Jakob è un uomo senza particolari qualità che vive e lavora in una fattoria nelle pianure austriache. Sullo sfondo, il rombo dell’autostrada come un acufene insistente e fastidioso e assillante a definire i limiti geografici di Bracconieri e quelli esistenziali di Jakob: mangia pochissimo, coltiva da tempo intenzioni suicide e l’incapacità di costruire relazioni solide e durature, nonché le incongruenze nei rapporti famigliari lo costringono in una prigione mentale che non concede alternative possibili. La descrizione iniziale di Reinhard Kaiser-Mühlecker è precisa e completa nella sua analisi: “Era così attaccato alle sue abitudini e alle sue aspettative che, come uno che si aggrappa alla sua malattia perché si è trasformata nella sua identità, nella sua seconda pelle, nel suo scudo protettivo, non voleva rinunciarvi”. Il pregio maggiore è l’applicazione al lavoro nei campi: riesce dove il padre, una figura assente e ingombrante nello stesso tempo, ha fallito ed è portato ad assecondare i cicli della natura e del clima condividendo i silenzi e i ritmi bucolici con una varietà di animali. A parte piccoli inconvenienti, e qualche segreto ben nascosto, è un tran tran placido fino all’arrivo di Katja che diventa presto sua moglie e madre di Marlon. La sua presenza illumina una catena di figure femminili che, dalla nonna alla madre fino all’insopportabile sorella Luisa, che determina i mutamenti principali nello scorrimento di Bracconieri. C’è una tensione costante e acuta che potrebbe essere un lungo preludio a qualcosa di drammatico e invece grazie alle intercessioni di Katja, Jakob viene addirittura premiato come imprenditore dell’anno, con tanto di sindaco, autorità e celebrazioni assortite. Quel momento pubblico all’interno di un’area molto privata, se non esclusiva, è un punto di non ritorno per Jakob che “aveva capito che non poteva comunicare le sue sensazioni, e che non doveva nemmeno farlo, se voleva tenersele”. Da lì in poi lo ritroviamo completamente assorto nei suoi pensieri che contengono “ore di retrospettive, di riassunti, di bilanci: lo divennero naturalmente, per via di quel riconoscimento inaspettato, di quell’evento inatteso, che fu una cesura nel tempo che altrimenti sarebbe trascorso con indifferenza e il più delle volte inosservato”. I riflessi autobiografici di Reinhard Kaiser-Mühlecker si condensano nella gestione dell’azienda agricola, poi la sua scrittura lineare, senza una virgola fuori posto (resa alla perfezione nella traduzione di Alessandra Iadicicco) condensa lo spettro lessicale di Jakob che, in effetti, è un circuito chiuso dove domina “un linguaggio in cui si poteva dire tutto, in cui tutto veniva detto perfino, in un mondo che altrimenti non esisteva da nessuna parte e cui lui solo aveva accesso e che nel corso degli anni per lui era sempre più diventato un rifugio”. La deflagrazione dei rapporti è solo una questione di tempo, ma non ci sono particolari colpi di scena (a parte i poveri cani, Landa e Axel) o exploit di sorta. Senza svelare nulla di sorprendente, Jakob è solo all’inizio e lo sarà alla fine in compagnia di “vecchi pensieri. Pensieri pensati spesso. Pensieri morti” e, naturalmente, “ricordi” ormai inutili e l’originalità di Bracconieri è nell’ipnotica riproposizione di uno schema perché se “a Jakob tutto appariva come in un brutto sogno, un incubo che non aveva mai fatto”, al lettore arriva come una puntualissima fotografia della solitudine e dell’incomunicabilità in un mondo avvolto in un brusio di parole in gran parte inutili.
Nessun commento:
Posta un commento