C’è stato un tempo, in Cina, in cui “le regole fondamentali erano: mai rifiutarsi di eseguire gli ordini e mai lamentarsi, nemmeno delle cose più insopportabili”. Non che sia cambiato un granché, ma la rocambolesca biografia di Wang Er attraversa la seconda metà del ventesimo secolo con la traiettoria di una bizzarra meteora. Wang Xiaobo riesce a decifrarla con grande ironia e anche con un bel coraggio nel sottolineare le astruse norme e l’atmosfera generale durante la Grande Rivoluzione Culturale quando “dappertutto c’erano altoparlanti che blateravano senza sosta, giorno e notte” e c’era una confusione sulle priorità perché “subordinare i principi secondari a quelli fondamentali significava non avere principi, subordinare i problemi piccoli a quelli più grandi equivaleva a confondere i termini della questione”. Quelli che vengono rievocati durante L’età dell’oro (nella traduzione di Alessandra Pezza e con la cura di Patrizia Liberati), “erano anche tempi in cui c’era un mucchio di carta straccia, e i ragazzini giravano a raccoglierla con dei carretti che si erano costruiti da soli, slittando per le strade che era una meraviglia. C’erano un sacco di pazzi lasciati a briglia sciolta che diventavano oggetto di ammirazione”, e forse in cima all’elenco va annoverato proprio Wang Er. È un outsider, e non tanto per questioni politiche, quanto per motivi caratteriali: non riesce a trovare una collocazione perché insegue il sesso come modulo di espressione, non asseconda i grandi passi in avanti né la dialettica del partito, le imposizioni della burocrazia o “il sostegno delle masse” convinto che “la vita è breve, e anch’io, come tutti, me la faccio andare bene così com’è”. Wang Er è un personaggio epocale, che sopporta punizioni e privazioni senza battere ciglio, ha un modus vivendi articolato attorno alle sue erezioni e un’indolenza non proprio patriottica, che ammette con grande candore quando dice che “i fili d’erba che crescono in primavera non hanno uno scopo. Lo stallone in calore che galoppa quando si alza il vento non ha uno scopo. L’erba cresce, lo stallone va in foia, ma non certo per noi. Questa è l’esistenza di per sé”. Le peripezie sentimentali ed erotiche coinvolgono una bella percentuale dell’altra metà del cielo: con Chen Qinyang, Campanellina ed Erniuz, la moglie che è un’atleta judoka, si rende protagonista di “una serie di spettacoli per cui due occhi non erano abbastanza” e che Wang Xiaobo mette in rilievo senza risparmiarsi, strappando spesso un sorriso, ma anche con un particolare spunto filosofico quando lo descrive così: “Se Cartesio fosse stato Wang Er, non avrebbe cogitato. Se Don Chisciotte fosse stato Wang Er, non avrebbe combattuto contro i mulini a vento. Se anche fosse arrivato a Rodi, come l’atleta spaccone di Esopo, Wang Er non avrebbe fatto nessun salto. Perché Wang Er non esiste. E non soltanto Wang Er, la maggior parte delle persone non esiste, e qui sta il nocciolo del problema”. Tra distruzione e costruzione, riforme e censure, “scorrono gli anni come acqua, e in un batter d’occhio sono giunto all’età delle certezze” ammette Wang Er, mai piegato o sconfitto, un individuo singolare ed eccentrico, che nasconde tutta una poetica in un paese in preda alla follia della razionalità, o qualcosa del genere. Ed è così poi che, se “i fatti dimostrano che la società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque”, con le storie del signor He e di Akimoto Kandu, del signor Li e di Filetto, il tono agrodolce di Wang Xiaobo ci ricorda che “come una luna in cielo illumina il mondo senza distinzioni, così i mesi e gli anni scorrono per tutti, ma ognuno se li vive a modo suo” e Wang Er è ancora lì, pallido e assalito dai ricordi, ma ancora in piedi. Tanto basta, poi è vero che “nella vita si viaggia da soli, e per passare il tempo serve un buon libro” e L’età dell’oro è più che un ottimo candidato, perché di compagnia da scoprire e condividere, a partire dall’ineffabile Wang Er, ne offre un bel po’.
Nessun commento:
Posta un commento