C’è una piccola, bellissima frase di Chico Buarque che illumina la strada per entrare nel mondo di Budapest: “Dovrebbe essere proibito prendere in giro chi si avventura in una lingua straniera”. È quello che succede a José Costa, uno scrittore per conto terzi che, nella tappa di un viaggio europeo, si vede bloccato davanti ad una televisione che parla solo ungherese. Alla prima, superficiale sensazione di disorientamento, subentra ben presto la sorpresa di trovarsi di fronte a un’occasione unica, perché “forse era possibile sostituire nella testa una lingua con un’altra, a poco a poco, scartando una parola per ogni parola acquisita. Per un certo tempo la mia testa sarebbe stata come una specie di casa in restauro, con le parole nuove che entravano da un orecchio e i calcinacci che uscivano dall’altro”. Un’epifania che provoca un corto circuito che, come ha ben capito Caetano Veloso è “un labirinto di specchi”. Tutto è riflesso ed è doppio: le sue lingue, le donne (Vanda e Kriska) e le città di José Costa, Budapest (che a sua volta è divisa a metà) e Rio dove, una volta tornato, scopre di essere ancora prigioniero del miraggio ungherese: “Mi inventavo parole strampalate, frasi pronunciate al contrario, un vaffanculo buttato lì, ma a malapena aprivo bocca e nel pubblico c’era sempre qualche esibizionista che mi anticipava. Era una noia, era molto triste, potevo tirarmi giù i pantaloni nel centro della città e nessuno si sarebbe meravigliato. Per fortuna mi restavano i sogni, e nei sogni mi trovavo sempre su un ponte del Danubio, in un’ora morta, fissando le sue acque del colore del piombo”. Anche la sua scrittura diventa double face tanto che, ad un certo punto, di divide e si moltiplica persino tra prosa e poesia. Quest’ultimo passaggio è una sorpresa perché José Costa non è mai stato un poeta, e scoprirlo attraverso un'altra lingua (l’ungherese, appunto) gli aprirà orizzonti inaspettati perché, come dice il protagonista di Budapest, “le frasi erano mie, ma non erano frasi. Le parole erano mie, ma avevano un altro peso. Scrivevo come se stessi camminando per casa mia, però sott’acqua”. Rivelatosi emigrante tra le parole, José Costa proverà a sentirsi straniero persino a casa sua, non appena sbarcato a Rio e resterà in cerca di un’identità, sospeso tra il ghostwriter brasiliano e il poeta ungherese, ma con una maggiore consapevolezza rispetto al destino della propria voce, avendo imparato che “per certi migranti l’accento può rappresentare una rivalsa, un modo di maltrattare la lingua che li opprime. Della lingua che non stima, l’emigrante maschererà le parole sufficienti al suo lavoro e al quotidiano, sempre le stesse parole, non una di più. E un giorno alla fine della vita dovrà dimenticare queste, per tornare al vocabolario dell’infanzia. Così come ci si dimentica il nome di persone vicine, quando la memoria comincia a fare acqua, come una piscina a poco a poco si svuota, come ci si dimentica del giorno prima e si trattengono i ricordi più profondi. Ma per chi ha adottato una nuova lingua, come una madre che si fosse scelta, per chi ne ha amato e cercato ogni parola, il persistere dell’accento era un castigo giusto”. Un tema affascinante e molto profondo che Chico Buarque sviluppa con una leggerezza e una passione degne di Calvino, ma anche con un ritmo e un savoir faire tutti musicali. Del resto, come José Costa è sospeso tra due lingue, lui è perennemente sospeso tra la musica e la scrittura e, Budapest ne è la dimostrazione, un equilibrio si può trovare.
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