscire qualche volta a sbronzarsi e scrivere tutta la notte”. All’epoca si faceva chiamare Woody Mellor, una definizione anagrafica che provava a riunire una delle principali fonti d’ispirazione (non solo musicale), ovvero Woody Guthrie e una buona metà dell’identità burocratica, destinata ben presto a sparire. Tutti dettagli riportati con estrema puntualità da Chris Salewicz che inquadra con precisione l’incontro con il glorioso 1977. Joe Strummer aveva già sviluppato gli anticorpi personali all’omologazione diffusa (“La vita in fondo non è altro che prendere decisioni avventate”), ma in quella furibonda stagione ebbe modo di riconoscersi e ritrovarsi, avendo capito in fretta che la componente più importante del punk era (e resta) “arrangiati, cazzo, e non aspettarti un accidente da nessuno”. Quella che poteva essere kryptonite nelle frustrazioni e nella solitudine, divenne benzina per le molotov dei Clash. Non c’è stata un’altra rock’n’roll band come loro ed è fin troppo facile identificarli con Joe Strummer, ma Chris Salewicz conosce troppo bene la storia e gli è stato così vicino da non lasciarsi ingannare dalle turbolenze che li hanno distinti, raccontando invece quella straordinaria progressione che li portò a London Calling e a Sandinista!. Siamo nel cuore di Redemption Song, come è inevitabile, ma tocca al fotografo Bob Gruen riassumere l’epopea dei Clash City Rockers: “Non erano il solito gruppo, non solo ti divertivi con loro ma ti facevano anche pensare ai problemi reali della gente. La situazione era seria e c’era di che incazzarsi, ma c’era anche di che divertirsi. La musica fu così potente che sembrò una battaglia, uno scontro. Le luci balenavano come fossero esplosioni”. La fine dei Clash, paradossalmente, alimenta la biografia di Joe Strummer seguendolo passo per passo in quell’odissea che l’ha portato dentro il cinema con la complicità di Alex Cox e Aki Kaurismäki e poi l’ha spinto di nuovo sul palco con la folle accolita dei Pogues. È nelle pieghe di questi vagabondaggi che ha maturato la convinzione che ormai “non c’è più il rock’n’roll. È solo tappezzeria. È arrivato il momento in cui devi cercare le cose, come succedeva ai tempi dei beatnik quando era difficile trovare qualcosa di interessante ma per questo se scovavi qualcosa era ancora più prezioso”. Aveva ritrovato il suo Afro Cuban Be-Bop e un nuovo modo di affrontare le canzoni, firmando un emendamento che andrebbe insegnato a memoria a tutti gli aspiranti songwriter e/o scrittori: “Fai l’editing nella testa prima scrivere”. Si era rimesso alla testa di una rock’n’roll band, con la stessa voglia di prendere a calci muri e porte, ma la sua ballata si scontrava senza sosta con quell’antipatico inconveniente che è la realtà. Sembrava quasi una premonizione quando diceva: “Meglio se vado, se questo fosse un mondo perfetto rimarrei. Ma questo mondo non è perfetto”. No, non lo è, ma Redemption Song ci restituisce il giusto profilo di un sognatore che prendeva a pugni il cielo, un profeta che aveva capito tutto, e che continua a spiegarcelo in quelle canzoni cantate come se fosse una questione di gloria o morte.

mercoledì 18 dicembre 2019

Chico Buarque

C’è una piccola, bellissima frase di Chico Buarque che illumina la strada per entrare nel mondo di Budapest: “Dovrebbe essere proibito prendere in giro chi si avventura in una lingua straniera”. È quello che succede a José Costa, uno scrittore per conto terzi che, nella tappa di un viaggio europeo, si vede bloccato davanti ad una televisione che parla solo ungherese. Alla prima, superficiale sensazione di disorientamento, subentra ben presto la sorpresa di trovarsi di fronte a un’occasione unica, perché “forse era possibile sostituire nella testa una lingua con un’altra, a poco a poco, scartando una parola per ogni parola acquisita. Per un certo tempo la mia testa sarebbe stata come una specie di casa in restauro, con le parole nuove che entravano da un orecchio e i calcinacci che uscivano dall’altro”. Un’epifania che provoca un corto circuito che, come ha ben capito Caetano Veloso è “un labirinto di specchi”. Tutto è riflesso ed è doppio: le sue lingue, le donne (Vanda e Kriska) e le città di José Costa, Budapest (che a sua volta è divisa a metà) e Rio dove, una volta tornato, scopre di essere ancora prigioniero del miraggio ungherese: “Mi inventavo parole strampalate, frasi pronunciate al contrario, un vaffanculo buttato lì, ma a malapena aprivo bocca e nel pubblico c’era sempre qualche esibizionista che mi anticipava. Era una noia, era molto triste, potevo tirarmi giù i pantaloni nel centro della città e nessuno si sarebbe meravigliato. Per fortuna mi restavano i sogni, e nei sogni mi trovavo sempre su un ponte del Danubio, in un’ora morta, fissando le sue acque del colore del piombo”. Anche la sua scrittura diventa double face tanto che, ad un certo punto, di divide e si moltiplica persino  tra prosa e poesia. Quest’ultimo passaggio è una sorpresa perché José Costa non è mai stato un poeta, e scoprirlo attraverso un'altra lingua (l’ungherese, appunto) gli aprirà orizzonti inaspettati perché, come dice il protagonista di Budapest, “le frasi erano mie, ma non erano frasi. Le parole erano mie, ma avevano un altro peso. Scrivevo come se stessi camminando per casa mia, però sott’acqua”. Rivelatosi emigrante tra le parole, José Costa proverà a sentirsi straniero persino a casa sua, non appena sbarcato a Rio e resterà in cerca di un’identità, sospeso tra il ghostwriter brasiliano e il poeta ungherese, ma con una maggiore consapevolezza rispetto al destino della propria voce, avendo imparato che “per certi migranti l’accento può rappresentare una rivalsa, un modo di maltrattare la lingua che li opprime. Della lingua che non stima, l’emigrante maschererà le parole sufficienti al suo lavoro e al quotidiano, sempre le stesse parole, non una di più. E un giorno alla fine della vita dovrà dimenticare queste, per tornare al vocabolario dell’infanzia. Così come ci si dimentica il nome di persone vicine, quando la memoria comincia a fare acqua, come una piscina a poco a poco si svuota, come ci si dimentica del giorno prima e si trattengono i ricordi più profondi. Ma per chi ha adottato una nuova lingua, come una madre che si fosse scelta, per chi ne ha amato e cercato ogni parola, il persistere dell’accento era un castigo giusto”. Un tema affascinante e molto profondo che Chico Buarque sviluppa con una leggerezza e una passione degne di Calvino, ma anche con un ritmo e un savoir faire tutti musicali. Del resto, come José Costa è sospeso tra due lingue, lui è perennemente sospeso tra la musica e la scrittura e, Budapest ne è la dimostrazione, un equilibrio si può trovare.

martedì 17 dicembre 2019

John Berger

Nella sua articolazione dei Modi di vedere è più che sufficiente a rivelare la generosità con cui John Berger ha affronta la pittura, la musica, l’arte di scrivere e di viaggiare e (non ultimo) l’impegno politico. L’assemblaggio, curato da Maria Nadotti, comprende interviste, reportage, commenti di Geoff Dyer e Jean Mohr, una lettera aperta sulle carceri al sindaco di Lione, un ritratto di Nazim Hikmet e la ricostruzione della collaborazione cinematografica con Alain Tanner, il diario di viaggio a Ramallah e visioni di Tiziano e Caravaggio. L’approccio alla scrittura e all’immagine determina la coerenza che unisce esperienze così diverse e questo perché secondo John Berger “l’arte è molto esclusiva. Ci sono cose che la gente dimentica. Per la verità l’intera storia dell’arte è storia della lotta per portare nuove esperienze dentro l’arte. Scegliere di scrivere di un soggetto può dunque essere una specie di impegno, di dovere che ci si assume, magari penosamente e con difficoltà, e che non è detto trovi immediatamente la propria forma o, appunto, la voce giusta”. Questo è un cardine su cui ruotano tutti i Modi di vedere che, in verità, si dipanano come modi di raccontare, dato che “il problema vero, infatti, sono le voci: come trovare le voci necessarie a raccontare la storia che deve e vuole essere narrata”. Nel dialogo ininterrotto con  Maria Nadotti, John Berger offre più di un’indicazione per affrontare in modo non convenzionale un’idea di narrativa, partendo dalle motivazioni fondamentali: “La ragione per cui i romanzi sono importanti è che essi pongono interrogativi che nessun’altra forma letteraria può porre: interrogativi sull’operato dei singoli rispetto al proprio destino; interrogativi sull’uso che si può fare della vita, inclusa la propria. E i romanzi pongono questi interrogativi in maniera molto privata. La voce del romanziere agisce come una voce interiore”. Una precisazione che mantiene intatta la sua urgenza perché secondo John Berger “chi scrive romanzi si occupa dell’interazione tra destino individuale e destino storico”. Il contrasto con le forme edulcorate della letteratura attuale è evidente nei limiti delle impostazioni e degli standard più o meno comuni, da cui John Berger si è sempre svincolato e a cui non manca di riservare una critica profonda: “Il problema però non sta nel fatto che chi legge possa riconoscersi o meno nella storia. È piuttosto che la gran parte di ciò che si narra oggi, nei libri, in televisione, al cinema, ha talmente a che fare con questioni di stile (stili di vita, di linguaggio, d’abbigliamento, d’identità) che il clima culturale si è fatto enfaticamente élitario. E così succede che quando compare una storia che, invece di parlare di stile, affronta i processi vitali sepolti in profondità dietro la forma, le ci vuole tempo per essere riconosciuta”. Non è una distinzione relativa: nei Modi di vedere di John Berger c’è una costante preoccupazione per le dimensioni sociali e politiche che devono affrontare le singole storie, ben sapendo che “nessuno, in questo secolo che la rapacità di un’economia basata sempre più sul profitto di pochi e la spendibilità di molti ha trasformato in un tempo di perdita e di amnesia, sa più qual è il proprio luogo di appartenenza e di identità. Né la nuova dimensione planetaria degli scambi e dei transiti ha abbattuto le frontiere che separano e oppongono. L’esito è di pura dispersione, disorientamento, eliminazione dei saperi, arrogante imposizione di modelli massificati e sempre più alienati”. Una volta di più, Modi di vedere è valido come sintesi e introduzione al mondo di John Berger che, in sé, rivela piuttosto un modo di pensare.

martedì 5 novembre 2019

Simon Blackburn

Partendo da una riflessione stimolata dallo slogan pubblicitario “perché tu vali” (un messaggio molto subdolo), Simon Blackburn esplora, nelle intenzioni ufficiali, “pregi e difetti del narcisismo”, per poi lasciarsi trasportare dalla curiosità e dall’istinto verso considerazioni che vanno ben oltre la specificità introdotta da titolo e sottotitolo. In effetti, il riflesso dello specchio è un simpatico inganno che, allineando “orgoglio, autostima, vanità, arroganza, vergogna, umiltà, imbarazzo, risentimento e indignazione”, riesce a far convivere un’erudita dissertazione filosofica con un’ormai doverosa critica sociale. La vanità è un complemento non indifferente degli strumenti di controllo, ma questo l’aveva già notato Noam Chomsky in Linguaggio e libertà quando scriveva che “uno degli strumenti adatti a questo scopo è la creazione di una sorta di star system, una parata di personaggi che spesso sono tali solo perché creati dai mezzi di comunicazione di massa o dalla propaganda del mondo accademico, personaggi di cui dovremmo ammirare la profondità di pensiero e ai quali dovremmo in tutta serenità concedere il diritto di dirigere la nostra vita e i nostri affari internazionali. In realtà, il potere è fortemente concentrato nelle mani di piccoli gruppi che si intersecano a vicenda e sono basati, in larga misura, sulla proprietà delle grandi imprese private, nonché sui gruppi elitari a esse collegati che guidano la vita intellettuale, la politica e l’amministrazione”. È qui che Specchio delle mie brame si rivela con toni perentori dato che “l’avidità, come abbiamo visto, è il desiderio smodato dell’invidia altrui, o il desiderio che altri si considerino inferiori a noi”. Un secolo di guasti sono lì a dimostrarlo e Simon Blackburn è convinto che “Thatcher, Reagan e Milton Friedman hanno prevalso e il loro dominio assoluto sullo spirito del tempi continua, a dispetto dei visibili danni ai loro popoli”. Cosa significa, lo spiega in termini talmente elementari e chiari da risultare persino brillante: “Un uomo (di solito sono uomini) nel consiglio di amministrazione di una banca può convincersi che ci voglia una genialità per offrire un tasso di interesse dell’1 per cento a chi presta denaro all’istituto (i clienti), prestandolo invece con un tasso del 16,5 per ceto a chi chiede un mutuo e intascando quindi la differenza”. C’è voluto un filosofo per dirlo e per farci notare, di conseguenza, che per quanto ambiziosi e pretenziosi restiamo “i goffi e corporei animali, non gli immateriali controllori che stanno all’ultimo piano”. L’allarme rosso è implicito e nel contemplare integrità (“Il senso del proprio valore è una posizione o disposizione morale”) e autenticità (“L’autenticità, tuttavia, non è semplicemente la corrispondenza tra pensiero interiore ed espressione esteriore, anche se la implica. Essa richiede in più il conseguimento di un risultato interiore, la profonda conoscenza o consapevolezza di sé, unita alla determinazione a esprimere tale sé in scelte, azioni, inclinazioni o sentimenti”) il punto di vista Simon Blackburn segue l’effetto singolare dello specchio, con eccentrici collegamenti tra la vita segreta di Walter Mitty (un film che, grazie alla sua leggerezza, merita di essere visto e rivisto) e padri del pensiero filosofico perché “l’irrequietudine del desiderio” con ogni probabilità si può seguire soltanto così, poi ci si può soltanto rimettere a Kant: “Due cose riempiono la mente di ammirazione e stupore sempre nuovi e crescenti, quanto più spesso e approfonditamente ci pensiamo: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Non mi limito a congetturarli e a cercarli come se fossero nascosti nelle tenebre o nella ragione trascendente al di là del mio orizzonte; li vedo di fronte a me e li associo direttamente alla coscienza della mia esistenza”. Il tema, come non potrebbe essere diversamente, è l’identità, “la mappa che guida il nostro viaggio: anche per sapere dove siamo, per poterci orientare, è necessario sapere chi siamo”, e il suo propagarsi verso il prossimo, dove “abbiamo abitudini di comportamento e richieste verso gli altri e aspettative su di loro, esattamente come loro ne hanno su di noi. Tutte queste cose costituiscono il nostro mondo sociale e morale”. Bisogna districarsi nel forbitissimo slalom di Simon Blackburn per provare che “la vita è un processo, non un prodotto”, e che, come aggiungerebbe l’ineffabile Walter Mitty, “non devi per forza fare lo stronzo”. Ci vuole un po’ per capirlo, ma deve essere proprio così.

domenica 20 ottobre 2019

Brian Hinton

Tra le personalità più affascinanti e spigolose del ventesimo secolo, Joni Mitchell non è mai stata facile da avvicinare. La rarefatta bellezza delle sue composizioni, l’intensa realtà dei legami e delle separazioni raccontata con parole raffinate e spontanee, le coraggiose svolte alla ricerca di qualcosa di nuovo, le collaborazioni con artisti altrettanto folli e geniali (David Crosby, Jaco Pastorius, Charles Mingus), i ripetuti scontri con la vacuità e l’ipocrisia dell’industria discografica hanno segnato una vita intensa che Brian Hinton ricostruisce attingendo a piene mani da fonti secondarie. Dall’infanzia nelle praterie canadesi alla scoperta della California, la nota acidula del racconto di Brian Hinton e la sua propensione a giudizi molto tranchant non toglie nulla alla grandezza di Joni Mitchell che, tra le righe, sembra avvisare del pericolo di affrontarla, perché “certe persone diventano nervose quando sentono parlare di arte. Pensano che sia una parola pretenziosa. Per me, le parole sono soltanto simboli, e la parola arte non ha mai perso la sua vitalità”. Non di meno, nelle sue dichiarazioni, rastrellate da Brian Hinton un po’ qui e un po’ là, emerge la figura di un’artista sincera fino al midollo, capace di confessare i propri limiti, senza esitazioni: “Io sono soprattutto una pittrice. Penso alla musica in termini di pittura e forma. Se aggiungo qualcuno come un colore che addolcisca il tutto, voglio che suoni qualcosa in più delle note. Voglio che suoni qualcosa figurativamente. Faccio fatica a leggere la musica, non ho un linguaggio da musicista, ho soltanto il linguaggio della metafora”. Seguendo l’istinto, Joni Mitchell ha raccontato Woodstock senza esserci stata, ha seguito le turbolenze della Rolling Thunder Revue, ha incantato aprendo il diario delle sue ferite in Blue (“Il dolore ha molto poco a che fare con l’ambiente. Puoi essere nel più bel posto del mondo e non riuscire a vedere niente per il dolore. Nella mia vita ho affrontato molti miei demoni. Un sacco erano davvero stupidi, ma per me erano estremamente reali. Non mi sento colpevole per il mio successo o il mio stile di vita”) e dei suoi viaggi in Heijra, ha suonato con jazzisti e con batterie elettroniche, con il sottofondo del frinire dei grilli o con il background di un’orchestra, sfidando di volta in volta regole e luoghi comuni, limiti e imposizioni. Inevitabile, nel corso del tempo, l’emergere di legittime rivendicazioni, che Brian Hinton non manca di riportare, anche se alla fine Joni Mitchell rimane consapevole (più di molti altri suoi colleghi) dell’ineluttabile provvisorietà dell’esperienza artistica: “Spesso mi sento come se mi fossi prosciugata, e invece improvvisamente le cose escono fuori. Ho paura di diventare una fabbricante di motivetti di successo, di scrivere soltanto canzoni, non poesia. Il processo creativo è un mistero. Rivolgi una domanda alle muse, e forse ti risponderanno qualcosa”. Cambiano gli anni e, se non sono più sufficienti “l’artificio, la brutalità e l’innocenza”, come spiegava a Bill Flananan in Scritto nell’anima, lo sguardo di Joni Mitchell resta ancora limpido, anche quando si tratta di notare le cupe svolte del destino nell’amatissimo West: “Non sono io che sono diventata pessimista, sono i tempi che sono diventati più difficili, io sono soltanto un testimone. Los Angeles è al centro del cambiamento. Adesso è una città pericolosa in cui vivere. In California, quando scrivevo le mie prime canzoni, c’era un clima del tutto diverso, la gente guidava in modo educato, la sera non si chiudevano a chiave le porte. Se tu mettevi la freccia a sinistra, la gente diceva: ma prego, vada pure. Adesso è una città dove guidano come pazzi. Se metti la freccia, credono che tu voglia superarli, e nessuno a Los Angeles si fa superare, da nessuno”. Un riassunto efficace, degno del suo segno zodiacale, che Joni Mitchell declina così: “Io sono Scorpione ascendente Scorpione e questo mi rende un po’ pungente”. Unica, e inimitabile.

venerdì 20 settembre 2019

Tomás Eloy Martínez

La premessa che Tomás Eloy Martínez nasconde  nelle viscere del Purgatorio è che “la realtà è una creazione dei sensi, cosa che gli uomini sanno da secoli ma dimenticano sempre”. Un dato di fatto che avvolge e travolge i narratori, i personaggi e i lettori, tutti in salamoia dentro un mondo d’ombre: doppio, sfocato, sfuggente. Nell’Argentina del 1976, Emilia e Simón si amano e tracciano mappe. Lei è figlia di un influente intellettuale conservatore e reazionario, opportunista sostenitore e consigliere della giunta militare. Lui ha il coraggio, nel corso di una cena ufficiale, di ricordare che nel paese le persone scompaiono senza motivo. Poco dopo, viene catturato e ucciso. La scomparsa di Simón, come quella di migliaia di desaparecidos, è solo una goccia nel mare delle mistificazioni della dittatura, quando la gente “si lasciava anestetizzare dalla volgarità per dimenticare la morte che era ovunque”. Puntualizzazione precisissima che Tomás Eloy Martínez amplia elencando le telenovelas, i mondiali di calcio e altre amenità che rendevano tutto “uguale e diverso allo stesso tempo, come se gli eventi tornassero sui propri passi per accadere di nuovo”. Uno scenario che nemmeno Orson Welles (memorabile la sua apparizione) sarebbe riuscito a immaginare. Nei continui dualismi di Purgatorio, la storia, fitta e densa, si specchia e si riflette, nei tempi e nei personaggi, nella realtà storica e nel romanzo. Incede con costanza, senza sbalzi, legando il lettore alle pagine forse proprio perché “i romanzi si scrivono per questo: per rimediare all’assenza perpetua di quello che non è mai esistito”. È Emilia, la forza centrifuga che fa ruotare tutto il Purgatorio: per quando consapevole che “arriva il momento in cui ti rassegni a perdere per sempre quello che hai già perduto. Senti che ti sfugge di mano, che sta uscendo dalla tua vita e che niente è come prima”, non si arrende e celebra senza soluzione di continuità il ricordo di Simón e la speranza che possa tornare, anche davanti all’evidenza (atroce) delle testimonianze e dei verbali. L’assunto ha un fondamento solidissimo, visto che Parmenide, un nome che ricorre spesso in Purgatorio, ricordava “come di volta in volta è il materiale temperamento delle molto flessibili membra, così si presenta agli uomini il pensiero. Poiché identico, in tutti e ciascuno, è ciò che pensa negli uomini: la natura delle membra. È infatti, in prevalenza, pensiero”. Il fantasma di Simón resta perché “la vera identità delle persone sono i ricordi” ed Emilia li coltiva con maniacale puntualità, toccando tutte le sfere della personalità, dal sesso al cibo, dalle abitudini al tono della voce. Emilia sa che “dall’esilio nessuno ritorna” e ricalca la sua condizione su quella di Simón, ormai a distanza di sicurezza, mentre tutte le illusioni argentine si sgretolano, rivelando l’inferno, dietro il Purgatorio. La simmetria di una vita parallela, fondata su “niente di visibile”, si sviluppa per gradi: con la colonna sonora eterea del Köln Concert di Keith Jarrett in sottofondo e sapendo che “il tempo è come l’acqua: quando si ritira in un punto, avanza in un altro”, Emilia insegue lungo tutta l’America, ricostruisce e custodisce inalterata la silhouette di Simón. Raccontata da Tomás Eloy Martínez con un stile arguto e lirico, capace di proiettare una realtà labirintica su un’infinità di piccoli gesti quotidiani, quello che emoziona in Purgatorio è un’ estrema prova d’amore che supera, pur non dimenticandoli, gli efferati spettri che popolano le notti di Buenos Aires, nonché le dimensioni conosciute dalla fisica, che sono pur sempre limitate.

giovedì 12 settembre 2019

Walter Benjamin

I radiodrammi di Walter Benjamin (ne scrisse un’ottantina) costituiscono un prezioso documento riguardo al mezzo e anche al messaggio. Sullo strumento in sé, le precisazioni partono da lontano, ovvero dalla certezza che “nessuna autentica istituzione culturale ha mai preteso di prescindere dalla competenza del proprio pubblico, generata grazie ai propri aspetti tecnici e formali”. La particolare fluidità dei meccanismi radiofonici inducono Walter Benjamin a sottolinearne alcuni aspetti stringenti sulle possibilità della radio. Sarebbe sufficiente che “si rendesse conto di quanto sia improbabile tutto quello che le viene presentato ogni giorno, che considerasse quante sono le cose che non vanno, a iniziare da un tipologia ridicola degli oratori, per migliorare non soltanto il livello della programmazione, ma anche e soprattutto per formare un pubblico realmente preparato e competente”. Questo legittimo desiderio deve fare i conti con l’effimero circolo della comunicazione, in cui manca il tempo di cogliere un significato, un senso, un’idea. È quella che Walter Benjamin chiama la “tirannia dell’attimo”, poi spiegata puntualmente ancora in Il narratore: “L’informazione ha la pretesa di poter essere controllata immediatamente. Dove anzitutto essa vuol essere intelligibile di per sé e alla portata di tutti. Essa spesso non è più esatta di quanto lo fossero le notizie dei secoli passati. Ma mentre esse attingevano volentieri al meraviglioso, è indispensabile, per l’informazione, apparire plausibile. E in questo si rivela inconciliabile allo spirito del racconto. Se l’arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione. È, infatti, già la metà dell’arte di narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni”. D’altra parte “una conversazione tra spiriti così strana” offre opportunità singolari ben rappresentate dai due radiodrammi qui selezionati per l’occasione. In Che cosa leggevano i tedeschi mentre i loro autori classici scrivevano, Walter Benjamin manda in onda un convivio che disquisisce sui due secoli dei principali movimenti filosofici e letterari europei con arguzia e ironia, toccando tutti gli aspetti, compreso il ruolo dell’editoria nello sviluppare e formare un pubblico. Un legame ricorrente nel pensiero di Walter Benjamin che uno dei protagonisti del radiodramma, lo scrittore Karl Philipp Moritz condensa così, con una punta di amarezza, ma anche con la necessaria puntualità: “Oramai abbiamo perso su tutti i fronti: il pubblico elevato si dedica alle facezie, ai versi dell’amore, ai romanzi sdolcinati, mentre la gente comune, sempre che legga, cade vittima del venditore ambulante di turno che le rifila storie a puntate di briganti e fantasmi”. Più prosaico, ma non meno avvincente il tema di Un aumento di stipendio? Ma che vi viene in mente? Dove una spicciola trattativa salariale diventa quasi un dialogo socratico, con tanto di commentatori allibiti, compreso uno “scettico” particolarmente dubbioso. Un frammento geniale che conferma quello che Walter Benjamin scriveva in Il narratore: “Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore”. Dovrebbe essere naturale, ma è giusto ricordarlo perché con la particolare evanescenza dei mezzi a disposizione, dalla radio in poi, non sempre è così ovvio.

mercoledì 4 settembre 2019

Peter Shapiro

New York, primi anni Settanta: la città è a un passo dalla bancarotta, le istituzioni brancolano nel buio e nella propria autoreferenzialità, interi quartieri sono off limits, le strade sono una jungleland senza speranza. Però, come sempre succede quando qualcosa marcisce, nelle pieghe torbide della metropoli stavano fermentando forme di vita inedite o, meglio, come scrive Peter Shapiro nell’introduzione di questa Biografia politica della discomusic, “mentre la carcassa delle infrastrutture cittadine si decomponeva, gli artisti e i musicisti di New York diedero il via a una fioritura di attività creative allo scopo di riappropriarsi della città”. Da una parte, intorno al Lower East Side, si rintanarono in buchi malconci e dai nomi altisonanti come Mercer Street Art Center o Max’s Kansas City o, l’epicentro di tutto, al CBGB’s. Ne uscì una versione del rock’n’roll aspra, grezza, poetica e bruciante: Ramones, Suicide, Television, Talking Heads, Patti Smith. In un’altra direzione, nelle feste all’aperto nel Bronx, cominciava a circolare una colorita sintesi musicale, radicata nel rhythm and blues e nel soul, dal nome discomusic. È in quel momento che “i corpi, le droghe, il sudore, il crescendo e il palpito della musica, tutto cospirava a creare una febbricitante immediatezza, e la sensazione che niente esistesse al di fuori del locale. Nessun passato, nessun futuro, niente promesse, rimpianti, solo l’attimo”. Le sue origini hanno radici profonde nella cultura afroamericana e visto come “negli ultimi vent’anni, o giù di lì, l'America sia diventata molto più stratificata” (l’annotazione è di Daniel Wang e spicca nell'epilogo), diventa ben presto logico e naturale che attorno, dentro e parallelamente alla storia della discomusic scorra una sorta di rivisitazione storica e culturale dell’humus in cui è fermentata e si è sintetizzata. Lontano anni luce dai lustrini e dai colori sfavillanti delle discoteche, You Should Be Dancing approfondisce una storia complessa e affascinante che va ben oltre l’aspetto musicale della discomusic (comunque sviscerato fin dalle origini) e arriva ad affrontare temi piuttosto ingombranti, le libertà individuali e i diritti civili (ma anche la vita metropolitana e le speculazioni edilizie) e comunque necessari. L’equilibrio con cui Peter Shapiro riesce a raccontare, in modo rigorosamente biunivoco, un fenomeno musicale attraverso le trasformazioni sociali e molte, civilissime rivendicazioni nello svolgersi delle canzoni, fa di You Should Be Dancing un libro che va ben oltre la propria specificità. A questo scopo è destinato anche l’importante apparato in appendice che oltre a note e indice dei nomi, prevede un’agile discografia (con tutti i singoli e gli album citati citati), una bibliografia molto dettagliata e a una cronologia che racconta, con brevi e illuminanti flash, sessant’anni di danze proibite: dalle feste clandestine nella Germania nazista del 1939 fino al 1999 quando la discomusic è entrata definitivamente nelle istituzioni americane in forma di francobollo.

martedì 3 settembre 2019

Alejandro Jodorowsky

“È tutto nella domanda” ha detto Alejandro Jodorowsky spiegando come funziona una delle (tante) arti a cui si è dedicato, i tarocchi. Un modo come un altro per spiegare che la vita è tutta una magia e l’arte, in tutte le sue forme, è rimasta l’unico modo per comprenderla. Forse ha ragione Alejandro Jodorowsky quando dice che “le definizioni sono soltanto approssimazioni”, ma nel rapporto tra vita e arte c’è tutta la sua storia che La danza della realtà racconta come se fosse un romanzo d’avventura. Comincia con un’infanzia durissima, passa attraverso il piccolo sipario dei burattini e delle marionette per approdare al palcoscenico del teatro (“Il teatro è una forza magica, un'esperienza personale non trasmissibile. Appartiene a tutti. Basta che ti decida ad agire in un modo diverso da quello di ogni giorno perché questa forza trasformi la tua vita”). È il primo passaggio, fondamentale verso una visione caleidoscopica della comunicazione e dell'espressione che porterà Alejandro Jodorowsky a scrivere sceneggiature per celebri disegnatori (Moebius su tutti), a farsi finanziare film e happening da John Lennon, a scoprire la Parigi surrealista e la poesia d’azione di Filippo Tommaso Marinetti. Una vita costantemente sospesa tra il sogno e, come dice giustamente il titolo, La danza della realtà che alla fine ha portato Alejandro Jodorowsky a confrontarsi con la magia, i tarocchi, lo sciamanesimo e tutte quelle energie invisibili che sovrastano la nostra quotidianità. L’identificazione di quelle forze è il nucleo centrale attorno a cui ruota tutta La danza della realtà e che Jodorowsky sintetizza così: “I miracoli sono paragonabili alle pietre: si trovano ovunque e offrono la loro bellezza, ma nessuno ne riconosce il valore. Viviamo in una realtà dove abbondano i prodigi, ma li vedono soltanto coloro che hanno sviluppato le proprie percezioni. Senza tale sensibilità tutto è banale, l'evento meraviglioso viene chiamato casualità e si cammina per il mondo senza avere in tasca quella chiave che si chiama gratitudine. Quando si verifica un fatto straordinario lo consideriamo un fenomeno naturale di cui approfittare come parassiti, senza dare niente in cambio. Invece il miracolo richiede uno scambio: ciò che mi è stato dato devo farlo fruttificare per gli altri. Se non viviamo uniti agli altri non possiamo captare il portento. I miracoli non li provoca nessuno”. Buona parte della sua autobiografia è dedicata proprio all’aspetto esoterico con la differenza che Alejandro Jodorowsky è distante anni luce dalle vacuità della new age e da certo spiritismo di seconda categoria. La sua è arte che diventa magia, e viceversa. Più di tutto è un metodo, non una stregoneria, la cui evoluzione comincia dalla conoscenza e dall’ignoranza: “Ogni volta che tentavo di soddisfare le mie passioni dimenticavo che stavo sognando. Alla fine ho capito che, nella vita, come nel sogno, per rimanere lucidi occorre prendere le distanze, tenere sotto controllo il processo di identificazione”. Ecco a cosa servono le domande, i miracoli, le magie: a capire perché “non si può guarire nessuno, si può soltanto insegnare a guarirsi da soli”. Un segreto antico che Alejandro Jodorowsky ha scoperto con l’avventura di una vita intera.

domenica 25 agosto 2019

Adonis

Adonis è un poeta immaginifico e cosmopolita che parte e parla con le parole sapendo che “le parole dimenticano le parole, è raro che le parole sappiano parlare”. È un architetto capace di vedere una forma nei versi, un cantante che sa intonare una canzone e tradurla in immagini, un viaggiatore che dentro la bellezza e la crudeltà del tempo che scorre sa che “la poesia ha veramente un proprio tempo all’interno del tempo, si rinnova in continuazione come la fenice che rinasce dalle sue ceneri. Con questa differenza: la rinascita è il rinnovamento del passato, non c’è passato in poesia, è il futuro che sempre persiste nel presente”. Prendimi, caos, nelle tue braccia attraversa tappe reali in un viaggio (“Vago nei miei passi, io assedio me stesso”) che comprende il monte Ararat, Londra, la costa orientale americana, un ricordo di Beirut (perché “la memoria è un laboratorio dove duplichiamo le nostre passioni”), Shangai e Parigi. Le tappe simboliche, dal diluvio universale alla moderna follia, sono riportate in appunti frammentari perché Adonis si interroga spesso (“Come guardare attorno a me e vedere ciò che mi vede e dire ai miei occhi di leggermi?”) e “la strada inventa la strada”. Le mete e le dimensioni delle città sono relativa come illustra lo stesso Adonis: “Non amo la città immersa nelle sue perle, amo la città mare di erranza irraggiungibile e senza fine, venti scatenati che non si sa come siano iniziati e come diverranno, o come sono giunti, amo la città tessuta dai suoi misteri, preferisco passare il tempo in compagnia della gente, procedendo come un unico fiume, ciascuno singolo e solo”. È lì che alle città e ai luoghi reali, si sovrappongono le costruzioni dell’immaginazione: “Mi sembra di frequentare ancora le città invisibili nei luoghi dell’illusione, mi sembra di appartenere ancora a una stirpe lontana, a linguaggi che improvvisano i confini. Allora, mi sembra di dover continuare a viaggiare verso altre rive come semenze che il tempo sparge e vengono raccolte dalla mano del vento”. A quel punto, ammette Adonis, “forse per meglio vivere e anche scrivere bisogna che tu inizi a combattere te stesso, a distruggere i tuoi confini”, un proposito che conduce senza esitazioni alla destinazione finale: “Costruirò un paese e darò a ogni paese il diritto di entrarci, il diritto di abitarci senza gratitudine e senza catene, l’inizio della terra è sogno”. In questa presa di coscienza prende il forma il concetto di “epoca” (“Epoca. Clinica misera, ecco il cielo arrampicarsi come edera sui suoi muri. L’indifferenza sarà forse l’alfabeto del futuro? Fiorirà la pietra? Allora apri la tua ferita verso l’alto e stenditi tra le sue braccia”) che parte dall’apocalisse per appuntarsi tutte le fratture, le violenze, le efferatezze (“Non abbiamo attorno a noi che una terra seminata di ferite, cieli lacerati, che si dilaniano l’un l’altro”), le cuciture e d’altra parte le osservazioni che delineano così la tensione di un “caos” con più volti: “Hanno ferito le ciglia dell’orizzonte e richiuso su di loro le tende”. I tratti delle concretezza (civile) si alternano a ondate regolari con l’evoluzione lirica fino a quando Adonis non si chiede se, in definitiva, “la verità della cosa non è forse nel canto che la canta?”, e la domanda in sé ritorna all’essenza di una poesia fatta di parole, che “si organizzano in fuochi, in rovine, attaccano, assediano, estirpano. Parole-spade, parole-prigioni, parole-tombe, le lettere stanno per agonizzare e l’inchiostro per trasformarsi in lacrime e sangue. Lo spazio è fustigatore”. Adonis invoca allora proprio la parola, come se “potesse singhiozzare, lacerarsi, smarrirsi, denudarsi, affamarsi, potesse marciare fino a grondare di sudore, cadere sfinita, potesse sospirare, accennare, gridare, sanguinare, se potesse aprire un cammino nel cammino”. È l’elemento, primo e ultimo di quella poesia che “accende la sua lanterna ogni giorno per leggere quel che le sue sofferenze hanno scritto per scrivere quel che le sue sofferenze hanno letto”, e Adonis ne esplora i limiti sapendo che “amiamo i riflessi nell’ombra, ci vediamo ciò che traduce i nostri fini: la vita è vana, la lingua è casa della saggezza. Ma nessuno padroneggia questa lingua”. Il bilancio, alla fine, è limpido, grazie alla lucidità di Adonis che non prende in considerazione “né perdita, né profitto, ma la saggezza di partire nell’ebrezza della visione e dello sguardo. Dove scopriamo che l’amore e la poesia sono in ciò che vediamo e in ciò che non vediamo, fraternizziamo, con il rumore del mare e il silenzio: il silenzio della terra e il silenzio della pietra”. Prendimi, caos, nelle tue braccia è qualcosa in più di un bellissimo libro di poesia: è un manuale molto preciso per un saggio uso delle parole.

giovedì 20 giugno 2019

Bram Stoker

Dracula è portato alla proliferazione spontanea (chiedete a Stephen King che ne ha tratto Le notti di Salem) in tutte le direzioni (compresa quella evoluta di Richard Matheson in Io sono leggenda) e in ogni declinazione (per non dimenticare le innumerevoli riduzioni cinematografiche), ma con I poteri delle tenebre siamo in presenza di qualcosa di originale, e (nello stesso tempo) di diverso, frutto di una straordinaria metamorfosi, come se la sua storia vivesse di vita propria e si tramandasse in forme mutevoli e mimetiche. Prendendo spunto da una versione svedese, nel 1900 Valdimar Ásmundsson traduce (o meglio, interpreta) in islandese Dracula e lo pubblica a puntate sul giornale che dirige rendendolo Makt Myrkranna ovvero I poteri delle tenebre. Per quasi un secolo nessuno ha dubitato della sua versione: solo nel 1986 affiorano le prime varianti, grazie a Richard Dalby, che poi lo studioso e appassionato Hans de Roos seguirà, scoprendo le numerose differenze con l’originale e cominciando un complesso lavoro di ricostruzione. Ne è nato un progetto collettivo che ha coinvolto Dacre Stoker, pronipote dell’autore di Dracula (che scrisse una prefazione alla traduzione islandese), John Edgar Browning che si occupa della postfazione e un team di una ventina di persone per due lingue (inglese, islandese) che si è occupato di versioni e revisioni (e all’elenco vanno aggiunti i due traduttori per l’italiano, Maura Parolini e Matteo Curtoni). Se il principio fondante è comune a entrambi i libri (come dice Harker, “ci sono cose molto peggiori nei boschi, quando è buio come adesso”) Dracula diventa quindi una saga letteraria ed editoriale (ampiamente descritta negli interventi) affascinante quanto quella dei vampiri. Le discendenze e le ascendenze di Vlad Ţepeş Dracul alias Dracula formano un trattato etnografico con i Carpazi nel centro di una cultura cosmopolita. Non è un’annotazione relativa: come scrive Claudio Magris in Danubio “tutta la storia transilvana è un intarsio complicatissimo di contrasti, incroci, scontri, alleanze e rovesciamenti d’alleanze nazionali” e sono aspetti, a partire dalle caratteristiche del luogo e del territorio, che vengono messi in rilievo nella scrupolosa rilettura di Dracula. Ma c’è di più, perché come dice ancora Claudio Magris “questo crogiolo di popoli e dissidi favoriva anche, come accade talora nei territori misti di frontiera, la consapevolezza di un’appartenenza comune, di un’identità particolare, intessuta di contrasti ma inconfondibile in questa conflittuale peculiarità, propria ad ognuna delle componenti in conflitto”. La figura di Dracula viene accentuata lungo un profilo più articolato e i “fili invisibili” che si annodano attraverso I poteri delle tenebre, portano lontano e saldano le origini mitteleuropee con le saghe nordiche. A prima vista, l’intreccio pare azzardato, eppure è molto più vitale di quanto possa apparire. Senza dimenticare le origini (irlandesi) di Bram Stoker, va ricordato che la Transilvania (come tutta l’Europa) è stata terra di passaggio e di conquista delle tribù norrene. Non a caso nella genealogia di Dracula, il suo diretto capostipite è Attila, il condottiero degli unni “giunti dall’Islanda”, ribaltando così i ruoli con il vero Vlad Ţepeş Dracul, che i barbari li combatté con gusto non meno sanguinario del suo romanzesco epigone. Il lavoro di annotazione (a piè di pagina scorre, a tutti gli effetti, un altro libro) mette in evidenza un’infinità di dettagli districandosi tra le variazioni “di tutti i mondi e gli spazi” e le sfumature “di cose vicine e lontane” (come vogliono le declinazioni islandesi). È un rebus linguistico dove l’incontro (e lo scontro) con Dracula, stando ancora alla formula islandese, “non è come giocare con gli agnelli” e le continue allusioni e i doppi sensi accentuano i tratti dei personaggi e le deviazioni dall’originale che i curatori hanno voluto segnalare passo per passo, costruendo un erudito apparato che comprende Darwin e Freud, Napoleone e Marx, i moti e le rivolte, il progresso scientifico e lo spiritismo. Un vaso di Pandora inesauribile, come se Dracula si fosse propagato per vie letterarie, piuttosto che sanguigne: per come è stato rivisto e costruito, I poteri delle tenebre non è una versione apocrifa (anzi, gode della complicità di Bram Stoker), ma piuttosto l’evoluzione della specie. È il romanzo, la sua esegesi e il suo viaggio nello spazio e nel tempo. Imperdibile.

giovedì 13 giugno 2019

Chris Salewicz

La sequenza elencata in copertina è tale che l’idea di una maledizione o di un destino già scritto è così forte da aver generato uno dei tanti luoghi comuni su cui si reggono miti e leggende del rock’n’roll. Al Club 27 sono iscritte d’ufficio quelle personalità, irruenti e geniali, che sono arrivate troppo presto alla fine dei loro giorni (compiuti i 27 anni) e, come scrive Chris Salewicz, sono rimaste “giovani per sempre”. I nomi evocano già un’infinita aneddotica e le connessioni del Club 27 vengono riportate alla luce da Chris Salewicz con un metodo molto semplice, raccontando le singole storie che, per quanto note, vengono accostate in un confronto senza aggiunte particolari, come se fossero in grado di evidenziare da sole i motivi per cui possono restare nella medesima cornice. La discriminante dell’età potrebbe non essere l’unica. Notando la frequenza delle J viene da pensare ad altre coincidenze a cui Chris Salewicz dedica il giusto (poco) tempo. È più attento a far notare quanto abbiano pesato le disfunzioni famigliari, la promiscuità, l’abuso di sostanze stupefacenti e, più di tutto, la pressione costante di un’industria cinica e ingorda che prospera sul culto della personalità, viva o morta che sia. Le singole vicende sono toccate con umanità perché affiorano (con la giusta compensazione di una certa dose di compassione) la solitudine, l’incoscienza, la disperazione che avvolge il talento geniale, la vocazione a senso unico, forse una fiducia estrema e incondizionata nell’inspirazione e nei propri mezzi. Ma spesso l’arte è un appiglio fragile nelle onde spietate di un naufragio conclamato e non è sufficiente, o almeno così si evince dall’impietosa analisi di Chris Salewicz. Ci sono misure diverse: Jim Morrison diventato il nemico pubblico numero uno, Robert Johnson inseguito dalle sue ombre e dalle sue leggende, Amy Winehouse travolta da un vortice di follia, Janis Joplin distrutta dal Southern Comfort, Kurt Cobain incastrato in un mondo troppo grande e troppo triste per lui, Jimi Hendrix in viaggio verso un altro universo. Non è il solo: ognuno di loro era in cerca di qualcosa che, sulla terra, non riusciva a trovare, ed erano tutti dolorosamente fragili. John Lennon (giusto a proposito di J e finali tragici) diceva di Brian Jones: “Soffriva davvero tanto. Però ai primi tempi era uno a posto, era giovane e bello. Purtroppo era una di quelle persone che si disintegrano davanti agli occhi”, e questo vale probabilmente per tutti gli aderenti al Club 27. D’altra parte l’ineffabile Mick Jagger lo vedeva come “un giovane estremamente spaventato” e certo il milieu dei Rolling Stones nella Swinging London non era il più salubre degli ambienti per chiunque, figurarsi per una persona un po’ disturbata. Del resto le dinamiche interne di una rock’n’roll band, spesso incomprensibili, non sono la cura migliore per certi disturbi e in questo i Nirvana o gli Stones o l’Experience non differiscono tra loro e sono amplificate dalle soprattutto le pressioni del mercato (basta pensare a Jim Morrison e ai Doors che hanno fatto di tutto e di più in pochissimi anni). Sono le circostanze incendiarie in cui ogni “enfant terrible” ha dovuto lottare per e contro la propria unicità, che Chris Salewicz identifica, più di tutti, con Jimi Hendrix che “era diverso da tutti gli altri, un rumore sontuoso che sfidava ogni concetto di musica elettrificata”. Diventa chiaro come il rock’n’roll fantascientifico di Jimi Hendrix fosse una via di fuga da un coacervo di condizioni invivibili e l’interrogativo di Mikal Gilmore a proposito di Jim Morrison vale per tutti i soci del Club 27: “La vera domanda non è tanto se possiamo trovare un qualche valore nell’arte di Jim Morrison nonostante la sua vita sprecata. Invece è: possiamo separare le due cose? E se non possiamo, che cosa possiamo ricavarne?”, e la risposta resta là, nel vento, dove nemmeno una conversazioni tra fantasmi riesce ad acciuffarla.

giovedì 6 giugno 2019

José Eduardo Agualusa

Il motivo ufficiale delle rivolte che incendiano Rio de Janeiro, a partire dalle sue favelas, è antico come l’uomo, come il mondo: la lotta per la sopravvivenza che, in un Brasile attanagliato dalle proprie contraddizioni, si tramuta in una guerra tra ricchi e poveri. Lo schema, che presuppone anche una rigorosa divisione morale, viene scardinato da José Eduardo Agualusa in Quando Zumbi prese Rio perché lascia i suoi inequivocabili personaggi liberi di attraversare le linee che dovrebbero separare e, invece, sembrano soltanto differenti percorsi di una nazione in cerca di un'identità. Non è semplice perché al crogiolo di etnie e di razze (come ha detto lo stesso autore: “Il luogo di nascita è sempre casuale. La nostra nazionalità riguarda il nostro percorso, si costruisce attraverso il nostro cammino. È la nostra lingua che ci permette di far parte di uno spazio molto più vasto. Mi rifiuto di appartenere ad un unico spazio”) e alle fratture tra le classi sociali che, insieme, compongono la miscela che accende anche la scrittura di Josè Eduardo Agualusa, si sovrappongono rivendicazioni politiche e umanissime, ma anche le ambiguità di chi per finanziare le rivolte, per comprare le armi alla rivoluzione, si dedica al narcotraffico o si allea con vecchi mercenari. Linee d’ombra che vengono attraversate spesso, e in più direzioni. I destini delle persone sono vincolati agli stessi luoghi, come se non ci fosse una via di fuga, come se i conflitti non fossero un deterrente sufficiente per schivare il pericolo, la violenza, la distruzione. Un  legame indissolubile che le rivolte alimentano e condizionano all’infinito perché, come dicono i personaggi di Quando Zumbi prese Rio, “torniamo sempre ai vecchi posti dove abbiamo amato la vita. E solo allora capiamo che non torneranno mai le cose che ci sono state care. L’amore è semplice, e il tempo divora le cose semplici”. L’ammissione è un po’ il fulcro del romanzo, dove Josè Eduardo Agualusa sa rendere perfettamente le atmosfere in cui maturano le rivolte delle favelas di Rio grazie ai suoi picareschi personaggi (che ogni lettore gradirà scoprire da sé), a una visione d’insieme cinematografica, ma anche alla capacità di rendere intellegibili gli intrighi, i doppi giochi, le ambizioni e i sotterfugi che nel suo ipotetico Brasile sono una malattia tropicale così diffusa e incurabile da essere comune a tutti. Come dice uno di loro: “Io vorrei essere semplice come le rane negli stagni”, ma, sembra di capire, nel Brasile di José Eduardo Agualusa, così come in quello reale, è solo un sogno innocente. La verità è molto più crudele e la Rio che si prende Zumbi è, come avrebbe detto Joseph Conrad, “una visione di un’enorme città. Una mostruosa città più popolosa di alcuni continenti che nella sua potenza di mano dell'uomo era quasi indifferente ai corrucci e ai sorrisi del cielo. Così grande che c’era abbastanza spazio per ogni passione, varietà per ogni scenario, e buio per seppellirvi milioni di vite”.

lunedì 29 aprile 2019

Vladimir Orlov

Secondo un arcaico conteggio, riportato dall’autorevole Harold Bloom in Visioni profetiche, sarebbero 133.306.668 gli angeli caduti. L’origine della statistica resta oscura, ma viene spontaneo conteggiare in quel censimento anche i demoni di Vladimir Orlov. Sono creature davvero bizzarre che si occupano “di cataclismi, di sentimenti”, si trasformano in tori e si sfidano a duello a colpi di missili, si abbandonano a pantagrueliche abbuffate di pesce, vodka e birra, si annoiano osservando il tempo scorrere “nella brocca di terracotta” e mutano in forme impalpabili capaci evaporare contro i muri, di infiltrarsi nell’universo remoto come nelle particelle più elementari, ma nonostante siano onniscienti, restano impacciati, caotici e, in definitiva, molto umani. Fin troppo. Tra loro, Danilov, che in effetti è un ibrido scaturito da una relazione inammissibile, è il più tormentato. Si trova in esilio a Mosca dal 1943 (per quanto anni e calendari siano del tutto relativi) dove ha assunto le sembianze di un genialoide e squattrinato musicista. Un ruolo scelto con oculato criterio: da Paganini a Robert Johnson   un patto mefistofelico pare ineluttabile, ma anche perché “la musica come ogni altra arte, così come ogni altra scienza riflette il livello di evoluzione dell’umanità, la percezione che hanno gli uomini del mondo e di se stessi. Queste percezioni, certo, si modificano, ma ora sono ingenue e infantili. Gli uomini non sanno nulla di sé e del mondo! Per renderli più facile la vita, si sono muniti di qualche convenzione”. Ha suonato in balletti con titoli come Cronaca di un bombardiere in picchiata, deve districarsi nelle partiture di un ardito compositore, Pereslegin, in previsione di un concerto, ma si trova ad affrontare una moltitudine di incombenze. Circondato da suoi simili che possono scatenare calamità infernali, ma hanno bisogno il permesso per le ferie (firmato e timbrato), da gatti che parlano e “macchine che scrivono musica”, Danilov si innamora di Nataša (“Era per sempre e in ogni dove: negli spartiti, nei voli della bacchetta del direttore d’orchestra, sul palcoscenico, non solo nei movimenti di Giselle o della fremente Odette, ma nel fruscio del sipario, nel suono dei fiori che cadevano, anche se gettati dalla claque dell’artista Volodin, e a casa di Danilov, nelle sue fantasticherie mentre si cuoceva una frittata, e per le strade, tra la folla che si affrettava, presa dalla morsa del gelo. Persino nel golfo mistico, si voltava di continuo per vedere se per caso fosse arrivato”) e, per non farsi mancare niente, è perseguitato dalla ex moglie, Klavdija, che lo chiama tutte le mattine. Ed è solo l’inizio della sua ordalia terrestre: prima gli rubano la preziosissima viola Albani, poi viene convocato a giudizio dal simposio demoniaco. Convinto che “il mondo è una qualsiasi diavoleria, ma non è armonia”, Danilov è una contraddizione vagante e attorno a lui Vladimir Orlov crea una galassia irriverente e psichedelica, inafferrabile come la musica, ipnotica come una favola tradizionale. Solletica più le emozioni dell’intelletto, ma insieme alle perplessità degli spiriti afflitti (“A che serviremmo noi con i nostri sforzi e le nostre tentazioni! E chi siamo noi? Noi siamo tutti questi esseri e sistemi inanimati che viviamo nel nostro mondo? O siamo noi a vivere da loro? Noi consolidiamo qualcosa oppure gli nuociamo? È necessaria la nostra presenza nel mondo e in cosa consiste questa necessità?”), progredisce una metamorfosi singolare ed enigmatica. Lo stesso Danilov insinua il sospetto che sia tutta una messinscena perché “il toro, Klavdija, i faccendieri futuri, la viola Albani, il compositore Pereslegin e gli sforzi personali nella musica, ora tutto gli sembrava di scarso interesse. Quanto alla carta laccata con i caratteri color porpora dell’ora X, non erano altro che un sogno”. La cornice teatrale, multiforme, eccessiva ed effervescente è inevitabile, ma più ci si inoltra nei gironi danteschi al seguito di Danilov e più diventa evidente l’ambito comune e condiviso che poi sono “i pensieri, in particolare nell’uso che ne fanno gli umani, più spesso si palesano grazie all’espressione verbale. Ma la parola, ingabbiata dalla abitudini della lingua, è primitiva e misera, trasmette solo una parte del pensiero, a volte non quella più importante, lasciano da parte il movimento stesso del pensiero, la sua vita, i suoi fremiti”. È lì che si dibattono i demoni di Vladimir Orlov e sono “cattivi compagni”, non tanto nella versione della burocrazia sovietica quanto in quella di sant’Agostino, che a sua volta riprendeva da san Paolo, l’identificazione di “quello spirito che ora opera negli uomini ribelli”. Una definizione che vale anche per le imperfette progenie di Vladimir Orlov che, nemmeno con tutti i poteri immaginabili, riescono a concretizzare un qualche obiettivo e si ritrovano a confessare che “talvolta, in una qualche civiltà o per impazienza o per qualsiasi altra ragione, organizzi una bella scossa, una cosa tremenda, con inondazioni ed eruzioni, epidemie mortifere, esplosioni di sostanze mortali, spargimenti di sangue, incendi di capitali, odi fratricidi, sofferenza del pensiero, ma lasci loro la vita, vedrai che più tardi, non subito, pian piano, tutto si metterà a rifiorire in modo poderoso e rigoglioso, come l’erba sull’humus”. Imprevedibile e fantastico (in tutti i sensi), ma puntuale del tracciare i destini di dei, demoni e uomini, che non sono mai così distanti.

giovedì 11 aprile 2019

Robert Forster

Più che il memoir di una rock’n’roll band, per quanto atipica e insolita come sono stati i Go-Betweens, Grant & io è la storia di un articolato legame cresciuto, maturato e moltiplicatosi attorno alle canzoni che Robert Forster narra ripescando una vocazione per le parole fiorita molto presto, come ricorda nei tratti iniziali del suo racconto: “Quella consapevolezza arrivò a sette anni, mentre vedevo i giorni ruotare nel vento asciutto, settimana dopo settimana, e sperimentavo una vita tanto regolare quanto quella che non avrei voluto vivere”. La contraddizione che scaturisce dal ricordo infantile è tale solo in apparenza: “dentro e fuori i Go-Betweens” Robert Forster è meticoloso nel mettere l’accento sulle dinamiche dei rapporti, a partire, va da sé, dal connubio con Grant McLennan. Dal loro primo incontro (“Mentre nella stanza gli altri ragazzi si scrutavano nervosamente, Grant e io ci salutiamo come amici perduti da tempo, cosa che, in un modo che non capiremo mai, siamo”) in poi Robert Forster spiega senza reticenze, e pur elencando tutti i dettagli e gli aneddoti con un certo garbo e, nei confronti di Gran McLennan anche con qualcosa in più di un particolare riguardo, non nasconde nulla, centellina tutti i nomi, non perde mai di vista il delicato e difficile equilibrio delle persone dentro le forme rigide e nello stesso tempo fluttuanti della rock’n’roll band. Grant & io si legge senza sosta lungo le montagne russe che hanno distinto l’esistenza dei Go-Betweens e a differenza di molti altri suoi simili non nasconde secondi fini, analisi posticce o scopi occulti e non ha niente da recriminare o da rivelare. La qualità della scrittura, costruita con un tono molto cordiale e colloquiale, con una sua eleganza e una sua praticità, senza particolari fronzoli o velleità, anche se non mancano ampi riferimenti letterari, da Hemingway a Proust, da Fitzgerald a Isherwood, porta Grant & io a scorrere come un romanzo. Tanto che Robert Forster sembra il personaggio di Martin Amis in Territori londinesi dove diceva: “Mi sento febbricitante, ma in estasi. Mi sento pieno di energia. Forse sono un sacerdote zelante, più che un romanziere, che butta giù le minute della vita reale. Tecnicamente sono anche, almeno mi pare, un antefatto, un accessorio del fatto, per per il momento al diavolo tutto quanto. Oggi mi sono svegliato pensando: se Londra è la tela di un ragno, io dove mi ci incastro? Forse sono la mosca. Sono la mosca”. L’immagine si adatta bene ai Go-Betweens, impigliati nelle maglie di una città che vive di musica ed è ricorrente perché “Londra può farti delle cose strane”: restare invischiati in un tour senza fine, vivere in uno squat, andare a caccia di un contratto discografico e, tutto sommato, vagare affamati e confusi con una vena di grazia e malinconia che Grant & io riesce a cogliere e trasmettere, e questo è forse il pregio migliore. È la stessa sfumatura che distingue la coabitazione del songwriting di Robert Forster con quello di Grant McLennan, le cui canzoni, come ha scritto Jonathan Lethem, “sono caratterizzate da una complessità e una consapevolezza che vorrei definire letterarie, e infatti le definisco così. Sono strane, bellissime ed emozionanti”. Pare sensata quindi la conclusione con Too Much Of One Thing tratta da Bright Yellow Bright Orange, e siamo già nel secondo (e finale) atto dei Go-Betweens: “Niente nella mia vita è numerato, nella vita niente è pianificato, pensi di avere uno scopo quando ciò che hai è una band, un filo sottile come quello di un ragno, sopra cui ballo, di questi tempi nulla è costante, torno a casa per avere un’occasione”. Bastava una canzone per dire tutto, ed è uno dei loro versi  più sinceri, dove, non a caso, la prima e la seconda persona singolare non si distinguono.

giovedì 4 aprile 2019

Caetano Veloso

C’è molto rock’n’roll in questo libro di Caetano Veloso e non solo perché il cantautore brasiliano è sempre stato un grande appassionato di musica in generale, ma anche perché la sua vita ha incrociato spesso le contraddizioni del cosiddetto secolo americano. La Musica e rivoluzione nel mio Brasile, come recita il sottotitolo di Verità tropicale, si sviluppa proprio da lì o come dice lo stesso Caetano Veloso, “in poche parole, io stesso potrei affermare che non vivo ciò che mi interessa nella mia creazione a partire dalla prospettiva del secolo americano bensì dal suo possibile superamento. Soprattutto perché nel secolo americano c’è ancora spazio per insistere nel fare degli Stati Uniti d’America il mastino di un gruppo razziale e religioso”. Per fare un esempio curioso, divertente e nello stesso tempo anche pertinente, bisogna giusto sfogliare le prime pagine, quando Caetano Veloso, come tutti i ragazzi della sua età, scopre la golden age del rock’n’roll a partire dal garage, come è giusto, ma con un deciso distinguo: “Quanto a me non riesco a non trovare buffo l’uso dell’espressione garagem (da garage) per definire un rock’n’roll selvaggio, essenziale e antiborghese, visto che sono cresciuto senza automobile e tra persone che non solo  non ce l’avevano, ma non potevano nemmeno sognarne di averne, un giorno, una. La semplice esistenza di un garage sarebbe stato per me uno status symbol”. Questo e i ritratti di Bob Dylan, dei Rolling Stones, di Elvis (“La figura di Elvis, il suo sound e la sua leggenda segnarono profondamente l’immaginario internazionale”) legano Caetano Veloso al rock’n’roll, ma poi ci sono il cinema, la poesia, le canzoni (“Cantare, va oltre il ricordo, va al di là dell’aver vissuto qualcosa un giorno, è più importante della vita, del sogno, è possedere il cuore di qualcosa”), Joao Gilberto e Gilberto Gil, Chico Buarque e Jorge Ben, la prigione (perché, magari ce lo siamo dimenticati, ma con i dittatori i cantautori finiscono in prigione, quando gli va bene) e la bossa nova. Quello che dovrebbe essere una specie di autobiografia, diventa il ritratto di una nazione, in una parola, il Brasile: “Dalla profonda oscurità del cuore solare dell’emisfero sud, dal crogiolo di razze che non necessariamente significa decadenza o utopia genetica, dalle nere (eppure vitali) viscere di un’industria dell’intrattenimento sempre più volta all’internazionalizzazione, dall’isola Brasile eternamente fluttuante, dal centro della nebulosa della lingua portoghese, arrivano queste parole che, pur nella loro semplicità, aspirano a essere testimonianza e ricerca sul senso delle relazioni tra gruppi umani, gli individui e le forme artistiche, ma anche delle realtà economiche e delle forze politiche: insomma sul gusto della vita alla fine del ventesimo secolo”. Non è necessario che vi piaccia la musica di Caetano Veloso, per scoprire Verità tropicale. Basta un po’ di curiosità per capire cosa succede dall’altra parte del mondo, dove, la musica (e il calcio, e il carnevale, e gli scrittori e molto altro) sono ancora una parte viva, integrante, creativa e innovativa della vita sociale e politica. Non a caso, Gilberto Gil è diventato a suo tempo ministro della cultura: comunque sia andata, è già un successo essere arrivato lì. Da queste parti invece, siamo ancora fermi ai vecchi burocrati per cui il rock’n’roll è la musica del demonio e l’I.V.A. sui dischi dicono di volerla diminuire ogni volta che l’aumentano.

Abdourahman A. Waberi

Nel mondo au contraire di Abdourahman A. Waberi Gli Stati Uniti d’Africa sono una civiltà evoluta, ricca, pacifica e nel fulgore del progresso. L’Europa e l’America sono devastate dal genocidio sistematico di questa o quell’etnia, dalla fame e dalla disperazione. È come se  Maya, la giovane artista protagonista del romanzo di Abdourahman A. Waberi viaggiasse dentro un riflesso spaccato, andando alla ricerca ai suoi estremi delle proprie origini. La lunga iniziazione di Maya comincia con un viaggio dalla Francia all'Etiopia e continua con una complessa formazione in cui deve scoprire il colore della pelle, la lingua, l’identità, il mondo in cui è nata (compresa la madre) e quello in cui è destinata a vivere. Nel suo pellegrinaggio l’unico avvertimento condiviso delinea meglio la prospettiva: “Cerca di tenere a mente l’essenziale: l’Africa era già al centro e vi è ancora. Da allora, poco o nulla è cambiato. Sotto la crosta terrestre, c’è sempre un mondo sotterraneo brulicante di vita”. A prima vista sembrerebbe un ritorno a casa, alla propria terra, alle radici africane e per certi versi è proprio così, ma la scrittura di Abdourahman A. Waberi ha un piglio illusionistico e, con quella leggerezza che potrebbe essere tutta di Italo Calvino, ribalta in allegria la realtà, tanto “nessuno ha una visione d’insieme, e non si può nemmeno pretendere che ne abbiano una”. Confondere le idee può essere molto utile ed ecco allora che Maya non torna solo in Etiopia, ma in uno degli Stati Uniti d’Africa, nazione florida e moderna, ricca e solidale, una sorta di paradiso in terra a dispetto dell’Europa e dell’America che versano nella miseria, nella paura e nella violenza delle guerre civili, scoppiata perché “la paura che hanno gli uni degli altri è esacerbata dalla profonda ignoranza, rispetto all’altro, in cui sono immersi fino al collo”. Fin qui, Abdourahman A. Waberi ha visto giusto, poi il gioco a rovesciare la realtà e la storia così come è andata, potrebbe sembrare persino banale, nel suo mettere in discussione le certezze consolidate nelle cronache quotidiane, ma ha il senso e la logica propria di una visione perché, come scrive Abdourahman A. Waberi, “la frontiera non si attraversa, si abita per un tempo brevissimo” ed è in quell'attimo che sta la differenza tra l’esilio e la fortuna di un paese in cui vivere. Non è tutto qui, perché nella finzione suprema degli Stati Uniti d’Africa, istituzioni, biblioteche e altri luoghi portano in memoria i nomi di esponenti dell’arte e della cultura afroamericana: da Fela Kuti a Marvin Gaye è una lunga catena che, tra le righe della narrazione, cuce e ricuce il filo delle letture, degli ascolti, delle visioni (e quindi delle passioni) di Abdourahman A. Waberi che, nel gioco delle citazioni, concede anche una piccola parte ad un personaggio di origine polacca di nome Ryszard a cui è facile aggiungere il cognome di quel grande reporter (e conoscitore dell’Africa) che è stato Kapuściński. Uno dei pochi ad aver provato il mondo al contrario e ad aver capito che a un livello nascosto ai più la Pangea, la terra all’origine dei continenti, sia ancora unita e che venga divisa solo da quel flagello apocalittico che è l’ignoranza dell’altro e dell’altrove. 

mercoledì 3 aprile 2019

Michel Onfray

Quanto mai sia necessario leggere, rileggere e comprendere Thoreau è il nocciolo del saggio di Michel Onfray che, usando un  canovaccio biografico, per quanto molto elastico, squaderna il pensiero di Thoreau in tutte le sue declinazioni, mostrando chiaramente il filo rosso che lo distingue dagli altri ipotetici “grandi” uomini. Thoreau vale sicuramente uno degli Uomini rappresentativi di Emerson e l’analisi di Michel Onfray è lineare, partecipata e rispettosa, ma anche volutamente limitata, perché concentra le note rilevanti con brevi cenni, cogliendone lo spirito più del senso o dei significati derivanti dall’interpretazione. L’idea di “vita filosofica” intesa come atto politico, comincia dall’infanzia perché “il bambino fornisce la trama all’adulto” e quindi nel legame con la wilderness. “La natura è trascendentale” diceva Emerson e nella Varietà degli scopi dell’uomo, come recita il titolo di una sua opera giovanile, Thoreau individua la meditazione e lo stretto legame rapporto con l’ambiente come capisaldi irrinunciabili e “l’immaginazione come elemento di felicità”. L’epicentro resta Walden che,   nella collocazione di Onfray, “contiene un’utopia politica” e  se c’è un’immagine simbolica, più delle altre,  sono le tre sedie, che Thoreau teneva nella sua capanna: una per sé, due per gli ospiti, proporzioni ridotte, ma giuste. Onfray ricorda inoltre che Walden ha precursori e ascendenti in Socrate, Diogene, Epicuro, Seneca e identifica Thoreau come  “il pensatore del fiume che scorre, il pensatore per il quale l’unica permanenza è l’impermanenza. Un pensatore vissuto immobile sul fiume”. A questo punto è necessario sentirlo in prima persona ripescando proprio da Walden quella che suona decisamente come un’apologia della vita nei boschi: “Se avete costruito castelli per aria, il vostro lavoro non deve andare perduto; è quello il luogo dove devono essere. Ora il vostro compito è di costruire a questi castelli le fondamenta”. Onfray opera anche una sintesi (riduttiva, ma sufficiente) delle “formule” di Thoreau, puntualizzando a più riprese l’idea del “contro-attrito”, destinata a bilanciare le ingerenze delle istituzioni, e riassumendo con efficacia come per lui l’artista non fosse “il pittore o lo scrittore, il poeta o il romanziere, l’autore teatrale o il compositore, ma chiunque, partendo da condizioni pur modestissime, cerchi di trasformare la propria vita in un’opera d’arte”. Una definizione appropriata a cui si accoda lo stesso Onfray: “Thoreau è un filosofo raro, uno di quelli che conducono vite filosofiche. Ha contemporaneamente pensato la propria vita e vissuto il proprio pensiero. Il bambino di una volta è diventato padre dell’uomo che è stato”. Pur sottolineandone le contraddizioni, in particolare in riferimento al saggio In difesa di John Brown, dove Thoreau parve abbandonare le pratiche non violente, Michel Onfray sottolinea che “la sua rivoluzione politica è dunque ecologica, individualista, spirituale, filosofica, ribelle e pacifica” e che “l’unica che valga davvero qualcosa e non faccia scorrere il sangue: l’unica che permette, cambiando sé stessi e invitando gli altri a cambiare, di mutare l’ordine del mondo”. Ritornando alla definizione iniziale delle illuminate personalità, aggiunge che “in questi nostri tempi democratici, il grand’uomo è colui che segue da solo la propria strada”, ma anche in questo Thoreau si distingue e “non invita a imitare lui, ma mostra semplicemente come si possa fare. Sta poi a ognuno inventarsi il proprio cammino, trovarsi la propria strada”. A saldo di ogni possibile analisi, la direzione resta quella tracciata dallo stesso Thoreau in un passo dei suoi Diari: “A me non importa se la mia visione della verità è un pensiero vigile o un sogno ricordato, se è alla luce o al buio. È il soggetto della visione, è soltanto la verità, che mi interessa”. Impeccabile.

mercoledì 27 marzo 2019

Marcus O’Dair

Come scrive Jonathan Coe nella prefazione, la longevità artistica e la popolarità di Robert Wyatt dipendono “dall’ampiezza delle sue vedute”. Lo dice anche il titolo, Different Every Time annunciando e sottolineando la cospicua varietà di sollecitazioni che La biografia autorizzata di Robert Wyatt ripercorre con una scrupolosa attinenza ai particolari. Il racconto di Marcus O’Dair è fluido, ricco di aneddoti, ricordi e testimonianze dirette. Adeguato nell’analizzare la figura di un intellettuale (sì, la brutta parola) moderno, ironico, coerente nelle idee ed eccentrico (come deve essere) nell'arte, dove per arte s’intende “qualcosa che non si può usare. Se è completamente inutile, è arte”. È anche simpatico, senza essere né pedante né agiografico e comunque privo di reticenze e/o omissioni. A partire dall’infanzia e dall’adolescenza, dove Robert Wyatt accende una precoce passione per il jazz, colpito in tenera età da Miles Davis, Ornette Coleman e Cecil Taylor, nonché dagli incontri al Ronnie’s Scott con Charles Mingus, Sonny Rollins e Thelonious Monk, che reputa (giustamente) più o meno degli dei. Nel frattempo c’è un primo tentativo di suicidio, una paternità precoce, la vita disordinata e povera che incrocia il rock’n’roll e la Beat Generation. Succede tutto in modo molto spontaneo perché Robert Wyatt, come ammette nelle primissime pagine di Different Every Time, vive “da sempre nel mondo dei sogni” ed è da lì che si propagano prima i Wilde Flowers, poi le avventure con i Soft Machine e con i Matching Mole che lo vedono protagonista nella versione del batterista a torso nudo, “sudato come un pugile” e capace di suonare tempi impossibili e di “cantare assoli di Charlie Parker nota per nota”. Forse è un eccesso, ma rende l’idea di quale essere musicale fosse (ed è ancora). In quel periodo si snodano gli intrecci, gli incontri e gli incantesimi con Jimi Hendrix, Syd Barrett, Keith Moon e con un diluvio di alcol, una presenza mai smentita. Questo è il lato uno e fila via in un attimo, diviso dal lato due, da un tuffo dalla finestra, il primo giugno 1973, in cui Robert Wyatt sfracellandosi al suolo perse l’uso delle gambe. La seconda metà di Different Every Time segna l’ingresso in quello a cui non saremo mai preparati, la vita vera, l’età adulta, e per Robert Wyatt significa la carriera solista che conosciamo per l’intensa ricerca musicale e una rinnovata consapevolezza sociale e politica. Quest’ultima non si traduce soltanto nell’adesione e nella condivisione di una lunga serie di battaglie (per i minatori, contro l’apartheid, per il disarmo nucleare), ma anche nell’intima accettazione del suo essere inglese, che traduceva così: “Siamo vittime di una strana maledizione: abbiamo vinto tutte le guerre a memoria d’uomo. Negli ultimi conflitti coloniali, alla fine abbiamo sopravanzato tutti gli altri, francesi, olandesi, spagnoli, e da allora la lingua inglese regna suprema. Poi abbiamo combattuto un paio di guerre mondiali, nelle quali è fin troppo facile riconoscere che stavamo dalla parte giusta. E su questo non peso che chiunque abbia un po’ di sale in zucca possa obiettare alcunché. Tuttavia i vincitori non riflettono mai su se stessi, a differenza dei vinti. Nella sconfitta c’è una sorta di grazia, che noi non abbiamo mai conseguito, mentre a me piacerebbe che guardassimo con quella grazia e quella modestia al nostro ruolo nella storia del mondo”. Il suo punto di vista diventa storico e politico diventa molto personale, ed è lì che lo riconosce Brian Eno, traducendolo così: “La componente politica e sociale ne è parte integrante quanto quella musicale. Lui è la miglior dimostrazione della propria filosofia, il che è piuttosto raro. Molto spesso le persone sono i peggiori esempi della propria filosofia, quasi s’aspettassero che qualcun altro la metta in pratica al posto loro. Ciò che colpisce di Robert (Wyatt), secondo me, è che vive la sua vita e che, da quel che posso vedere, non ci sono contraddizioni palesi tra i valori in cui dice di credere e ciò che fa come persona e come artista. Mi pare un pregio non da poco”. Rispetto alla musica, nel lato due di Different Every Time, spicca la storia di Shipbuilding, la canzone scritta dal produttore Clive Langer e da Elvis Costello (che poi la riprese in Punch The Clock) che, nell’interpretazione di Robert Wyatt ha trovato una sua forma definitiva. Shipbuilding a parte, se ne trova per tutti i gusti perché, tra lato uno e due, si rammenta che Robert Wyatt ha incontrato un manipolo di musicisti e ogni volta ha lasciato un segno, come è capitato con Paul Weller: “E che cazzo! Ti ritrovi a mettere le tue palle sul tavolo, il che cambia piuttosto le cose. E cambia anche la tua percezione delle cose. Sbattila in faccia al mondo e magari il mondo se ne uscirà con un sorriso. È uno strano effetto della musica”. Con lo stesso atteggiamento ha inciso canzoni che hanno cantato gli Chic e Billie Holiday, ha suonato con Carla Bley e i Pink Floyd, si è cimentato con I’m A Believer di Neil Diamond via Monkees e ha continuato a pensare che per viaggiare gli basta lo spazzolino, un cambio d’abito e la sua copia di Porgy And Bess. Completa Different Every Time una discografia (commentata) che è un bel riepilogo delle sue collaborazioni, compresa un’utile selezione di videoclip, anche a ricordare quello che cantava in Moon In June: “La musica svolge ancora le sue consuete funzioni, rumore di fondo per persone che tramano, seducono, insorgono e insegnano. Mi sta bene: non pensiate che me ne lamenti, dopo tutto è solo tempo libero, no?”. Premesso che il tempo libero non è un lusso, ma una necessità (ne converrà Robert Wyatt) quando è così, è anche qualcosa di più.

Douglas Adams

Ci mancano Douglas Adams e i suoi viaggi a zonzo nella galassia, in posti dove era più facile sentirsi meno extraterrestri che sulla terra. Torniamo a sfogliare la Guida galattica per gli autostoppisti sorridendo e incuriosendoci per universi così lontani eppure così vicini perché frutto della fantasia, di una fantasia che ormai, in genere, è ridotta a optional nemmeno tanto richiesto. Con Douglas Adams se ne è andato un pezzo di quel modo di vivere romantico dove scrittura e intelligenza coabitano con l’ironia e un’insaziabile voglia di conoscenza. Unita a un rara modestia che gli faceva scrivere nell’introduzione al ciclo completo della Guida galattica per gli autostoppisti: “Il fatto è che né io né gli altri scrittori sappiamo da dove ci vengano le idee e dove cercarle. O meglio, forse è il caso di puntualizzare. Se uno sta scrivendo un libro sulle abitudini sessuali dei maiali, probabilmente troverà più di uno spunto ciondolando per un’aia con un impermeabile di plastica addosso, ma se il suo settore è la narrativa, potrà solo bere una quantità industriale di caffè e comprarsi una scrivania che non si sfasci quando vi sbatterà la testa contro”. Il salmone del dubbio è un omaggio in un certo senso dovuto anche se, a scanso di equivoci, è difficile da considerare un romanzo. È piuttosto una raccolta eterogenea di materiali, che vanno dalla recensione di un concerto dei Procol Harum alla definizione della sua rock’n’roll band dei sogni, dalla colta prefazione a Sunset At Blandings di P.G. Wodehouse alle riflessioni sull’impossibilità di curare il post-sbornia di Capodanno. La parte di narrativa vera e propria occupa una settantina di pagine ed è l’inedito, ancora incompleto, che offre il titolo di questa raccolta. Più importante, nel contesto complessivo, il puzzle variopinto di interviste, interventi, corrispondenze, articoli e scritti assortiti che riesce però da dare un'immagine completa del Douglas Adams, uomo e scrittore con una sensibilità tale da toccare con acume e garbo la comicità dei Monthy Python e i disastri ecologici worlwide, i Beatles e l’influenza tecnologia, sapendo che in fondo il senso della vita è rimasto soltanto uno: “Siamo ormai tutti confusi e disorientati e poiché il mondo ha grande influenza su di noi, mentre noi non abbiamo alcuna influenza sul mondo, ci sentiamo alquanto stressati e alienati”. Ci sono anche i classici consigli per i principianti (“Innanzitutto renditi conto che, oltre a essere alquanto difficile, scrivere è un lavoro faticoso e solitario e, se non si è straordinariamente fortunati, anche molto mal pagato. Devi essere determinato, assai determinato a farlo. Poi devi scrivere qualcosa”), piccole annotazioni sullo stato delle cose (“Notiamo le cose che non funzionano e non notiamo quelle che funzionano. Notiamo i computer, non notiamo le penne. Notiamo i lettori di e-book, non notiamo i libri”) e, tra l'altro, una breve riflessione sull'ironia e sulla comicità che scritta da uno abituato a scambiare battute con i Monty Phyton, ci lascia davvero a bocca aperta: “Ma oggi tutti fanno i comici, anche le annunciatrici e le ragazzotte che leggono le previsioni meteorologiche. Ridiamo di tutto. Non più in maniera intelligente, non più per lo shock improvviso della battuta illuminante, ma in maniera stupida, implacabilmente stupida. Niente più docce nel deserto: solo fango e pioviggine dappertutto, illuminati ogni tanto dal flash dei paparazzi”. Forse per questo preferiva altre galassie. Forse sentiva già che questo mondo gli andava stretto.