lunedì 28 luglio 2025

Reinhard Kaiser-Mühlecker

Jakob è un uomo senza particolari qualità che vive e lavora in una fattoria nelle pianure austriache. Sullo sfondo, il rombo dell’autostrada come un acufene insistente e fastidioso e assillante a definire i limiti geografici di Bracconieri e quelli esistenziali di Jakob: mangia pochissimo, coltiva da tempo intenzioni suicide e l’incapacità di costruire relazioni solide e durature, nonché le incongruenze nei rapporti famigliari lo costringono in una prigione mentale che non concede alternative possibili. La descrizione iniziale di Reinhard Kaiser-Mühlecker è precisa e completa nella sua analisi: “Era così attaccato alle sue abitudini e alle sue aspettative che, come uno che si aggrappa alla sua malattia perché si è trasformata nella sua identità, nella sua seconda pelle, nel suo scudo protettivo, non voleva rinunciarvi”. Il pregio maggiore è l’applicazione al lavoro nei campi: riesce dove il padre, una figura assente e ingombrante nello stesso tempo, ha fallito ed è portato ad assecondare i cicli della natura e del clima condividendo i silenzi e i ritmi bucolici con una varietà di animali. A parte piccoli inconvenienti, e qualche segreto ben nascosto, è un tran tran placido fino all’arrivo di Katja che diventa presto sua moglie e madre di Marlon. La sua presenza illumina una catena di figure femminili che, dalla nonna alla madre fino all’insopportabile sorella Luisa, che determina i mutamenti principali nello scorrimento di Bracconieri. C’è una tensione costante e acuta che potrebbe essere un lungo preludio a qualcosa di drammatico e invece grazie alle intercessioni di Katja, Jakob viene addirittura premiato come imprenditore dell’anno, con tanto di sindaco, autorità e celebrazioni assortite. Quel momento pubblico all’interno di un’area molto privata, se non esclusiva, è un punto di non ritorno per Jakob che “aveva capito che non poteva comunicare le sue sensazioni, e che non doveva nemmeno farlo, se voleva tenersele”. Da lì in poi lo ritroviamo completamente assorto nei suoi pensieri che contengono “ore di retrospettive, di riassunti, di bilanci: lo divennero naturalmente, per via di quel riconoscimento inaspettato, di quell’evento inatteso, che fu una cesura nel tempo che altrimenti sarebbe trascorso con indifferenza e il più delle volte inosservato”. I riflessi autobiografici di Reinhard Kaiser-Mühlecker si condensano nella gestione dell’azienda agricola, poi la sua scrittura lineare, senza una virgola fuori posto (resa alla perfezione nella traduzione di Alessandra Iadicicco) condensa lo spettro lessicale di Jakob che, in effetti, è un circuito chiuso dove domina “un linguaggio in cui si poteva dire tutto, in cui tutto veniva detto perfino, in un mondo che altrimenti non esisteva da nessuna parte e cui lui solo aveva accesso e che nel corso degli anni per lui era sempre più diventato un rifugio”. La deflagrazione dei rapporti è solo una questione di tempo, ma non ci sono particolari colpi di scena (a parte i poveri cani, Landa e Axel) o exploit di sorta. Senza svelare nulla di sorprendente, Jakob è solo all’inizio e lo sarà alla fine in compagnia di “vecchi pensieri. Pensieri pensati spesso. Pensieri morti” e, naturalmente, “ricordi” ormai inutili e l’originalità di Bracconieri è nell’ipnotica riproposizione di uno schema perché se “a Jakob tutto appariva come in un brutto sogno, un incubo che non aveva mai fatto”, al lettore arriva come una puntualissima fotografia della solitudine e dell’incomunicabilità in un mondo avvolto in un brusio di parole in gran parte inutili.

venerdì 25 luglio 2025

James Pettifer

James Pettifer è un accademico britannico che ha dedicato la carriera agli studi balcanici ed ellenici, credenziali tutto sommato abbastanza incoerenti rispetto al New Jersey e a Springsteen e più ci si addentra nella lettura e più diventa evidente l’attrito tra la specializzazione e il suo nuovo obiettivo sull’altra costa dell’Atlantico. Poi è verissimo che “l’America possiede ancora la magia di rendere nuove le persone e le cose”, però si comincia con un bell’abbaglio, ovvero il racconto di Springsteen che va a trovare Woody Guthrie, ed è chiaro che c’è un po’ di confusione con le gesta di un altro ragazzo di belle speranze. Capita, per carità, perché Pettifer ci avvisa che “c’è sempre qualcosa di strano che ci distrae in New Jersey”, e non è tanto quello il problema, piuttosto il tentativo di tenere insieme un diario di viaggio, l’analisi sociologica e antropologica di una regione e Bruce Springsteen: un puzzle macchinoso che spesso e volentieri diventa sfuggente. Con la convinzione che “i luoghi sono importanti per la musica popolare americana”, e fin qui ci siamo, James Pettifer esplora tutte le contee e le aree del New Jersey, da Asbury Park a Flemington (la città natale di Danny Federici), dall’università di Princeton a Atlantic City e si spinge fino a Pittsburgh dove riesce nell’intento di elencare tutte le frequentazioni musicali e nello stesso tempo nell’impresa di non citare Joe Grushecky, che magari conosciamo in pochi, ma che di sicuro ha un valore specifico per la città e per Springsteen. Le sue dissertazioni comprendono il gioco d’azzardo e la passione americana per i numeri, la mafia reale e quella della fiction, ovvero I Soprano, William Carlos Williams, Walter Pater e William Burroughs, la guerra di indipendenza, i naufragi sulla costa e la speculazione edilizia nell’entroterra. La storia avanza a singhiozzo e molto dipende dal tono di James Pettifer che resta indeciso tra lo sfoggio erudito del professore (e si capisce), l’ironia a tutti i costi dell’inglese in America, e non sempre cade al posto giusto, e l’intenzione di arrivare ad altre destinazioni. Leggete uno qualsiasi degli ultimi romanzi di Richard Ford e troverete tutto il New Jersey raccontato con maggiore precisione e con molta più grazia, ma in tutto ciò più si procede e meno è chiaro il ruolo di Springsteen che viene evocato nel florilegio eccessivo di digressioni e citazione classiche dalla caverna di Platone in poi. Magic è l’album di riferimento e gli altri richiami alla discografia ufficiale sono piuttosto casuali e, se da una parte Pettifer ci avvisa che “la poesia dei suoi versi viene dal profondo della vita del Jersey”, e d’accordo, dall’altra dice che raramente Springsteen è preciso nell’evocare i paesaggi. Un’opinione piuttosto discutibile, ma tutto sommato comprensibile. Quello che fa crescere qualche dubbio in più è la sensazione che il professor Pettifer sia un po’ a digiuno delle dinamiche del rock’n’roll che sembra conoscere solo attraverso l’applicazione di qualche luogo comune. Ecco come descrive un’idea generica di un concerto: “La gente salta e giù, si sbraccia in una frenesia incontrollabile. Ragazze si sfilano le mutandine e le lanciano sul palco con attaccato il numero del loro cellulare. Il gruppo suona un pezzo dopo l’altro”. Se capita per uno show qualsiasi, figurarsi per quello di Springsteen che è sempre un happening particolare. Eppure, anche in questo caso, la percezione riguarda piuttosto l’attesa, il prezzo dei biglietti, il pubblico in coda, poi non è chiaro nemmeno a lui cosa abbia visto o sentito, fino ad accorgersi che “la musica è oltre le parole” e qui non serve laurearsi in filosofia, basta ascoltare Radio Nowhere. Almeno Pettifer è onesto e lo ammette con un certo candore: “Partecipando al concerto ho sentito che stavo diventando complice di qualcosa che non ero sicuro di capire”. È proprio come direbbe il prediletto e citatissimo Platone: “Così ora l’amato è innamorato, ma non sa dire di che cosa”. Tutte le altre elucubrazioni di passaggio sono troppe, e suonano inutilmente complicate, tant’è che in fondo il professore deve arrendersi all’evidenza e saluta l’America così: “Ci vediamo ad Atlantic City, dice la canzone, vieni nel New Jersey, esplora, viaggia. Sii vivo in un modo unico, come Bruce Springsteen e la E Street Band ti ispirano a essere con la loro musica (qualsiasi cosa il sistema ti tiri addosso)”. Ci vuole un bel po’, ma alla fine ci è arrivato anche lui.

venerdì 18 luglio 2025

Hervé Muller

Quello di Hervé Muller è stato uno dei primi tentativi di esplorare la figura di Jim Morrison cercando di sottolinearne la complessità e provando a evitare i cliché legati alle movenze e agli aspetti più epidermici della vita turbolenta in America e della morte a Parigi. È ammirevole, se non altro per la tempestività, l’intenzione di restituire a Jim Morrison un contorno un po’ più acuto, ripercorrendo le densissime influenze letterarie, a partire, giusto per esempio, dal connubio con Rimbaud, come poi avrebbe sviluppato più a fondo Wallace Fowlie. Molto interessante anche il parallelo a distanza tra i Velvet Underground a New York e i Doors a Los Angeles, che approfondisce il legame con le rispettive città e i distinti ruoli di Lou Reed e Jim Morrison. Hervé Muller dedica (giustamente) tutto lo spazio necessario anche agli altri membri, John Densmore, Ray Manzarek e Robby Krieger, ma l’immagine dei Doors coincide con quella di Jim Morrison e, album dopo album e concerto dopo concerto, diventa un’ombra sempre più pesante. Le dinamiche di una rock’n’roll band possono diventare opprimenti, in particolare se uno si sente un poeta o uno scrittore tout court. È un attrito che, insieme alle sue pesanti condizioni personali, ha contribuito non poco a spingere Jim Morrison verso l’Europa. Il “cantante dei Doors” non voleva restare imprigionato nell’eclatante personaggio “politico erotico” che andava in scena ogni sera sul palco e ambiva a un altro riconoscimento che non lo confinasse a interpretare all’infinito l’identità fallace della rock’n’roll star dissoluta e disperata. Il proposito di sviluppare qualcosa di più e di diverso dai Doors, puntando verso opere poetiche e visive di un’altra dimensione era impellente, come annunciava Jim Morrison: “Se la mia poesia avesse un’ambizione, sarebbe quella di liberare le persone dai limiti del loro modo di vedere e sentire”. Il condizionale era già un sintomo preoccupante: Hervé Muller riesce a collocare in modo adeguato quel passaggio tanto desiderato quanto incompiuto, a partire dalla suite The Celebration of the Lizard, come poi l’ha raccontata Lewis Shiner. L’occasione è propizia anche per riconoscere la natura stessa della sua espressione che Muller descrive così: “Nulla di ciò che Morrison ha scritto o cantato ha mai raggiunto una forma definitiva, statica. Le sue parole avevano vita propria, inseparabile da quella del loro autore: seguivano un ritmo incostante e frenetico, subendo la stessa ricerca nomade e incessante”. Non c’è molto da dire degli “strani giorni a Parigi”, che videro Hervé Muller testimone diretto: tra la ricerca dell’anonimato, la solitudine, le illusioni sul futuro e lo scorrere senza fine dell’alcol, il tramonto di Jim Morrison è visto come un film in bianco e nero accelerato e palpitante. Sono la cronaca di un collasso annunciato ed è inevitabile notare il crollo, un momento dopo l’altro, a Parigi che doveva essere un rifugio, o almeno la tappa di un nuovo inizio, e invece diventa un cul de sac, una trappola. L’elaborazione del finale resta incompleta, anche se in parte ha il pregio di assecondare la documentazione ufficiale e di evitare dietrologie pur notando che “forse il mito di Morrison non avrebbe acquisito una tale importanza se vari fattori non avessero contribuito ad avvolgere nel mistero le circostanze della sua morte”. I fantasmi nei vicoli parigini, il ruolo confuso di Pamela Courson, la rapidità delle esequie lasciano intatti i dubbi. È una cronaca che risale al 1973, in pratica in tempo reale, e come è logico, molti dettagli sono ancora sfuocati, e verranno ripercorsi in seguito da analisi più ampie e puntigliose. Inquadrandoli nel momento storico, gli Ultimi giorni a Parigi sono appunti validissimi che ripercorrono la storia di Jim Morrison, anche se poi nello specifico delle ore fatali non aggiungono molto di più. Definire l’uomo e l’artista è comunque complicato, ancora di più nel caso di Jim Morrison che conteneva grumi di una personalità caotica e irrisolta che forse seguiva la massima di William Blake: “Il folle che persiste nella sua follia diventa saggio”. Non ne ha avuto il tempo, la fine della notte è arrivata troppo presto.

venerdì 9 maggio 2025

Julia Deck

Se viene meno il “diritto alla città” come lo immaginava Henri Lefebvre, non resta che spostarsi nello “spazio indefinito” delle realtà suburbane dove un simulacro del senso di comunità può proliferare tra barbecue, mercatini dell’usato e aperitivi. È la scelta di Charles Caradec ed Éva che, lavorando “nel settore dell’urbanistica” è ben consapevole dei limiti e delle possibilità del trasloco dal centro di Parigi verso un nuovo quartiere periferico. Julia Deck glielo fa dichiarare senza esitazioni: “Credevo nell’espansione della città fuori dai suoi confini ed ero convinta che le zone verdeggianti meno densamente popolate potessero garantire a tutti un maggiore benessere. Ci saremmo allontanati dal rumore, dall’inquinamento. Nel nostro giardino avremmo potuto respirare l’aria a pieni polmoni senza alcun timore”. Questo il progetto di Proprietà privata che (nell’accurata traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) racconta uno o più fallimenti perché le regole dell’architettura e delle pianificazioni territoriali non sempre coincidono con quelle della convivenza. Anche se l’opzione di Charles Caradec ed Éva all’inizio, è abbastanza semplice: “Cercavamo di considerare le cose nella giusta prospettiva. Forse, col passar del tempo, saremmo riusciti a mettere radici in questo posto”. Si ritrovano circondati da famiglie: i Lecoq di Annabelle e Arnaud, poi i Taupin, i Lemoine, i Benani, i Bohat e e i Durand-Dubreuil e in un attimo si ricordano che gli altri sono l’inferno. Mentre Éva, per una paradossale legge del contrappasso, deve reinventare la storica Place des Fêtes, e pare già sviluppare un embrione di nostalgia per Parigi che “era troppo grande, non ci si imbatteva nelle persone per caso”, la Proprietà privata è minacciata dall’ingerenza dei vicini. L’alterazione è progressiva: scenate e silenzi si sovrappongono e si alternano e così riemergono i problemi del disturbo “ossessivo-compulsivo” di Charles. L’insediamento stesso che è “moderno ed etico” e avvolto nelle parole d’ordine dell’ecologia prêt-à-porter, sostenibilità su tutte, si dimostra una gabbia come tante dove impazzano noia e crudeltà, due bestie che vivono in simbiosi. Questo è il contesto in cui si sviluppano le nevrosi di Proprietà privata, poi Julia Deck si diverte a infierire sui personaggi, come se ogni lottizzazione contenesse un destino amaro più o meno deciso all’origine. A quel punto Éva e Charles hanno già complottato di uccidere un bel gattone che scorrazza da un giardino all’altro. Se i loro propositi truculenti restano una congettura, qualcun altro ha provvede a massacrare l’innocente felino. Da quel momento in poi, precipita tutto, come nota la stessa Éva: “La morte del gatto ha messo fine agli aperitivi. Ci dicevamo buongiorno e buonasera, ma nessuno faceva più lo sforzo di invitare gli altri a casa sua”. La tensione, maturata in una realtà ballardiana in sedicesimi, esplode in tanti piccoli disastri quotidiani e altrettante paranoie, sottoprodotti di uno “sradicamento totale e definitivo”. La periferia non è l’Eden e nella dimensione narrata da Julia Deck emergono le fibrillazioni di un processo di disgregazione che vede senza dubbio Éva nell’epicentro, ma che coinvolge tutta l’area residenziale, a partire da Annabelle (che scompare con il figlio). Il dettaglio sostanzioso di Proprietà privata è all’interno di una scelta inusuale: Éva è la narratrice che si rivolge a Charles delimitando così una zona intima e intangibile, una cellula refrattaria di un organismo più complesso e ancora in fase di definizione. Il risultato, ovvero il tono e lo stile che si accorda alla scrittura limpida e tagliente di Julia Deck, non concede nulla. Come diceva sua maestà Le Corbusier “nessuno può disporre del domani”, gli eventi incalzano Éva e Charles ed è difficile distinguere il senso di un habitat frutto di pianificazioni, regolamenti, prospetti, proiezioni e concessioni che sovrastano la Proprietà privata. Qualcuno deve aver sbagliato nel calcolare l’impatto ambientale e quello che succede (sparisce anche un cane, tra l’altro) lascia spazio soltanto ai luoghi comuni: la gente resta sulla soglia a fissare la strada e, sì, anche Éva e Charles salutavano sempre.