Capita che John Berger venga buttato fuori da un museo come un outsider qualsiasi, quasi a ricordare che “la sciatteria è un promemoria della farsa che la vita rischia di essere”. Per tutta risposta e per nulla intimidito, colpevole soltanto di un’eccessiva attenzione alle opere esposte, Berger si affida a un’intuizione: avuto in regalo un taccuino lo immagina appartenuto a Baruch Spinoza, il filosofo dell’Etica, che, a quanto pare, era anche vicino di casa di Rembrandt. È una luce ingannevole che si protrae da uno schizzo all’altro, ma nell’ardita associazione Berger ricorda ribadisce come “noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di inevitabile alla sua incalcolabile destinazione”. Si tratta di forme che vanno consolidandosi, sia nel tratto che nella scrittura ed è così che succede “quando una storia ci colpisce e ci commuove, genera qualcosa che diventa, o può diventare, una parte essenziale di noi, e questa parte, piccola o ampia che sia, è, per così dire, la sua discendenza o prole”. L’estetica di ogni disegno, che “ha una propria raison d’être, una propria speranza di essere unico”, diventa per Berger lo strumento per l’identificazione con Bento alias Baruch Spinoza, che lo conduce a frequenti divagazioni “per arrivare a dare un senso a quel che prima vista era caotico”. Le osservazioni sulla vita di ogni giorni e i filtri della pittura, e delle arti visive in genere, si sommano attorno a ritratti di persone notevoli nella loro normalità. Il dialogo con i protagonisti è continuo, senza sosta e John Berger si conferma, una volta di più, osservatore acuto e profondo, capace di evidenziare ogni singolo dettaglio sia che si tratti di Erhard Frommhold a Dresda (incenerita) sia che parli di Luca, meccanico aeronautico a Parigi o Anton Čechov, Arundhati Roy o Andrej Platonov e infine Woody Guthrie, con ogni probabilità una voce importante per ricordare, una volta di più, che “le speranze sincere, un tempo esemplificate dalle trionfali storie hollywoodiane, sono ormai fuori corso e appartengono a un’altra epoca. Oggi la speranza è un bene di contrabbando che passa di mano in mano e di storia in storia”. Gli incroci letterari, i tanti e diversi modi di vedere, i frequenti richiami all’Etica di Spinoza sono messi in evidenza e annodati da John Berger con un ritmo leggero e andante, che però non perde mai di vista i capisaldi dei concetti complementari di “eredità” ed “esito” che, nella loro articolazione sono la risposta alla domanda che piano piano s’insinua: “Dove deposita, la storia, coloro che l’hanno seguita, e in che stato d’animo sono?”. Con questo, Il taccuino di Bento non solo ricorda in ogni passaggio che “essere desiderati è forse la cosa che, in questa vita, più ci fa sentire immortali”, ma nell’insolita coalizione tra arte e filosofia riesce a trovare una sintesi, se non proprio una definizione, della vocazione di John Berger per lo storytelling sviluppato quando “il rifiuto di chi protesta si trasforma allora nel grido selvaggio, nella collera, nello humour, nell’illuminazione delle donne, degli uomini e dei bambini di un racconto. Narrare è un modo diverso di rendere indelebile l’istante, perché le storie, una volta ascoltate, arrestano il flusso unilineare del tempo e rendono privo di senso l’aggettivo ininfluente”. Una lettura preziosa, che dice molto dello sguardo di John Berger.
mercoledì 12 febbraio 2025
martedì 19 novembre 2024
Sylvain Tesson
Dopo una rovinosa caduta, Sylvain Tesson si avvia a un pellegrinaggio per mantenere fede a una promessa, che diventa una scelta: i Sentieri neri si trasformano in vie di fuga. Alla partenza si tratta di una questione personale, come confida lo scrittore francese: “Riponevo nel movimento la mia speranza di salvezza”. Nell’inoltrarsi attraverso la Francia, dalla Provenza alla Normandia, scopre via via che “esisteva ancora tutta una geografia minore: bastava saper leggere le carte, non evitare le deviazioni e sapersi aprire un passaggio”. Sui Sentieri neri, Sylvain Tesson non si perde in meditazioni bucoliche, ma affronta i conflitti che attraversano la Francia passando da piste ormai dimenticate. Ne viene fuori un ritratto credibile, delineato da una scrittura ricca e agevole nello stesso tempo. Un ritratto di una nazione attraverso mappe 1:25.000, non sempre aggiornate, lo porta ad appuntarsi gli effetti degli sviluppi e dell’industrializzazione l’industrializzazione dell’agricoltura, la scomparsa dei villaggi e l’apparizione delle infrastrutture stradali e ferroviarie e il proliferare di anonimi paesaggi suburbani, fino a considerare che ormai “il pianeta serviva da palcoscenico alla circolazione degli uomini e delle merci”. È lì, da qualche parte nel Massiccio Centrale che Sylvain Tesson matura la convinzione che è meglio perdersi sui Sentieri neri o “insomma tenersi in disparte, o meglio sparire”. Una volontà perseguita non senza sforzi, perché il cammino è faticoso e non tutte le strade sono aperte, ma con la certezza di coltivare “un piacere di bassa intensità”. La scrittura quotidiana diventa lo strumento per riportare frammenti di memoria, dettagli di un rinnovato rapporto con la natura, gli animali e le piante nonché il senso della solitudine e dell’incontro. Se per gran parte del suo viaggio, Sylvain Tesson è solo con le sue ossa rotte, per un breve tratto viene affiancato da un altro viandante, Cédric Gras, abituato a trasferte ben più ardite nelle praterie siberiane. Oltre ai passaggi nei boschi e ai frugali pasti, i due condividono la passione per la cultura russa e le motivazioni che li spingono, dopo passo, in una direzione ben precisa. Se sulla mappa i Sentieri neri sono linee imprecise, nello sviluppo del cammino diventano un’opportunità che Sylvain Tesson rivendica con convinzione: “Procedevamo leggeri senza pensare ad altro che a trovare la strada, intenti a godere di tutto ciò che si offriva allo sguardo: una pianta di nocciolo, il volo di uno svasso, un granaio di pietre a secco. Ci accontentavamo di quelle cose. Ci sottraevamo al dispositivo”. Arrivato nella penisola del Cotentin e davanti all’oceano diventa chiaro che i Sentieri neri hanno garantito “fughe, ripiegamenti, passi di lato, lunghe assenze punteggiate di silenzi e nutrite di visioni. Una strategia della ritrattazione”. Sfilando davanti a Mont Saint-Michel e inoltrandosi in un tragitto sulla spiaggia, effimero perché sottoposto agli umori delle maree e ancora più labile dei Sentieri neri, Sylvain Tesson firma una sorta di conclusione, a suo modo definitiva: “Il momento era suggestivo: un sentiero si perdeva nel nulla e ci rendeva felici perché non autorizzava a sperare in qualcosa ma si limitava a far scaturire i sogni”. È una bella gimkana, ma vale la pena provarci.
mercoledì 13 novembre 2024
Ryszard Kapuściński
La guerra è in arrivo, una città si dissolve nella paura, l’assedio concede soltanto una surreale tregua nel weekend, quando i rovesci del fronte si fermano. Nel 1975, Ryszard Kapuściński è a Luanda, capitale dell’Angola, testimone degli ultimi giorni del dominio portoghese e dell’inizio di decenni di guerra civile e non, comprensivi degli interventi esterni (dal Sudafrica a Cuba) e degli interessi occidentali. Confinato nel suo albergo, spiega che “accaddero molte cose prima che la città venisse definitivamente chiusa e condannata a morte”. Fiorisce un mercato di casse di legno per spedire suppellettili e vettovaglie, gli sforzi per trovare l’acqua, il cibo e l’alcol si moltiplicano ogni giorno, usare una linea telefonica è un’impresa anche perché, come dice Ryszard Kapuściński “ci troviamo in un mondo immobile, che trattiene il fiato”. Già allora è un inviato che vive la tensione della guerra senza l’adrenalina e le mistificazioni che adornano le gesta belliche. Il suo è un racconto colmo di umanità per chi deve affrontare e sopportare le privazioni, le crudeltà, le fatiche, i silenzi, dato che “ognuno se la sbrigava per conto suo, facendo affidamento solo sulle proprie forze”. Descrive quei momenti febbrili e pericolosi con rara intensità, osservando molto da vicino, lasciando sovrapporre le voci, indistinte nel suo reportage, rischiando ogni giorno, ma restando sempre lucido e attento agli sviluppi geopolitici. Riassume la sua personale condizione così: “La mia vita scorreva da un avvenimento all’altro, tesa in modo imprecisato verso una meta ignota. Sapevo solo che volevo restare lì fino alla fine, indipendentemente da quando fosse arrivata da quale sarebbe stata. Tutta quella situazione era un enigma che mi attraeva e affascinava”. Mantenendo fede al suo mandato, Kapuściński vuole affrontare la prima linea, ma i combattimenti sono sparpagliati attorno alle sorgenti d’acqua e frazionati in dozzine di entità, tribali e internazionali, al punto che “ogni reparto è un fronte potenziale. Ogni volta che un nostro reparto si scontra con un reparto nemico, i due fronti potenziali si trasformano in fronti reali e scoppia la battaglia. In questo momento noi siamo un potenziale fronte di tre uomini, diretto al nord. Se cadiamo in un’imboscata, diventiamo un fronte reale. È una guerra di imboscate. Su ogni strada, in ogni posto può esserci un fronte. Si può fare il giro del paese e tornare indietro sani e salvi, come si può morire al primo metro di strada. Non ci sono princìpi né metodi, tutto dipende dalla fortuna e dal caso. Questa guerra è un vero casino, non si capisce un accidente”. I cadaveri lungo la strada, i posti di blocco regolati da procedure variabili con il clima e l’umore, il sacrificio della sua scorta, Carlotta, rendono Kapuściński partecipe della dissoluzione di una nazione, che scompare in un’orgia di violenza: “Ognuno voleva indicare con il dito il punto in cui, a suo avviso, si trovava il fronte, spiegare in mano di chi fosse una data città, a chi appartenesse questa o quella strada. Non c’erano due persone che vedessero la situazione allo stesso modo. Dopo alcuni giorni, le centinaia di dita strusciate sulla mappa ne aveva cancellato città, fiumi e strade: il paese sembrava il frammento di un grigio, spoglio pianeta, privo di uomini e di natura”. Ed è così che anche per un indomito veterano come lui viene l’ora di partire, lasciando Luanda e l’Angola al loro destino e ammettendo che “il mondo contempla il grande spettacolo di lotta e di morte che, oltretutto, non riesce assolutamente a immaginare, poiché il volto della guerra non è comunicabile. Né con la penna, né a voce, né con la macchina da presa. La guerra è una realtà solo per chi sta conficcato tra le sue sporche, disgustose e sanguinolente interiora”. Amaro, toccante, firmato con la classe di un reporter insuperabile.
martedì 29 ottobre 2024
Wang Xiaobo
C’è stato un tempo, in Cina, in cui “le regole fondamentali erano: mai rifiutarsi di eseguire gli ordini e mai lamentarsi, nemmeno delle cose più insopportabili”. Non che sia cambiato un granché, ma la rocambolesca biografia di Wang Er attraversa la seconda metà del ventesimo secolo con la traiettoria di una bizzarra meteora. Wang Xiaobo riesce a decifrarla con grande ironia e anche con un bel coraggio nel sottolineare le astruse norme e l’atmosfera generale durante la Grande Rivoluzione Culturale quando “dappertutto c’erano altoparlanti che blateravano senza sosta, giorno e notte” e c’era una confusione sulle priorità perché “subordinare i principi secondari a quelli fondamentali significava non avere principi, subordinare i problemi piccoli a quelli più grandi equivaleva a confondere i termini della questione”. Quelli che vengono rievocati durante L’età dell’oro (nella traduzione di Alessandra Pezza e con la cura di Patrizia Liberati), “erano anche tempi in cui c’era un mucchio di carta straccia, e i ragazzini giravano a raccoglierla con dei carretti che si erano costruiti da soli, slittando per le strade che era una meraviglia. C’erano un sacco di pazzi lasciati a briglia sciolta che diventavano oggetto di ammirazione”, e forse in cima all’elenco va annoverato proprio Wang Er. È un outsider, e non tanto per questioni politiche, quanto per motivi caratteriali: non riesce a trovare una collocazione perché insegue il sesso come modulo di espressione, non asseconda i grandi passi in avanti né la dialettica del partito, le imposizioni della burocrazia o “il sostegno delle masse” convinto che “la vita è breve, e anch’io, come tutti, me la faccio andare bene così com’è”. Wang Er è un personaggio epocale, che sopporta punizioni e privazioni senza battere ciglio, ha un modus vivendi articolato attorno alle sue erezioni e un’indolenza non proprio patriottica, che ammette con grande candore quando dice che “i fili d’erba che crescono in primavera non hanno uno scopo. Lo stallone in calore che galoppa quando si alza il vento non ha uno scopo. L’erba cresce, lo stallone va in foia, ma non certo per noi. Questa è l’esistenza di per sé”. Le peripezie sentimentali ed erotiche coinvolgono una bella percentuale dell’altra metà del cielo: con Chen Qinyang, Campanellina ed Erniuz, la moglie che è un’atleta judoka, si rende protagonista di “una serie di spettacoli per cui due occhi non erano abbastanza” e che Wang Xiaobo mette in rilievo senza risparmiarsi, strappando spesso un sorriso, ma anche con un particolare spunto filosofico quando lo descrive così: “Se Cartesio fosse stato Wang Er, non avrebbe cogitato. Se Don Chisciotte fosse stato Wang Er, non avrebbe combattuto contro i mulini a vento. Se anche fosse arrivato a Rodi, come l’atleta spaccone di Esopo, Wang Er non avrebbe fatto nessun salto. Perché Wang Er non esiste. E non soltanto Wang Er, la maggior parte delle persone non esiste, e qui sta il nocciolo del problema”. Tra distruzione e costruzione, riforme e censure, “scorrono gli anni come acqua, e in un batter d’occhio sono giunto all’età delle certezze” ammette Wang Er, mai piegato o sconfitto, un individuo singolare ed eccentrico, che nasconde tutta una poetica in un paese in preda alla follia della razionalità, o qualcosa del genere. Ed è così poi che, se “i fatti dimostrano che la società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque”, con le storie del signor He e di Akimoto Kandu, del signor Li e di Filetto, il tono agrodolce di Wang Xiaobo ci ricorda che “come una luna in cielo illumina il mondo senza distinzioni, così i mesi e gli anni scorrono per tutti, ma ognuno se li vive a modo suo” e Wang Er è ancora lì, pallido e assalito dai ricordi, ma ancora in piedi. Tanto basta, poi è vero che “nella vita si viaggia da soli, e per passare il tempo serve un buon libro” e L’età dell’oro è più che un ottimo candidato, perché di compagnia da scoprire e condividere, a partire dall’ineffabile Wang Er, ne offre un bel po’.
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