venerdì 27 novembre 2020

Sarah Blau

Il tocco della magia che Il libro della creazione raccoglie ed espande, fin dal titolo, è una concentrazione di rituali che sorprendono e ipnotizzano, trasportandoci con sobrietà ed eleganza a confrontarci con tutte le nostre fragilità, e la nostra insipienza davanti ai misteri della vita e della morte, e dell’amore che c’è o non c’è tra i due ineluttabili estremi. Telma è un’insegnante e a trent’anni è ancora sola e vive dentro “una famiglia chiusa, usurata, ostile”. Per lei, i genitori Ruben e Ghila, il padre e la madre, sono “cadaveri ambulanti” e li vede come figure sbiadite e rattrappite. Nei loro confronti arriva a usare precauzioni infantili, per esempio: “Non osservare mai da vicino il viso di tuo padre. Se lo fai, sei destinata a restare da sola fino alla fine dei tuoi giorni”. Le descrizioni puntigliose dei volti, dei corpi, degli umori, dei gesti concorrono a determinare un linguaggio forbito e scorrevole e a definire l’ambiente stesso che è opprimente all’infinito. Al punto che Telma sostiene di “di essere coraggiosa solo dietro la porta chiusa”: è il suo autoritratto perfetto e apre una crisi introspettiva in cui arriva a credere che “così passa la mia vita, accanto”, e che sta evidentemente per sfuggirgli di mano. I legami sono innumerevoli, ma gli unici che la emozionano sono quelli con i cugini Nilli e Chanan, un nome che rimanda alla misericordia e al perdono. Telma cova un bollente, quanto platonico, sentimento verso di lui e la svolta arriva con una precisione cabalistica nel corso delle celebrazioni della Pasqua, che vive e descrive così: “Festa di polpette e pane azzimo, festa di sangue, soffocante. Sento come se il mio cervello stesse diventando una palla di impasto. Non reggerò, non questa volta. Notte, rotonda, viola, lunga, unta, luccicante, acidula. Notte di azzime e vino, erbe amare, notte di cedimenti, di sangue e fuoco e voluta di fumo”. Telma beve per tutta la serata e quando vede Chanan baciare Nilli, gli scaraventa addosso un diluvio di vomito, una scena degna di Woody Allen in acido che scatena il prevedibile psicodramma famigliare. Ma è anche il momento in cui Telma si aggrappa al residuo coraggio e aprendo Il libro della creazione, si avvia al cimitero per creare un golem. L’essere misterioso della tradizione ebraica prende forma plasmato nella terra nera e Telma lo chiama Shaul, che non è solo il primo re di Israele, ma è anche il regno dei morti. Sarah Blau che ben conosce il potere dei nomi, lascia intuire che la sua prosperità dipende all’alito vitale delle persone vicine. Per Telma è la prima scoperta dell’amore, e non lo può nascondere, ma il rabbino Stauber la mette in guardia ricordandogli che “un golem non è soltanto un corpo”, ed è un essere imperscrutabile. Ma Shaul più che a una creatura folkloristica somiglia a un irrequieto Frankenstein: assorbe troppo in fretta le caducità umane e si lascia trasportare nella turbolenta insofferenza di Telma. Il libro della creazione è la dimostrazione di quello che scriveva Mary Shelley, ovvero che “l’invenzione consiste nella capacità di cogliere le potenzialità di un argomento e nel potere di plasmare e foggiare le idee che questo suggerisce”. Attorno alla leggenda del golem, Sarah Blau, gestendo con grande disinvoltura e originalità l’elemento fantastico, ha dipanato una fittissima rete simbolica e metaforica che avviluppandosi all’albero genealogico di Telma risale lungo i rami femminili, dalle volubili zie Edith e Tzila fino al dramma di Chaya che partorisce due gemelli siamesi, l’ultimo degli arcani che si protraggono lungo Il libro della creazione, fino alla forza della nonna Gerta. In realtà tutto comincia dal suo funerale: se Telma compone il golem per soddisfare le sue voglie d’amore, lei li avrebbe voluti al fianco nell’insurrezione di Varsavia, nella primavera del 1943. Ma non arrivò nessun gigante e anche gli alleati tra gli esseri umani si rivelarono molto, molto piccoli.

martedì 24 novembre 2020

Klaus Maeck

Ci sono due avvertenze che delimitano l’avventura degli Einstürzende Neubauten. La prima risale alla segnalazione di un concerto tedesco che diceva: “Questo spettacolo potrebbe causare danni a tutti coloro che hanno problemi cardiaci e preesistenti problemi all’udito”. L’avviso, che rispecchia bene il sottotitolo, Ascolta con dolore, è una bella presentazione per introdurre un gruppo iconoclasta, folle e geniale, capace di superare le regole e i luoghi comuni dell’industria dell’intrattenimento, ma soprattutto di forzare i confini della percezione e dell’arte. L’intenzione, rimasta coerente nel corso degli anni, è quella dichiarata da Blixa Bargeld: “Per me ogni forma di creatività è possibile solo in una situazione estrema. Non credo che altrimenti possa venir fuori qualcosa di valido”. Sembra di risentire le lezioni di John Cage, rispolverate e adattate alla città dove la distruzione, la ricostruzione, la separazione hanno generato il territorio ideale per la fermentazione degli Einstürzende Neubauten. Il legame con Berlino è indissolubile perché come scrive Chris Bohn “hanno fatto da specchio alla parte più orrenda della città, distorcendola in modo tale da farla riapparire più bella che mai”. Inventandosi un spazio autonomo, strutturando mezzi e logiche di produzione propri, creando una rete alternativa di diffusione e sostegno, gli Einstürzende Neubauten appena “usciti dalla rovine della cultura berlinese, appiccano il fuoco in un’autostrada deserta”, come scrive Alfred Hilsberg e da lì hanno martellato senza pietà, attraversando tutti gli emisferi, dal deserto americano alle entusiaste platee giapponesi. Grazie al lavoro di assemblaggio di Klaus Maeck, che li ha conosciuti a distanza ravvicinata, Ascolta con dolore è un ritratto a più voci, supportato da un ricco apparato iconografico che rispecchia il lavorio degli Einstürzende Neubauten. Se possibile, la dimensione di Ascolta con dolore è ben riassunta nella definizione di  Chris Bohn quando dice che “gli EN hanno dissolto ogni confine tra arte e dura vita quotidiana. La produzione della loro musica è per loro un lavoro fisicamente ed emotivamente estenuante: creano musica con Black&Decker, martelli pneumatici, putrelle d’acciaio, piedi di porco, vecchie radio, bassi e chitarre. Le percussioni personalizzate fatte di acciaio tante volte restano inutilizzate, perché per creare i loro ritmi duri i Neubaten preferiscono la ferraglia raccolta in strada”. Questo rispecchia alla perfezione la musica, come spiega Blixa Bargeld  vista “come il risultato di tre componenti: potere, magia e follia”, estranei al “pensiero dominante che tu debba per forza saper suonare uno strumento. Noi invece, neanche gli strumenti musicali abbiamo più, ma solo metalli e rottami. Non abbiamo più neanche la batteria. Abbiamo solo una chitarra e se va avanti così non avremo più nemmeno quella. Avremo solo pezzi di ferraglia e produrremo musica folk, la stessa musica che veniva suonata duemila anni fa, simile alla nostra. Questo è un beat psichedelico, il ritmo che si nasconde sotto la nostra musica perché questo è il ritmo che ci circonda”. Tra i contributi vanno annoverati, oltre allo stesso Blixa Bargeld, Nick Cave, F.M Einheit, Teho Teardo, Paolo Bandera, a rammentare le ramificazioni telluriche trasmesse dagli Einstürzende Neubauten, che poi sono riassunte nell’altro, fondamentale avviso, che merita di essere proposto per intero: “La scala Richter viene usata per misurare la forza dell’onda sismica di un terremoto da uno a cinque. 0: assoluta calma; 1: vibrazioni percepibili; 2: crepe sui muri; 3: edifici che tremano; 4: edifici in parte distrutti; 5: Einstürzende Neubauten, che poi è la verità visto che il nome significa proprio edifici che crollano.

mercoledì 11 novembre 2020

Wisława Szymborska

Nel suo complesso, l’opera omnia di Wisława Szymborska rispecchia l’intuizione da cui tutto è cominciato, la sensazione che “il nostro bottino di guerra è la conoscenza del mondo: è così grande da stare tra due mani, così difficile che per descriverlo basta un sorriso, strano come l’eco di antiche verità nella preghiera”. Lo scriveva nel 1945, in Raccolta non pubblicata, e quella naturalezza è rimasta intatta, custodita in una linguaggio limpido, che sa dominare L’orribile sogno del poeta, quello che “nelle frasi domina l’incondizionale, i nomi aderiscono strettamente alle cose. Nulla da aggiungere, togliere, cambiare e spostare”, e coltiva con discrezione l’umiltà espressa in Possibilità: “Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne”. In realtà, nelle Opere di Wisława Szymborska si scopre la maturazione di una forma di dialogo continuo, che parte proprio dalle dimensione del sogno (“E sognerai che non occorre affatto respirare, che il silenzio senza respiro è una musica passabile, sei piccolo come una scintilla e ti spegni al ritmo di quella” diceva in Appello allo Yeti), manifestata apertamente con La veglia (“Non i sogni sono folli, folle è la veglia, non fosse che per l’ostinazione con si aggrappa al corso degli eventi”) e La memoria finalmente (“Solo ora posso dire in quanti sogni hanno vagato, in quante resse li tiravo fuori da sotto le ruote, in quante agonie da quante mani mi scivolavano”). Dalla folta selva onirica, gli orizzonti si allargano e sapendo “come sono permeabili le frontiere umane”, la poesia di Wisława Szymborska si accorge in Campo di fame presso Jasło come “la storia arrotonda gli scheletri allo zero” e, con Disattenzione, che “il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle, e io l’ho preso solo per uso ordinario”. La distingue comunque l’accettazione di un limite, quello espresso in Parabola (“Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. È quel che accade con le verità universali”) o Movimento irrigidito (“Un passo dall’arte eterna all’eternità artificiale, con riluttanza ammetto che è meglio di niente e più giusto che no”). Più ci si inoltra nelle Opere di Wisława Szymborska e più ci si accorge di come la sua voce si sia fatta via via in grado di affrontare piccoli e sfuggenti dettagli sapendo “il particolare è inflessibile”, condensando una raffinata ironia (straordinaria in Autotomia: “Morire quanto necessario, senza eccedere”), e conservando una genuiva relatività. Evidente nei versi di Una vita all’istante: “Non conosco la parte che recito. So solo che è la mia, non mutabile”, ed per questa convinzione, che la ricchezza della sua poesia risponde a una precisa collocazione, anche quando si adegua a rileggere le coordinate esistenziali in Solitudine cosmica (“La vita è schizzinosa e richiede un concorso di circostanze assai particolari; il loro verificarsi si osserva sul nostro pianeta e, per il momento, da nessun’altra parte”) o in Ogni caso (“E ciò che d’un tratto mi è saltato da sotto i piedi, non è saltato lontano, perché calpestato è caduto, e benché ancora si svincoli ed emetta un prolungato silenzio, è un’ombra, troppo mia perché mi senta alla meta”) e con Il ballo (“Non so agli altri, per essere felice e infelice, a me basta questo: una dimessa provincia dove anche le stelle sonnecchiano e ammiccano nella sua direzione non significativamente”). Il denominatore comune del patrimonio lirico di Wisława Szymborska è una ricchissima coltivazione di parole, delimitata da piccole digressioni sul tema. Se ne possono ricordare almeno due, a definire un possibile tracciato, inizio e fine intercambiabili. Scriveva in Il classico: “Qualche zolla di terra, e la vita sarà dimenticata. La musica si libererà dalle circostanze”, e così d’altra l’eco rispondeva In lode di mia sorella: “A volte la poesia scende a cascate per generazioni, creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire”. Ed dunque si ricomincia dall’inizio perché “conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova” e la forza di Wisława Szymborska è nel contrasto tra l’ammissione che “solo ciò che è umano può essere davvero straniero. Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento” e la vocazione espressa con “la gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta d’una mano mortale”. È tutto lì, e molto più di un premio Nobel.

giovedì 5 novembre 2020

Nadeem Aslam

Ci sono due nazioni, due mondi e due universi che raccontano le Mappe per amanti smarriti. Gran Bretagna e Pakistan, civiltà occidentale e Islam, la natura del mondo reale e quella fantastica delle patrie immaginarie dei sogni e dei legami. È tutto doppio in quel gioco di incontri e contrasti che è la vera trama sotterranea del romanzo di Nadeem Aslam. Sullo sfondo delle differenze tra modi di vivere diversi si sviluppa un’educazione ai legami e all’amore di un’intera comunità. Il punto di partenza è la scomparsa di Jugnu e Chanda, i primi amanti smarriti della storia, che inserisce una sottile indicazione noir nella geografia del racconto. Per inciso, “Jugnu, lo studioso di lepidotteri, sosteneva che le farfalle rosa liberate nell’aria durante il concerto dei Rolling Stones a Hyde Park nel luglio 1969 doveva essere semplici farfalle bianche immerse in un bagno di colore, perché in natura non esistono farfalle rosa”. Un passaggio che, all’inizio di Mappe per amanti smarriti, rende già evidente l’amore di Nadeem Aslam per i dettagli naturali, e non. Poi c’è, quasi speculare, il confronto tra Shamas (il fratello di Jugnu) e la moglie Kaukab che è anche l’immagine del divario tra l’accettare e lo scoprire il nuovo mondo e il rimanere legati alle tradizioni. L’intreccio, complesso e per certi versi temerario, contiene anche il distacco e le aderenze tra India, Pakistan e la Gran Bretagna, tra la civiltà occidentale e l’Islam che Nadeem Aslam racconta inserendo profumi, sfumature e descrizioni particolareggiate con certosina abilità e anche con un delicato senso musicale del ritmo e della parola. Aiutato da un immaginario legatissimo allo svolgersi spontaneo dei tempi e delle stagioni, che scandiscono l’andamento di tutto il romanzo, perché “il tempo trasforma tutto in ricordi”, Mappe per amanti smarriti è un libro attraente, anche se non sfugge una certa patina di formalità nella sua costruzione. Come se Nadeem Aslam, nel tentativo di convincere il lettore, abbia esagerato un po’ troppo nell’elaborazione e nella rifinitura, smarrendosi con i suoi amanti. L’intricata filigrana, a tratti barocca, è una componente ridondante nella scrittura, pur con una sua logica. Piccoli difetti di gioventù, quando “l’immaginazione pretende di spaziare in tutti gli aspetti della vita” e manca ancora quella mappa che serve per non lasciarsi travolgere dall’esuberanza e dall’entusiasmo. Le cartoline sulle vie intraprese dagli amanti perduti sono preziosi ricami sia con lo sguardo rivolto in alto (“Il cielo è così azzurro che viene voglia di toccarlo. Presto sarà azzurro e oro”) che puntato verso la terra (“Gli aceri lungo la ripida stradina fra la moschea e la chiesa avevano incominciato a sanguinare goccia a goccia all’inizio dell’autunno e adesso sono quasi completamente spogli, scheletri degli alberi che erano”), ma scrutando il destino dei suoi amanti Nadeem Aslam avverte comunque: “Niente avviene per caso: è sempre colpa di qualcuno; forse, ma  nessuno ci insegna a convivere con i nostri errori. Ciascuno è isolato, solo con il suo dolore e la sua colpa, e una domanda troppo acuta può far sì che il giorno dopo le persone non riescano più a guardarsi in faccia tra loro. E non sa neppure se sarà mai capace di affrontarla o costringerla ad ammettere la verità. Sono intrappolati qui l’uno con l’altro rinchiusi nella stessa cella d’isolamento, e non c’è liberazione”. Questo vale per tutti, e forse bastava molto meno per dirlo.

venerdì 30 ottobre 2020

Gabriel García Márquez

Quando gli chiesero tredici storie d’amore per la televisione, Gabriel García Márquez pensò di sollecitare il suo laboratorio di scrittura cinematografica di Città del Messico. I soggetti sgorgarono con sollecitudine, i riconoscimenti restarono molto vaghi e così Gabo e i suoi allievi decisero di svilupparli in modo autonomo. A spingerli non erano motivazioni professionali o commerciali (quelle che richiede un mezzo ingombrante come la televisione), ma una vocazione purissima che Gabriel García Márquez riassunse così: “La cosa che più mi interessa al mondo è il processo creativo. Che razza di mistero è questo che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, di morire di fame o di freddo o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare, e che in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla”. Il confronto con i suoi allievi è la parte più consistente di Come si scrive un racconto, ma sono le indicazioni sparse in lungo e in largo da Gabo a costituire una sorta di vademecum per districarsi nello sviluppo delle storie, ben sapendo che “non c’è vera creazione senza rischio, e pertanto una dose di incertezza”. Le istruzioni e i suggerimenti non nascono da una lezione: sono frutto del dialogo costante con gli allievi del corso di cinematografia ma resta il fatto che tra una discussione e l’altra prende forma una sorta di decalogo sulla scrittura secondo Gabriel García Márquez. Il primo punto riguarda un aspetto preliminare a cui bisogna prestare molta attenzione: “La ricerca è sempre utile. È cercando la storia che si scopre il metodo”. Da lì Gabo raccomanda un rigorosa cernita, premurandosi di ricordare che “bisogna imparare a scartare. Un bravo scrittore non si riconosce tanto da quello che pubblica quanto da quello che butta nel cestino della carta. Gli altri non lo sanno, ma chi scrive sa perfettamente ciò che butta nel cestino, ciò che scarta e ciò che conserva. Se riesce a scartare vuol dire che è sulla buona strada”. E giusto per assicurarsi di essere capito, lo ribadisce a stretto giro di posta: “Ciò che non serve non serve, bisogna eliminarlo qualche che ne sia l’origine”. A quel punto, si entra nel merito, e Gabriel García Márquez si fa sempre più accorto nel seguire i suoi studenti, avvisandoli che “se si ha tra le mani una storia, non ci si può lasciar trasportare da idee che la contraddicano. O difendiamo le nostre storie, o cediamo alla tentazione di trasformarle in storie diverse”. I punti cinque, sei e sette sono corollari alla collocazione delle storie: prima di tutto “bisogna avere fede in qualsiasi immagine originale, che ti dica qualche cosa; se ti dice qualche cosa quasi sempre è perché racchiude qualcosa”, poi “bisogna definire il genere sin dal principio. Non c’è niente di peggio di una commedia involontaria, cioè di quando uno è convinto di fare un dramma e gli viene fuori una commedia” e, infine, “bisogna fare attenzione a non alterare gli aspetti essenziali della storia; il nostro compito è apportare delle idee affinché la storia risulti il più coerente e attraente possibile”. Le raccomandazioni pratiche finiscono lì, poi Gabo spiega gli allievi che “il fallimento deve avere una solida ragione drammatica, altrimenti perde senso” e ricorda che persino “le profezie sono cifrate per proteggere se stesse dal fallimento. Non possono correre il rischio di rovinarsi da sole. Se tu credi nelle profezie e ti predicono che quando uscirai da qui, all’una e dieci di notte, ti cadrà una tegola in testa, tu naturalmente non verrai qui, o non uscirai di qui all’una e dieci di notte, e la profezia pertanto non si compirà mai. Le profezie si decodificano con precisione soltanto dopo che si sono avverate, o meglio dopo che succede quanto presumibilmente doveva accadere”. Arrivati alla fine, qui c’è tutto quello che bisogna sapere sulla scrittura e l’ultimo punto è lasciato a un’allieva Gloria che giustamente dice: “Ho una montagna di appunti. Vado a mettermi al lavoro”. Da qualche parte bisogna pur cominciare.

lunedì 19 ottobre 2020

Hafid Bouazza

Attenzione alla civetta, e alle lucertole che guardinghe assistono agli scambi sensuali di uomini e donne, e a Senunu, la rondine che osserva dall’alto condividendo il cielo con i tappeti volanti fabbricati in Cina, compresi tutti i loro difetti e la loro personalità. Tutto un mondo (animale, vegetale e minerale) prende sembianze antropomorfe nel tragitto tra la valle di Abqar e Paravion, una città scoperta sul nome di una busta consegnata dal postino con il Solex, poco più di una bicicletta con un piccolo motore. Non è un caso: nel villaggio della Morea (che non dovrebbe essere molto lontana da Marocco) dove arriva, circondato da una nuvola di polvere, sono poveri e analfabeti, e vivono in una dimensione fantasmagorica di sogni, leggende e magie. Paravion è “un gioco di linee vibranti e colori sfumati” e gli uomini non resistono al desiderio e al fascino dell’incognito. Parte anche Baba Baluk, che lascia la moglie, Mamurra, incinta e accudita da Cheira e Heira, due streghe, gemelle siamesi, che (si scoprirà) trafficano cannabis in cambio di pesce. Lei morirà dando alla luce Baba Baluk junior, e il fanciullo “era taciturno, si spostava in silenzio, con un’eleganza ostinata, con la quiete di un bambino abituato ai desideri non esauditi”. Viene picchiato con regolarità dai suoi coetanei, perché è diverso, perché non c’è altro da fare, perché “i ragazzi sedevano annoiati ai loro banchi, le dita viola d’inchiostro, i quaderni pieni di macchie e tatuaggi. Non c’erano finestre nell’aula, ma sembrava che i loro occhi scrutassero fuori un paesaggio sfumato che offuscava la vista”, e ha ragione Hafid Bouazza quando dice che “qualcuno dovrebbe calcolare quanti litri di lacrime vengono versati durante l’infanzia”. Ma, nella valle di Abqar, Baba Baluk è rimasto l’unico uomo: è assediato dalle donne e cerca un modus vivendi, se non proprio un equilibrio che garantisca la fertilità e la prosperità, e le sorprese non sono finite. L’iniziazione al sesso, alla scoperta del corpo, e nello stesso tempo di una vita eterea che fluttua tra l’arrivo di un carro al villaggio, le visioni dell’hashish, storie e sortilegi, si dipana un romanzo psichedelico nel vero senso della parola, ovvero che comporta una viaggio mentale, di sicuro non lineare, ma conturbante. D’altra parte, a Paravion gli uomini trovano una città con insistenti richiami pubblicitari, dove tutto (anche l’amore) è in vendita. Vi restano imprigionati perché “chi trovava un’anima a Paravion, non poteva più far ritorno in patria per molto tempo”, dato che “nessun cuore può battere in due luoghi nello stesso momento”. La situazione è acida e delirante, dato che “a letto gli uomini scrutavano il soffitto, la carta della loro solitudine, e nel silenzio della loro oscurità lanciavano grida come folli spiriti tormentati nella cella di isolamento di un manicomio”. E così a Paravion, “la vita scorreva senza che loro potessero in qualche modo influenzarla, le cose andavano diversamente da come loro avrebbero desiderato”. Hafid Bouazza non è il primo ad aver scoperto cosa c’è dietro l’illusione urbana, e il disorientamento dell’emigrazione. Anche Tahar Ben Jelloun ha scritto, a suo tempo: “E poi la città e il cielo si sono scomposti, il sogno spezzato colava la sua pena nei vicoli deserti”. Ecco, Paravion si realizza nei contrasti, fortissimi e luminosi, con le persone che “sembrano passare di dimensione in dimensione”, tra la distanza che separa la città dalla valle e gli uomini dalle donne, tanto che Hafid Bouazza, non senza una certa ironia, scrive che “era bizzarra, questa scena di umana seduzione e beffe animalesche. Impregnata di una voluttà irrefrenabile”. È proprio così e, anche se poi “il sogno era disturbato a tratti, la realtà si imponeva e poi spariva, si manifestava e poi ne era inghiottita”, in Paravion uomini e donne, flora e fauna e persino i ruscelli e le pietre popolano uno splendido miraggio, labirintico e ammaliante.

lunedì 5 ottobre 2020

George Steiner

In questi interventi George Steiner si confronta con la rapida evoluzione (involuzione?) del testo scritto nell’era digitale, ma i suoi interrogativi sulla funzione della scrittura in generale e della letteratura in particolare, che partono da riflessioni profonde e articolate sulla forma del libro in sé, e sulle sue mutazioni. A partire dall’impressione che “la lettura diventerà un continuo traffico elettronico, piuttosto che un’attività solitaria, e la scrittura, perfino quella del romanziere, sarà uno scambio aperto, on line, tra l’autore e il pubblico”, si evolvono in una valutazione più ampia sul valore dei libri che secondo George Steiner restano “la chiave d’accesso di cui disponiamo per arricchire la nostra esistenza”. Questa considerazione è la base su cui si intersecano le coordinate di scrittura e lettura con i falò, la censura, il dispotismo, le aberrazioni che sono generate da volumi assurdi o funzionali a tutt’altro che al clima in cui i libri hanno bisogno per sopravvivere e moltiplicarsi che secondo George Steiner deve essere composto da “silenzio, intimità, cultura letteraria”. Da Atene e Gerusalemme, il bivio della cultura attraversato con Platone, Kant, Goethe, Dostoevskij convince George Steiner a ricordare che “il concetto di lettura, considerato un processo che fondamentalmente appartiene alla collaborazione, è intuitivamente convincente. Il lettore impegnato collabora con l’autore. Comprendere un testo, illustrarlo nel quadro nella nostra immaginazione, della nostra memoria e della nostra rappresentazione combinatoria, equivale, seppur nei limiti delle nostre capacità, a ricrearlo”. Questa reciprocità consente di immaginare che “un refuso tipografico può rendere immortali” e nello stesso tempo rivela che abbandonarsi alla lettura “è come lasciare che il mito, la preghiera, la poesia si ramifichino e si sviluppino dentro di noi, modificando, arricchendo il nostro paesaggio interiore nel quotidiano: nello stesso tempo, a loro volta essi subiscono un cambiamento e si arricchiscono grazie al nostro viaggio attraverso la vita”. I libri non sono soltanto le pietre di un guado tra l’autore e il lettore  che restano “vincolati dalla garanzia di un senso”. Secondo Steiner “finché un testo sopravvive, da qualche parte sulla terra, anche in un silenzio ininterrotto, è sempre capace di risuscitare” e “leggere, nel vero senso del termine, una pagina di Kant, una poesia di Leopardi, un capitolo di Proust, significa avere accesso a momenti di silenzio, alla salvaguardia dell’intimità, a un certo livello di formazione linguistica e storica pregressa”. Il ritornello dell’intimità torna spesso nelle digressioni di Steiner perché se “la solitudine che rende possibile un incontro approfondito tra il testo e la sua ricezione, tra la lettera e lo spirito, oggi è una singolarità eccentrica, psicologicamente e socialmente sospetta”, è una delle componenti fondamentali per “lasciare che i libri vivano la nostra vita, completamente o in parte, significa rinunciare tanto ai rischi quanto alle estasi del primario. In ultima analisi, la scrittura è essenzialmente artificio”. Il suo destino è captare il significato e aiutarci a capire come “ciò che non impariamo e non sappiamo a memoria, nei limiti dei nostri mezzi sempre insufficienti, non lo amiamo fino in fondo”. D’altra parte mentre I libri hanno bisogno di noi, ci offrono soprattutto “il privilegio di vivere le nostre passioni”, e a quel punto le distanze tra scrittura e lettura si assottigliano perché “lo studioso, il lettore autentico, lo scrittore è permeato dalla spaventosa intensità della narrativa, è formato per rispondere al più alto grado d’identificazione con il testuale, con il fittizio”. Un piccolo manuale di istruzioni, ma un notevole sguardo d’insieme su ciò che contengono i libri e sulle infinite possibilità che aspettano i lettori.

venerdì 2 ottobre 2020

Nick Hornby

Scrivere di musica, anche solo per passione, è sempre un lavoro bistrattato. Un po’ perché ogni musicista contiene una rock’n’roll star e quindi si vive sempre di luce riflessa. Un po’ perché è vero il luogo comune che dietro ogni critico c'è un musicista mancato. Ciò non toglie che anche scrivere di musica sia, come giustamente ripropone questa bella antologia curata da Nick Hornby, “la testimonianza di una grande passione”. Diventa relativo che a farlo sia il songwriter Robbie Fulks (esilarante e amarissimo nello stesso tempo il suo brano sulla dichiarazione dei redditi) o un veterano dei rock’n’roll writer come Anthony DeCurtis alle prese con la leggenda vivente di Johnny Cash.  È  l’inseguimento della musica, il tentativo (sempre fallimentare, ma non per questo inutile) di descriverne le emozioni, le sensazioni, i piaceri e i dolori legati alle vicende personali quello che conta. Molte di queste storie (a partire da quella, splendida di Rian Malan, che racconta il travagliato percorso che ha portato una canzone di Solomon Linda, Mbube a diventare lo standard mondiale di The Lion Sleeps Tonight) sono veri e propri racconti da collocare nella migliore letteratura. Anche perché, come dice Nick Hornby “era inevitabile che la musica pop sviluppasse alla fine un senso della propria storia, anche se ci è voluto il suo tempo”, e nell’approfondirne il senso è necessario svolgere analisi che vadano un po’ oltre le categorie estetiche. Come fa giustamente  Monica Kendrick che in The Complete Fun House Sessions dedica un ritratto avvincente di Iggy Pop e dice che “è questo che distingue la musica abbastanza buona dalla grande musica: la sensazione che i musicisti siano andati oltre se stessi, che si siano spinti al di là di ciò che loro stessi prima ritenevano possibile, che abbiano insegnato a se stessi qualcosa che nemmeno sapevano di sapere, qualcosa di fisico, di spirituale, di permanente”. La conclusione che vale come metro di giudizio è che “è il processo creativo che fino a oggi non si era mai potuto ascoltare, a rendere questo disco un capolavoro vitale: okay, adesso sfondiamo il muro con la testa un’altra volta. Fun House è la perfetta articolazione dell’inarticolato, di quel punto frustrante in cui i nostri desideri più impellenti si scontrano la barriera del linguaggio e barcollano, ebbri di celestiale idiozia. Sono cose che con le parole non si possono esprimere. Ma con il rock’n’roll sì”. Nell’antologia assemblata da Nick Hornby la provenienza eterogenea dei saggi mostra qualche fisiologica incongruenza: se il racconto dedicato agli ultimi giorni di Jeff Buckley a Memphis in Aurora boreale è un capolavoro intenso e crepuscolare, Jonathan Lethem se la cava con sufficienza, anche se il materiale a disposizione (i mai dimentica Go-Betweens) era molto interessante. D’altra parte meritano un cenno particolare Nick Tosches, notevole in Gagà e gangster, e Steve Erickson in Neil Young in giornata buona, ma, di sicuro, nella selezione di Nick Hornby non c’è nessun imitatore di Lester Bangs e così “non troverete tanta cattiveria in questo libro (forse uno o due pezzi, giusto per condimento), ma troverete un sacco di roba che cerca di spiegare perché la musica è importante, cosa significa, da dove derivano la musica e l’impulso a farla. In altre parole, questo libro ha la speranza di non essere affatto sulla musica, ma su ciò che ci rende umani”. Questo basta e avanza e renderlo un libro prezioso per tutti coloro che vivono dentro e attorno alla musica.

mercoledì 9 settembre 2020

Nick Kent

The Dark Stuff è una visione onesta, per quanto cruda, del rock’n’roll: Nick Kent affronta alla pari i suoi illustri contendenti, cosa che una volta si poteva ancora fare, e i duelli si risolvono comunque con un accordo finale: siamo così, non potrebbe essere diversamente. Ispirato da Lester Bangs, come è naturale che sia, Nick Kent affronta un’area “spesso scomoda della vita pop”, che ha frequentato in prima persona, conseguenze e disastri personali compresi. Così, come scrive uno dei suoi rock’n’roll heart preferiti, Iggy Pop, il suo è “un proprio punto di vista sordido e generalmente sgradevole, a volte decisamente esilarante”. Di sicuro Nick Kent evita la scrittura didascalica e ripetitiva che ormai attanaglia tutta la critica musicale: il suo è sempre un confronto (a volte, anche uno scontro) con la persona dentro la rock’n’roll star, con i suoi tormenti, le sue difficoltà e le sue ossessioni. L’attenzione è rivolta costantemente verso “il terribile triumvirato composto da ego, abuso di droga ed egocentrismo che assilla implacabilmente le menti creative”, spesso e volentieri prosciugandole e lasciandole senza una concreta via d’uscita. L’insistenza per i temi più intimi può apparire, non senza una ragione, piuttosto ossessiva, ma del resto Nick Kent ha il coraggio di affrontare personaggi enigmatici e inafferrabili, per poi renderli comprensibili e un po’ più umani. Quella che chiama “una serie di profili di musicisti”, comincia “con un ritratto di follia che prosegue per scenari infernali prima di trovare una qualche redenzione nei racconti finali di chi ha trascorso brevi periodi all’inferno ma è sopravvissuto, portando con sé lampi di vera saggezza da offrire al mondo”. Da questo punto di vista il capitolo dedicato al lunatico mondo dei Beach Boys, e in particolare a Brian Wilson, rappresenta la sfida maggiore. Nick Kent non risparmia niente e nessuno e affonda le sue domande, punteggia ogni mossa, creando una cronaca tagliente della famiglia Wilson e della loro California. La visione del rock’n’roll secondo Nick Kent è decisamente drastica ed è legata da nodi indissolubili alle personalità degli artisti, o meglio alle deviazioni, alle ferite, agli incubi e alle ossessioni. Nick Kent, come tutti, ha le sue predilezioni, Iggy Pop in particolare, ma il leitmotiv di The Dark Stuff è la componente dell’autodistruzione che accomuna gran parte, se non tutti i protagonisti dei capitoli assemblati nel corso dello scorcio finale del ventesimo secolo. Ci prova sempre, con risultati alterni, ma riuscendo sempre a convincere. Questo perché non ha una tesi da confermare, o un’idea in cerca di autorevoli riscontri, ma perché si affida al valore in sé dell’incontro, quando c’è un incontro (il più delle volte) o di una sua ricostruzione, quando può partire per la tangente, in assenza di contraddittorio. Il ritratto di Jerry Lee Lewis, che riconosce il debito al lavoro di Nick Tosches, mette “il killer” in una luce particolare, per poi tuffarsi in quella che Nick Kent chiama “una celebrazione, malgrado tutto, dell’essenza sferzante del rock’n’roll”. Viene portata a galla con gli snodi turbolenti dei Rolling Stones, “l’inquieto splendore delle New York Dolls”, la descrizione a distanza ravvicinata del genio e della malinconia di Shane McGowan, gli spigoli creativi di Morrissey ed Elvis Costello, l’accostamento dei capitoli dedicati a Neil Young e a Kurt Cobain, l’inseguimento delle chimere di Roky Erickson e Syd Barrett. L’aria cupa che distingue The Dark Stuff (l’elenco dei caduti supera di gran lunga quello dei sopravvissuti: Sly Stone, Miles Davis, Johnny Cash, Roy Orbison, Prince, Lou Reed, Sid Vicious, Serge Gainsbourg) non impedisce a Nick Kent di realizzare che se l’autodistruzione “non fa bene allo spirito umano, per non parlare dei polmoni, del fegato e dei reni”, il trucco di disintegrarsi e poi risplendere di nuovo può funzionare. La conclusione di The Dark Stuff sostiene che “è uno stupido sogno, ma non impedirà alle giovani menti di farsi irretire da questa strada, ancora una volta. Qual è l’alternativa? Una lunga vita e un mondo pieno di miti musoni come Belle and Sebastian”. Per carità, continuiamo a preferire Phil Spector, anche se girava negli studi di registrazione con in mano una pistola, e finirà i suoi anni in galera.

lunedì 29 giugno 2020

Wesley Stace

Nelle fantasmagorie e negli svolazzi che adornano La ballata di Miss Fortune prende forma una singolare parodia del potere, che si dipana attraverso un intricato albero genealogico. Uno di questi rami, il più importante, vede protagonista la discendenza di Geoffroy Loveall: “La sua natura rassegnata, la delicata sensibilità e la sua accettazione indifferente dell’eredità che gli toccava portare (una crudele parodia del padre che, benché fosse un uomo buono, non era mai stato debole) lo spingevano soltanto a fare le cose che non poteva evitare”. Nel labirintico maniero di Love Hall, le (apparentemente infinite) risorse della famiglia sono continuo oggetto di desideri e appetiti che Geoffroy trascura e snobba. Ma le trame si fanno sempre più assidue e quando ormai è giunto al crepuscolo, la svolta è inevitabile. Siamo in piena era vittoriana (1820) e Geoffroy Loveall trova un bimbo a cui affida il ruolo di figlia, sottolineando l’assunto fondamentale su cui si basa La ballata di Miss Fortune, ovvero che il genere è una scelta e l’identità resta una scoperta perché “è un sollievo trovare il livello che ci si addice a questo mondo ed essere in grado di rimanerci”. Le trasformazioni all’interno di Love Hall comportano un cambio radicale perché come dice il/la protagonista adottato/a dalla strada: “Accettavo molte cose per quel che erano, altre invece mi confondevano, cose di me che avrei molto desiderato capire”. Il suo destino è legato al moltiplicarsi di intrighi, sotterfugi, promesse e complicazioni che vedono protagonisti di volta in volta Anonyma, la bibliotecaria che diventerà moglie di Geoffroy Loveall, gli amministratori Hood e Hamilton, gli altri rami dell’albero genealogico (gli Osbern e i Rakeleigh), le servitù e le dinastie, l’impero e la chiesa in un denso tourbillon di colpi di scena, anagrammi (come i nomi scritti nel frontespizio della copia delle Metamorfosi di Ovidio, un volume che avrà un ruolo fondamentale nella storia di Love Hall) e canzoni che svolgono un compito importante nella narrazione. Sono un intercalare costante e in qualche modo naturale per Wesley Stace, che continua la sua carriera parallela di songwriter come John Wesley Harding. Sarà proprio una ballata a risolvere l’intricato sovrapporsi di intrighi e complotti, ma per scoprirlo bisogna seguire Pharaoh, un personaggio la cui vita era “un lungo ciclo di canzoni inventate da lui”. Si nota all’inizio e alla fine, perché “a volte meno pensava al mondo di fuori e meglio stava, perché più cercava di capirlo e meno gli riusciva. Però conosceva bene il suo lavoro e le canzoni lo tenevano calmo, quelle che inventava e quelle vecchie, che potevano sempre essere migliorate. Servivano a tenere a bada il mondo e lontani i pensieri e le preoccupazioni di entrare nella sua testa, anche adesso”. Le canzoni restano propiziatorie, dato che “la vita è vissuta più nei dettagli, nei libri mastri e negli orari ferroviari che nella sfera platonica della teoria perfetta”, ma si rivelano indispensabili quando le rivelazioni di Love Hall scoperchiano la fredda realtà delle ambizioni per la ricchezza e il potere, dimenticando che, in fondo, “ciascuno è il sogno di qualcun altro”. Il messaggio è chiaro, l’illustrazione è molto più elaborata: La ballata di Miss Fortune è un romanzo contorto e originale reso affascinante dalla scrittura di Wesley Stace che è un florilegio di linguaggi, rebus e calembour che, a conti fatti, svela il lapsus dylaniano del suo alias musicale.

lunedì 18 maggio 2020

Bram Stoker

Il vampiro è un nobile parassita e, a vederlo bene, Dracula sembra una specie di metafora fantastica dell’oppressione dinastica su un popolo inerme. Un’aristocrazia decaduta e perversa che prospera grazie al controllo dei miti e delle storie, ma che è dannata dalla sua stessa ingordigia. Forse è solo un riflesso, ma Dracula non si vede nello specchio. Per come si sviluppa la sua versione più conosciuta, Dracula lascia immaginare sotto il coagulo di mistero e leggenda, una metafora non del tutto improbabile, a ben pensarci. Il principe delle tenebre è l’espressione di un mondo ormai al tramonto, quello degli imperi e delle monarchie, che si nutre con avidità del sangue della plebe. Non è forse un caso che gli strenui avversari di Dracula appartengano a una borghesia giovane, colta, promettente e illuminata rappresentata prima di tutto da Jonathan Harker, che fa affidamento alla logica degli strumenti della cultura e della scienza per sconfiggere il subdolo nemico. La figura in cui si concentrano le risposte della razionalità (e nello stesso tempo delle conoscenze esoteriche) è Van Helsing che diventa un po’ il cardine attorno al quale ruota tutta la resistenza ai vampiri. Un ruolo che diventa evidente in un colloquio con il dottor Seward nella fase centrale del romanzo: “Voi non permettere a vostri occhi di vedere a vostre orecchie di udire, e tutto quanto è fuori di vostra vita quotidiana non riguarda voi. Non credete che sono cose che voi non potete capire e che tuttavia esistono? E che alcuni vedono cose che altri non possono? Ma esistono cose antiche e nuove che non possono essere contemplate da occhi di uomini solo perché essi conoscono o credono di conoscere cose che altri uomini hanno detto loro”. Il senso, a saldo dei limiti linguistici di Van Helsing, è chiaro: serve il coraggio di guardare nel buio e di non fermarsi all’osservazione di Mina Harker, che non ci capacita di come possa essere “tutto così barbaro e misterioso e strano”. Ha ragione anche lei, perché del resto Dracula è comunque l’anfitrione di un universo premoderno dove contano la forza fisica, i rituali e quegli istinti primordiali che, a sua volta, vengono risvegliati nei suoi avversari. La traversata in mare su una nave fantasma, l’arrivo in una Londra particolarmente labirintica rappresenta il momento cruciale per Dracula perché troverà nei meandri della città troverà più di un complice per perpetrare le sue nefandezze e per soddisfare la sua sete. Ma forse c’è qualcosa di più, ovvero l’idea di inseminare l’impero britannico e nutrirsene e, paradossalmente, salvarlo dal suo destino. Invece, il viaggio a ritroso verso la Transilvania, quando il predatore sta per diventare la preda, trasforma uomini di scienza e di finanza in cacciatori, ma la battaglia è soprattutto con il clima, l’atmosfera e l’oscurità in cui si manifesta tutta lo spirito animalesco che Dracula attira e condensa in sé. Il dottor Seward avverte che “l’opera che ci attende comporta una tremenda difficoltà, un pericolo ignoto”. In qualche modo, lottare con il vampiro comporta condividerne gli appetiti e le abitudini, compito che tocca a Mina Harker, poi, come dice ancora Van Helsing “il criminale lavora sempre a un unico delitto”, e diventa prevedibile, anche se è un essere potenzialmente immortale. La differenza, forse, è proprio qui: gli altri hanno un’arma segreta perché “è davvero meravigliosa la capacità di recupero della natura umana. Basta che una causa di ansia, quale che sia, venga rimossa in un modo o nell’altro, fosse anche dalla morte, ed eccoci tornare spontaneamente ai naturali principi della speranza”. È qualcosa a cui Dracula non può accedere ed è il suo tallone d’Achille: nella nefasta (non) esistenza che conduce, neanche la morte può dargli sollievo. L’elaborata e macchinosa costruzione di Bram Stoker tra epistolario, pagine di diario, messaggi e cronache quotidiane scompagina il racconto e contribuisce a formare un classico che attinge dal folklore, così come dalla scienza per diventare una storia capace di tramandarsi all’infinito. 

domenica 17 maggio 2020

Elvis Costello

Qualche anno fa, Elvis Costello, nel tentativo di variare un po’ il menù di un rock’n’roll show, si è inventato uno spettacolo di varietà, The Spinning Songbook, dove la scelta delle canzoni da suonare era dettata da una sorta di ruota della fortuna fatta girare dal pubblico. Le canzoni in elenco erano una più dell’altra, ma il caso aveva un ruolo ben più che decisivo. Lo stesso gioco si può applicare a Musica infedele & inchiostro simpatico, il suo voluminoso memoir dove si può capitare nel bel mezzo di un frenetico tour americano così come in un vicolo londinese ancora circondato dalle rovine della seconda guerra mondiale, in un fumoso pub a trattare con Chet Baker o in un condominio di New York a prendere un aperitivo con Tony Bennett. Il racconto è più generoso che eccessivo perché più ci si inoltra nella sua storia, si arriva a pensare che ogni dettaglio sia sia indispensabile. L’alternarsi dei ricordi dell’infanzia e della sua vita professionale è il meccanismo a orologeria che regola la narrazione che porta Elvis Costello a riscoprire tutte le diramazioni del suo albero genealogico e a sottolineare, di volta in volta, i passaggi fondamentali che l’hanno visto protagonista, fin da quando ha scoperto che “un sacco di musica pop è nata da gente che non riusciva a copiare il modello originale e che, per sbaglio, ha creato qualcosa di nuovo”. Elvis Costello, fin dal nome che si è scelto, è stato in prima fila in quella rivoluzione di dilettanti e rock’n’roll band in scatola di montaggio che all’epoca del suo esordio, My Aim Is True, stava riportando la musica dove deve stare, in mezzo alle strade. A proposito dei Sex Pistols e, per estensione, del punk dice che erano: “solo un gruppetto di ragazzacci che prendevano per il culo un pallone gonfiato, eppure ti avevano fatto credere che la civiltà fosse arrivata al capolinea”. Proprio così, anche se poi il tono è in genere accomodante e rispettoso perché se è vero che “ci sono cose che nemmeno la musica può sistemare”, è altrettanto probabile che Elvis Costello abbia imparato a sorvolare su argomenti del tutto relativi e ad arrotondare gli spigoli. Per esempio, non aggiunge altro alle polemiche suscitate dai libri di Bruce Thomas, già bassista degli Attractions, che era stato piuttosto diretto (diciamo così) nel raccontare le peripezie del gruppo e gli umori del suo leader. Elvis Costello pare avere superato le fasi combattive e conflittuali e ha soltanto parole gentili per il paio di mogli che si è lasciato alle spalle, anche perché mentre Musica infedele & inchiostro simpatico comincia ad addensarsi, le canzoni prendono il sopravvento. Il songwriting, le fonti di ispirazione, il certosino lavoro di ricerca, la passione per brani che hanno cambiato la storia della musica così come per ballate oscure e misconosciute, il furto esibito a regola d’arte perché Elvis Costello è l’esempio vivente di quell’assunto per cui l’artista giovane copia, quello maturo ruba, formano il flusso a cui si abbandona per una parte sostanziale di Musica infedele & inchiostro simpatico. L’inseguimento e gli incontri con i suoi eroi, la proposta di produrre un album di Dylan (quello che sarebbe poi stato Infidels), le collaborazioni con Solomon Burke, Allen Toussaint, T Bone Burnett, Burt Bacharach e Paul McCartney alla ricerca di quei titoli destinati a concorrere con quegli standard e quei classici che secondo sua maestà Elvis Costello sono “canzoni per lo spettacolo e il varietà dimenticate e poi salvate da una pila di spartiti grazie a grandi cantanti e maestri del jazz. Non esiste un mezzo migliore di un altro. Non c’è musica alta e musica bassa. La cosa bella è che non devi scegliere, puoi amarle tutte quante. Queste canzoni sono qui per aiutarti quando più ne hai bisogno. Puoi trovarle in qualunque momento, proprio come il rumore e la benedizione ogni volta che scendi a suonare in cantina”. La ruota di Musica infedele & inchiostro simpatico gira proprio così: un sacco di mestiere, molta passione, un po’ di fortuna e uno sterminato album di ricordi.

sabato 18 aprile 2020

Neville Staple

Seguire la biografia di Neville Staple vuol dire scoprire “come un ritmo giamaicano datato, fuso con l’etica punk, ha potuto creare un sound personale che è uscito da Coventry per arrivare dappertutto alla fine degli anni settanta”. Nelle periferie inglesi, Neville Staple ci capita dalla Giamaica, ma ha un rapporto difficile con il padre, indurito dalle umiliazioni e dalla frustrazioni che devono subire gli immigrati nel Regno Unito. I contrasti sono sempre più duri finché, come ammette Neville Staple,  “passati i quindici anni, una lite feroce mi spinse a uscire di casa. Sarebbe dovuto succedere comunque, prima o poi. Eravamo entrambi rassegnati a vedere la schiena dell’altro. Mi ritrovai sul marciapiede fuori di casa, e nessuno mi chiedeva di rientrare. Era così. La fine della vita in famiglia. Non è una gran cosa lasciare il nido buttati fuori a calci in culo”. In quel momento Neville Staple diventa una “creatura della strada”, vive di espedienti, furti, fughe e sotterfugi, prima di trovare la musica. Dal canto suo precisa: “Non ero un delinquente, ma imparai da subito che in quei tempi brutali dovevi stabilire un tot di regole. Confini, potremmo dire”. Nel frattempo, con le sue radici caraibiche scopre i primi sound system e i locali notturni, con una predilezione dichiarata: “Il Locarno mi attirò a Coventry come una falena verso la luce. Ballare e scopare, per un giovane con gli ormoni che esplodevano formavano una combinazione vincente”. Un giorno apre una porta e trova gli Automatics che stanno suonando e che da lì in poi diventeranno gli Specials. Per Neville Staple comincia la metamorfosi da rude boy a musicista: comincerà come roadie, poi arriverà a cantare e a fare acrobazie sul palco, spinto dall’energia di quegli anni quando “il rock’n’roll era tornato, grazie al punk. Per me i Clash furono il miglior prodotto del punk e continuo ad amare la loro musica anche oggi. Questi ragazzi sono stati capaci di mixare punk e reggae in modi interessanti, ed era il reggae il sound verso cui andava la maggior parte della gioventù nera ai tempi”. Attraverso gli Specials, i Selecter, i Madness e tutta una logica in bianco e nero,“da una città senza speranze, ancora segnata dalle bombe di Hitler, è emerso un movimento musicale che ha avvolto l’Inghilterra mentre correva verso le esplosive rivolte del 1981”. Lo ska, insieme alla scelta grafica, associava una consapevolezza politica che aveva come sfondo una società decadente, classista e razzista e come, dice Neville Staple: “È questo il motivo per cui con la 2 Tone provammo a mettere insieme le due parti. In fondo eravamo tutti giovani della working class che cercavano di sfangarla, qualcuno bianco, qualcuno nero”. Lo ska divenne la colonna sonora di turbolenze e prese di posizione, di scontri e di solidarietà. Ricorda ancora Neville Staple: “Quando la violenza nelle strade iniziò a degenerare, cominciai a pensare che avremmo dovuto fare qualcosa per farla tornare sotto il nostro controllo. Se non avessimo buttato fuori gli skin saremmo stati sotto scacco. Non doveva succedere. Coventry era diventata una zona di guerra, con le gang che combattevano per il controllo della città, strada per strada. Se avessimo perso un centimetro, saremmo stati battuti. Visto che gli skin erano meglio organizzati e più aggressivi dovevamo rispondere alla stessa maniera. L’unica risposta adeguata era il sangue dei loro nasi e dei loro culi”. Il racconto è brioso e spontaneo, non privo di una certa irruenza, ma la ricostruzione è onesta e  attenta all’impatto sociale della musica negli anni conflittuali vissuti dagli Specials, fino alla trasformazione dei gusti e alle successive ondate di generazioni ska, sia nel Regno Unito, sia in America che nel resto del mondo, anche in tempi recenti  (“La nostra musica si adattava alla perfezione al nuovo clima. I testi parlavano senza fronzoli di quello che stava accadendo nelle strade”). Inoltre, Neville Staple confessa in pubblico amanti e relazioni, e il fatto di voler godersela (in contrasto negli Specials con Jerry Dammers, su posizioni etiche molto più rigide) lui che è cresciuto poverissimo e affamato nelle strade, ma i proventi dell’industria discografica gli permettono anche di mantenere i figli sparsi qua e là e di ritrovare la madre in Giamaica, ricordando più di tutto che “gli Specials mi salvarono da una vita da criminale”. Grezzo, ruvido, e rude boy fino in fondo, ma sincero come pochi.

mercoledì 15 aprile 2020

Matthew Ruddick

In Funny Valentine non c’è soltanto la vita di Chet Baker, che pure basterebbe da sola a riempire un tomo di proporzioni bibliche: con lui, Matthew Ruddick introduce e accompagna mezzo secolo di jazz life, con tutti gli estremi, le scoperte, le follie e le deviazioni. È un pianeta a parte con un suo fascino, decadente e pericoloso, ma avvolgente. Ma, anche lì, incredibilmente, Chet Baker resta uno straordinario outsider. È come se, per tutta la vita, abbia combattuto per liberarsi, per uscire da una prigione. Un’impressione condivisa da Hal Galper che ricordava: “Chet (Baker) era un musicista romantico, nonostante neanche una cellula del suo corpo lo fosse”. Uno scontro schizofrenico in cui l’assunzione di eroina è stato un palliativo,  diventando a sua volta un labirinto fatale. All’interno di questo schema, in gran parte inevitabile, il lavoro di Matthew Ruddick è meticoloso senza essere pedante (come spesso capita quando dietro un autore c’è anche un appassionato fan): è una narrazione dei fatti precisa e documentata e dal punto di vista musicale si mantiene su una linea accessibile, senza scadere in complicate analisi o dissertazioni musicologiche. In più, Matthew Ruddick sa di non essere il primo arrivato e infatti riprende con una certa generosità la biografia di James Gavin Chet Baker. La lunga notte di un mito, così come l’autobiografia, Come se avessi le ali, cedendo volentieri il passo ad altre voci, compresa quella di Jack Montrose che diceva: “Chet era unico, ed era abbastanza diverso dal resto delle persone che popolavano quel mondo. Non aveva alcun interesse per il business, né per quello che si lasciava alle spalle, anche in quel momento. Non sapeva neanche lui come aveva fatto ad avere successo. Non si preoccupava di nulla. Non credo fosse in grado di gestire il successo, non era in grado di gestire nulla”. In effetti, la storia sfiora sempre i contorni noir: dalla mancata sparatoria con Herb Alpert all’astio di Miles Davis, fino al quel giornale italiano che lo chiamava “il veleno del jazz”, Funny Valentine parte da lontano perché Matthew Ruddick ricostruisce i contrasti famigliari con il padre alla fonte del disagio di una vita ma poi in qualche modo la musica vince, sempre d’istinto, sempre a orecchio perché come esattamente come ha vissuto, Chet Baker ha suonato. In questo Matthew Rudnick vede ancora giusto quando scrive: “Credo ci sia qualcosa di addirittura eroico nel modo in cui Chet Baker rimase fedele ai suoi principi musicali, senza lasciarsi influenzare dalle disavventure o dai problemi della vita privata”. Gli aneddoti si sprecano. Intanto Chet Baker ricorda il suo maestro: “Bird mi trattava come fossi suo figlio. Solo oggi riesco a capire quanto disponibile e comprensivo sapesse essere. Suonava solo i brani che io conoscevo meglio ed evitava i tempi velocissimi che pure gli piacevano un sacco”. Poi dall’incontro con Gerry Mulligan, descritto in modo approfondito, attraverso le notti di Parigi e lungo la caccia a quei momenti magici, Chet Baker condensa la sua splendida ossessione così: “Quando suoni, cerca le note dorate, non quelle blu”. La legge del contrappasso prevede un malinconico epitaffio tratto dalla melodia di Everything Happens To Me dove Chet Baker canta: “Prenoto per giocare al golf, e puoi scommettere qualunque cosa che verrà a piovere. Do una festa a casa e l’inquilino del piano di sopra si lamenta. La mia vita sarà tutto un raffreddore e un perdere treni. Capita tutto a me”. Ma qualcuno, rispondendo a William Claxton, aveva capito quello che aveva dentro: “Puro semplice… Voglio dire, quel giovanotto ha suonato in modo puro e semplice, capisci cosa intendo? Qualcosa, in lui e nel suo modo di suonare, era puro e semplice, e l’ho avvertito subito, dopo pochi secondi. Lui era quello giusto”. Firmato: Charlie Parker.

martedì 14 aprile 2020

Mary Shelley

Secondo la valutazione Stephen King, Frankenstein è “un dramma shakespeariano” e la definizione ha un suo senso nel riagganciarsi con Il moderno Prometeo che aveva generato Mary Shelley. Osservando un po’ meglio, in Frankenstein, il dilemma, in realtà, più che drammatico o melodrammatico, è filosofico perché mette a confronto, nella cornice delle montagne svizzere e poi fino alle distese artiche, il creatore e la sua creatura, ed è difficile distinguere le deformità delle ambizioni dal suo risultato che, alla fine, non è né umano né scientifico. Questa contrapposizione alimenta i due poli magnetici fondamentali del romanzo di Mary Shelley: la tormentata natura dell’essere partorito in laboratorio alla disperata ricerca di compagnia (e di una compagna, soprattutto) mette in risalto in Victor Frankenstein le contraddizioni legate all’ansia e all’ossessione della scoperta. Quello che Mary Shelley chiamava “il mio seminario di sordida creazione” non solo corrisponde in tutte le sue parti al tormento del patchwork di resti umani e il rapporto con il suo creatore, ma insinua la domanda: chi è il vero mostro? La sofferenza è comune ad entrambi perché così sono odio e vendetta, ma se l’esperimento di Victor Frankenstein si aggira in cerca di risposte ai bisogni primari, uomini e donne sono intrappolati in una trama insondabile perché “se i nostri impulsi si limitassero a fame, sete e desiderio, saremmo pressoché liberi; invece ogni refolo di vento, ogni parola detta a caso o la scena che quella parola evoca in noi ci tocca nel profondo”. L’inseguimento lungo un tracciato tutto europeo, da Londra all’Italia,  dalla Scozia all’Irlanda fornisce un fondale maestoso e affascinante ai contrasti tra Frankenstein e il suo essere che sono costanti, tanto da trasformarsi in una sorta di ineluttabile avvitamento che li stringe  a un solo, disperato destino. Da un punto di vista stilistico per Frankenstein è ancora validissima l’analisi  di Muriel Spark che diceva, tra l’altro: “Ciò che vorrei chiarire non è tanto la bellezza della prosa di Mary Shelley, quanto la particolarità del suo stile nel momento in cui si combinano la sua prosa utilitaristica con un argomento complesso. Nel caso di Frankenstein, questa combinazione contribuì notevolmente al suo carattere innovativo e al suo successo come romanzo. L’orrore prodotto dalla narrativa gotica si disperdeva in vapore, mentre i nitidi profili di Frankenstein intensificavano l’elemento orrorifico fino al più alto grado della nequizia”. Questa è l’essenza di Frankenstein, che ha assunto la forma di un classico perché a distanza di secoli i crudi interrogativi che pone sono ancora validi, a partire dalle questioni irrisolte tra le promesse della ricerca scientifica e tecnologica e i suoi limiti che, come abbiamo imparato, presto o tardi si manifestano, e presentano il conto. Il carattere ambivalente di Frankenstein riguarda anche la forma della storia in sé, e la fonte da cui sgorga, che si riflette nella constatazione di Mary Shelley quando scrive che “l’invenzione, bisogna ammetterlo umilmente, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos. L’invenzione sta tutta nell’abilità di cogliere le potenzialità di un argomento e nelle capacità di dare corpo e forma alle idee che suggerisce”. Prometeo sarebbe d’accordo, e forse anche Shakespeare.

sabato 4 aprile 2020

Sadeq Hedayat

Stretto tra le pareti di una stanza, consumato dal suo stesso delirio (alimentato dall’oppio), un modesto artigiano di una cittadina iraniana lotta contro le visioni, gli incubi e un’incombente oscurità. Attorno a lui aleggia un’aria cupa e malata, frutto di una distorsione che lo costringe ad aggrapparsi alla scrittura in un disperato tentativo di non perdersi nel vuoto. Il preambolo che introduce La civetta cieca è reiterato più volte: “Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”, dice il protagonista, e subito dopo ribadisce: “Sono costretto a scrivere ogni cosa per assicurarmi di non star confondendo realtà e immaginazione. Devo spiegare tutto alla mia ombra proiettata sul muro”. Passo dopo passo, la sua disintegrazione si fa palpabile e la trama del racconto di Sadeq Hedayat ricorda da vicino quei versi di Edgar Allan Poe che dicevano: “Se la speranza è sfuggita, in una notte, o in un giorno, in una visione, o nel nulla, è forse per questo meno perduta? Tutto quel che vediamo o sembriamo è un sogno in un sogno soltanto”. La dimensione onirica, carburata dalla droga, si somma e si sovrappone a un malsano flusso di coscienza in cui scorrono flebili ricordi dell’infanzia e improvvisi lampi d’ira, che si attorcigliano alla percezione della realtà che comprende l’immagine di un patibolo e del boia pronto a compiere il suo dovere. Eppure, nel lungo monologo la confessione si fa via via più definita, a partire dal momento in cui il protagonista manifesta la sua condizione: “La solitudine e l’isolamento che si erano addensati in me erano notti senza fine, pesanti e dense, come quelle notti dove l’oscurità permane fitta e vischiosa, in attesa di calare sulle città inabitate ma gravide di sogni indecenti e vendicativi”. Gran parte dei furiosi propositi sono dedicati alla moglie: La civetta cieca è la metamorfosi di un suicidio che si tramuta in omicidio, seguendo una curva dettata da una spirale particolarmente complessa che sottintende il mistero più grande, quello della mente umana. Tra gli autori preferiti di Sadeq Hedayat, Franz Kafka chiedeva in uno dei suo aforismi: “Puoi forse conoscere qualcosa che non sia illusione? Poiché se l’illusione venisse distrutta, dovresti stornare gli occhi o diventeresti una statua di sale”. La civetta cieca sembra rispondergli perché se “la vita stessa è una storia dal principio alla fine”, la sua percezione è soggetta a variabili che raramente si possono controllare, prima tra tutte la cortina di parole che ci assedia e ci toglie il respiro. Sarà per questo che in raro momento di lucidità, l’uomo prigioniero di se stesso dice: “Ho sempre pensato che il silenzio fosse superiore a ogni altra cosa, e che l’uomo dovrebbe imitare l’airone, trascorrendo le giornate librandosi ad ali spiegate sulle coste marine, o standosene accovacciato senza emettere alcun suono”. È soltanto un breve istante, poi l’ossessione lo travolge ancora, e ancora: “Mi svegliai in un nuovo mondo i cui confini, usi e costumi mi parvero assolutamente familiari. Tanto che mi trovavo più a mio agio lì che non nel mondo in cui avevo vissuto fino a ora. Pareva un riflesso della mia vita reale, un altro mondo, ma così vicino e così in sintonia con me da farmi pensare di essere nel mio elemento originale. Ero rimasto in un universo antico che mi era più congeniale e affine”. Un fragile equilibrio si spezza e un macabro ritornello comincia a filtrare lungo il declivio finale: la scrittura di Sadeq Hedayat è densa, ipnotica, a tratti impenetrabile, come se pagasse dazio all’angoscia di una dissoluzione e con il coraggio dei grandi artisti, quelli che sanno guardare attraverso uno specchio nero, senza timore di quello che scopriranno.

giovedì 2 aprile 2020

Bernardo Atxaga

Essendo nato nei Paesi Baschi, Bernardo Atxaga ha sperimentato il concetto di confine ben oltre la sua dimensione geografica. È una forma mentale che evidentemente trova una disposizione ideale Dall’altra parte della frontiera, e non solo per la logica territoriale, che comunque è molto sfumata. Diceva infatti nella prefazione a Obabakoak: “Scrivo in una lingua strana. Le sue forme verbali, la struttura delle sue proposizioni relative, le voci con le quali designa le cose antiche, i fiumi, le piante, gli uccelli, non hanno sorelle in nessun luogo della terra”. Si capisce perché quella di Bernardo Atxaga è una scrittura immaginifica che si moltiplica in rappresentazioni e divagazioni eccentriche a partire da piccoli ritratti, quasi impressionistici, per alzare lo sguardo in direzioni più ampie, come se seguisse solo l’istinto per le parole, per il loro assembramento, noncurante degli idiomi e delle forme. Bisognerebbe cominciare dal Poema Polaroid sulla morte di John Lennon, una lunga orazione che occupa la parte centrale di Dall’altra parte della frontiera, e che riporta a quel giorno maledetto. Nella ricostruzione di “quando John Lennon muore per un autografo”, Bernardo Atxaga alterna più di un registro e la colloca idealmente a conclusione di una Cronaca parziale degli anni settanta perché “poi arrivarono vagoni pieni di silenzio”, e basta un verso per raccontare quello che anni di analisi storiche non sono riusciti a decifrare. Lo scenario che Atxaga trova Dall’altra parte della frontiera, è quello che emerge con La città: “E un po’ più in là, le luci della stazione, gli ubriachi, il giallo fosforescente degli spazzini, un altro ponte, le prostitute, tutto questo finisce. Vicino al parco, i tassisti parlano del pugile morto, che è morto come muoiono la ribeca e i cantanti di strada. Il tempo è un broccato fragile, fatto di tramonti sempre cupi”. La sua è una poesia fatta di osservazione, di un’attenzione acuta che sa leggere ben oltre l’immediato come Atxaga spiegava in Un traduttore a Parigi: “Se qualcuno ignora l’immensa maggioranza delle cose che formano la realtà per concentrarsi su una sola, questa diventa brillante, ma brillante come lo sono gli occhi di un serpente, con una luce che non permette di vedere nient’altro”. L’intensità è proprio quella e conferma la sensazione di movimento che viene celebrata così in Poema d’inverno: “E tu guardasti verso quel cielo, per dire: se avessi le ali, anch’io mi spingerei in cerca di terre nuove, anch’io pianterei le mie tende in una spiaggia piena di bandiere gialle; forse allora il tempo lavorerebbe meglio, forse allora dimenticherei per sempre le mura e la gente di questa città”. C’è una logica per cui il volo è ancora, e di più, lo strumento con cui Bernardo Atxaga elenca le 37 domande al mio unico contatto dall’altra parte della frontiera: “Mi hanno detto che per gli uccelli non c’è altro destino che il vento, e che ci sono navi che non raggiungono mai un porto. Quando voi parlate del destino, a cosa vi riferite esattamente? Ai vantaggi di un lavoro sicuro? Forse a ciò che si mangia cucinato all’arancia? Non pregate mai per le carovane del deserto? Sono molti, siete molti voi abitanti dall’altra parte della frontiera? Questa gente che vedo tutti i giorni per la strada, vive là?”. È una domanda più che legittima per chi è in cerca di “una patria concreta” e invece è costretto ad assoggettarsi a una terra di nessuno, quella che Atxaga delinea così in Canzoni V (Desolatio): “Dice il mio dizionario che la parola desolazione proviene dal latino desolatio, genitivo desolationis; e che fu nel milleseicentoundici che qualcuno la scrisse per la prima volta dopo aver affilato la penna di un’oca bianca. Dice anche che solitudine, rovina e distruzione sono i suoi significati principali. Ma niente dice il dizionario del cuore della gente che cammina per la strada; niente dice di noi, niente dice dei cortili del carcere o della caserma”. Eppure, forse per colmare quei vuoti o per giustificare le esigenze della poesia, Atxaga sostiene di nuovo che “abbiamo bisogno di un dizionario”, e, a ben guardare, suona inevitabile quando sappiamo di essere ormai Dall’altra parte della frontiera.

domenica 29 marzo 2020

J. G. Ballard

Una bomba all’aeroporto di Heathrow introduce il protagonista di Millenium People: David Markham è l’ex marito di una delle due vittime, Laura, ed è uno psicologo con parecchie conoscenze nelle forze dell’ordine. Un po’ per dovere, un po’ per istinto comincia una persona indagine per scoprire gli assassini di Laura e si infiltra in un gruppo di presunti ribelli nell’ameno quartiere di Chelsea Marina. La strategia narrativa di Ballard segue un andamento rigorosamente circolare: comincia e finisce a Heathrow (un’ossessione, evidentemente), con David Markham che diventa di volta in volta vittima e carnefice, come se dovesse interpretare due ruoli contrastanti. Succede più o meno a tutti i personaggi che popolano le pagine di Millenium People perché devono calarsi in ruoli diversi, e tra Robert Gould e una bella sequenza di figure femminili (Sally, Vera, Kay, Joan, Angela), nessuno è chi dice di essere veramente, a partire proprio da David Markham, e tutti sono arrivati in qualche modo ai margini (se non oltre) della legalità, nonostante le ottime lauree e le belle carriere. Tutto l’intersecarsi di identità vere e fittizie è destinato a mostrare le contraddizioni dell’ultima rivoluzione borghese, che si protrae come un elemento omeopatico alla noia suburbana, visto che nell’inarrestabile declino della middle class il mondo è diventato “un interminabile parco a tema, dove tutto è stato trasformato in intrattenimento. Scienza, politica, educazione sono altrettante giostre di una fiera. Per quanto triste, la gente compra i biglietti e sale a bordo”. A quel punto il focolaio rivoltoso di Millenium People imperversa su due distinti livelli. Da una parte ci sono le azioni terroristiche del gruppo di Robert Gould che comprendono i tentativi di distruggere “le prigioni culturali”, compreso il rocambolesco attentato incendiario al National Film Theatre. Poi c’è l’insurrezione dei residenti di Chelsea Marina che, pur benestanti, istruiti e rispettosi delle istituzioni, vedono sgretolarsi il potere d’acquisto e il valore delle proprie abitazioni, mentre tutto il quartiere è già nel mirino della prossima speculazione edilizia. Con uno sguardo lucidissimo, Ballard fa notare che “la rivoluzione era stata rimandata a un giorno più opportuno. I ribelli della borghesia tenevano in gran conto il tempo libero, e l’assalto sulle barricate sarebbe stato strizzato tra un concerto o un teatro e i piaceri del pesce fresco”. Come già in Il condominio e ancora di più con il Regno a venire, Ballard pone l’accento sull’influenza dei luoghi e dell’architettura, ridisegnando il paesaggio immaginario che è un’estrapolazione allucinata della realtà, una deformazione necessaria per comprenderla. La critica al modello di organizzazione sociale è implicita ed esplicita, perché Chelsea Marina è Londra e non è Londra, e i suoi residenti si sentono oppressi non meno che schiacciati in un deserto urbano, dove la sensazione d’impotenza deriva dal fatto che “non c’è né passato né futuro. Potendo, loro scelgono le zone prive di significato: aeroporti, centri commerciali, autostrade, parcheggi. Sono in fuga dal reale”. Per capire come si risolvono le frustrazioni sotterranee nello scenario alienante della cintura suburbana londinese, è necessario seguire David Markham nell’intricata trama di Milllenium People finché il cerchio non si chiude sulla repentina metamorfosi della rivoluzione visto che, in effetti, “una legione di nullità stava moltiplicando le tabelline di una nuova matematica basata sul potere dello zero, generando una psicopatologia virtuale della propria ombra”. Criptico, ma preciso.

mercoledì 4 marzo 2020

Mark Blake

La storia è stata raccontata più volte, ma Mark Blake ha trovato un modo per comprimerla in un bel libro, un lavoro collettivo che si sforza di saldare molte giunture tra gli USA e il Regno Unito e quindi facendo anche un po’ di ordine cronologico e dunque storico nell’essenza del punk. L’introduzione di Blondie alias Deborah Harry è lì a dimostrarlo e non ha bisogno di mentire (non più, ormai): “Il punk trapelava dalla musica che suonavi, dal modo in cui ti vestivi e dai posti che frequentavi. Era inevitabile che finisse per lasciare il segno. Sebbene ora chiunque ci sappia fare riesce a distinguersi dalla massa, il punk è tutta un’altra cosa ed è ancora tra noi. È stata un’esplosione: la prima vera espressione di rottura”. Punk. Tutta la storia si limita all’esperienza di Londra e New York attorno al 1977, prima e/o dopo. Gli aggiornamenti più recenti riguardano la reunion dei Sex Pistols del 1996, Joe Strummer, nel decennale della sua scomparsa, i Black Flag e i Green Day. È inutile cercare di stabilire dove e quando sia nato perché il punk, come ogni fenomeno culturale, si è evoluto e si è moltiplicato in più direzioni. È più interessante scoprire e riscoprire l’eccentricità delle connessioni, di strambe e fortunate soluzioni e di una rivoluzione nel gusto, nell’attitudine, nelle idee che ha segnato la musica alla fine del ventesimo secolo. Tutta la storia del punk rimbalza tra le due sponde dell’Atlantico in un frenetico sovrapporsi di immagini che spesso dicono molto di più. Il libro è esaustivo senza essere complicato: fedele allo spirito punk si accontenta di ripristinare le cronache e le vicende dei protagonisti e dei loro dischi attraverso le ricostruzioni in prima persona di Nick Kent o Gary Valentine e una pattuglia di cronisti molto affidabili, tra cui Peter Doggett, Pat Gilbert, Charles Shaar Murray, Ira Robbins. Le ricostruzioni sono frammentarie, immediate, come tante istantanee fedeli a una rivolta che è bruciata in fretta e furia. Le immagini rispecchiano le parole, perché il punk è stato apparenza e superficie, ma in prospettiva c’è tutto un immaginario che con il tempo ha acquistato una dimensione leggendaria. I Ramones in metropolitana con le chitarre nelle buste di plastica, Richard Lloyd dei Television in ospedale con flebo e sigaretta, le spogliarelliste degli Stranglers, Shane McGowan delirante nel pubblico e steso per terra davanti a Mick Jones, il sangue di Sid Vicious, le pose dei Clash (i più fotogenici), il CBGB a New York (“Linda Ronstadt venne a sentire i Ramones. Infilò la porta con le mani sulle orecchie”, ricorda Hilly Kristal) e i club a Londra fino ai bricolage di Jamie Reid che indicò una linea grafica partendo dal nulla. Come ammette lo stesso autore dei collage che hanno distinto molti materiali punk, la scelta di usare tagli e ritagli di giornale dipendeva dalla miseria in cui era costretto a muoversi. Un tratto comune a tutto il punk, che è stato un movimento partito da “meno di zero”, come direbbe Elvis Costello. La sua forza è stata quella che spiega il deus ex machina e uno degli artefici principali di tutto il casino, Malcom McLaren, nella postfazione: “Il punk ha dato alla gente la possibilità di essere un abbagliante fallimento piuttosto che un tiepido successo”. Non si poteva dire meglio.