Un incidente su un molo, un’indagine che è il classico atto dovuto, uno screzio irrilevante nascosto ai magistrati. Thomas (e Anna) non hanno nemmeno mentito in un momento di profondo buio. In confronto all’imponderabile dolore per la perdita del figlio, Gabi, quell’omissione, che non è neanche una bugia, piuttosto una verità tralasciata, risulta un elemento marginale, un piccolo neo nel corso delle procedure legali. Eppure è lì quando la giudice Dominique Bontet lo scopre e seguendo l’istinto non riesce ad archiviare la pratica. Il procuratore, nel nome della produttività e dell’amministrazione della giustizia, vorrebbe maggiore celerità nelle decisioni. I fascicoli sono tanti e si accumulano, ma, lei lo sa bene, “c’è sempre un vuoto, un punto dal quale tendere un’imboscata. Un’ipotesi impossibile. Uno spazio per l’immaginazione, per usare una parola che a lei chiedono di bandire”. La differenza tra la “convinzione” richiesta dal codice di procedura penale e l’intuizione porta Dominique a spingersi più avanti e a confessare al compagno, Antoine: “Perché un’indagine sia perfetta devi conoscere non soltanto i dettagli di un avvenimento, ma anche quello che è successo prima, e persino quello che è successo dopo, solo che è praticamente impossibile”. Dominique preferisce inseguire una giustizia più vicina alla verità che all’efficienza e questa è una distinzione molto delicata quando si tratta di violenze domestiche, e sulle donne, nello specifico. Diventa difficile anche separare il credibile dal reale, ovvero “la completezza e la sufficienza” delle prove. Una questione spinosa che, per lei e per i casi che sta seguendo, quello di Iris e quello di Anna, si rivelerà dirimente. Senza dubbio è il personaggio in grado di spiccare, se non altro per la dimensione psicologica che la vede assorbire non soltanto il lavoro giudiziario, ma anche il dolore delle donne. L’empatia non riceve particolari encomi, ma le sarà utile, anche perché Dominique è sempre al limite delle regole e dei codici deontologici della magistratura. D’altra parte, “sono ormai vent’anni che la sua vita è scandita da visi, fantasmi, vittime e carnefici che coabitano per settimane, mesi o anni, mentre lei si tiene in piedi in mezzo alle rovine”. L’ultimo arrivato nel suo ufficio, Thomas Sénéchal, è un bel rappresentante di “quegli uomini arrabbiati contro la loro stessa miseria”. Forse “non era un bugiardo patologico, semplicemente dal mondo si aspettava di più”, ma condivide la precarietà raccontata anche da Pierre Lemaitre, una delle letture preferite di Dominique, e, in particolare, non è molto distante da quel personaggio in Il silenzio e la collera che “si sforzava di non pensare che era una persona in difficoltà, ma era più forte di lui, le sue sbandate lo spaventavano”. Se, tra un fallimento e l’altro, l’esistenza di Thomas Sénéchal, come del resto quella degli altri che “sembrano uomini”, diverge e tende alla solitudine e al disorientamento, le vite delle donne (Dominique, Anna, Iris) convergono. Questa geometria variabile si ripropone con una regolare frequenza e genera il ritmo serrato della storia, garantito dall’accurata scrittura di Fabrice Tassel: Sembrano uomini (nella traduzione di Francesca Bononi) ha le sequenze delle maree, e del resto siamo in Bretagna, e avanza a ondate. I protagonisti vengono spostati di volta in volta verso il loro destino, che appare ineluttabile più Dominique si avvicina ai loro casi. Persino Anna, a sua volta, si ritrova “sola e libera”, ma Dominique ha ancora dei passi da fare. La chiave di volta, e la soluzione del rebus, sarà ancora una volta nell’oceano dove tutto è cominciato, facendo venire a galla il potere deformante della menzogna, che scava un solco irreparabile.
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