Difficile condensare il pensiero di Edgar Morin nell’esiguo spazio di un click digitale. La sfida, per uno capace di articolare le proprie valutazioni in modo ampio e completo, era abbastanza impervia. Eppure, persino un’età veneranda in cui certe prove si possono eludere, Edgar Morin ha scelto di accettare anche solo per capire l’utilizzo di strumenti correnti, tra l’altro ammettendo che “tutte le svolte che ho imboccato nella vita erano altamente improbabili”. Il risultato è una serie di aforismi che spaziano tra temi diversi e spesso distanti tra loro, ma affrontati sempre con chiarezza e con una predisposizione molto umile dettata dal fatto che “conoscere e pensare non è attingere una verità assoluta: è dialogare con l’incertezza”. Il dubbio, secondo Edgar Morin, è una condizione permanente e lo persegue eleggendolo a obiettivo principale che permea tutti gli aforismi, del resto “quando le domande trovano risposta prendono forma nuovi enigmi o nuovi misteri. Gli uni ammettono una soluzione, gli altri no”. La sua attenzione è rivolta alla storia che è fatta “di emergenze, crolli, stasi e cataclismi, biforcazioni, turbolenze ed eventi inattesi” e che “innova, traligna, vacilla. Cambia binario, sbaglia direzione. È fatta di correnti e controcorrenti”, ma è anche “una sequela di inganni e illusioni. La menzogna e l’errore sono più comuni della verità”. I frammenti sono correlati da una distinta comprensione della realtà che “obbedisce di rado ai nostri auspici, e meno che mai alle nostre decisioni” e dalla consapevolezza di “quante verità ufficiali e quante certezze assolute, con il passare del tempo, si sono ridotte a errori e illusioni”. Secondo Edgar Morin la stessa cognizione di cultura è deformata mentre “viviamo nell’illusione di un progresso quantitativo della conoscenza per accrescimento lineare delle informazioni. Ma in termini qualitativi la conoscenza regredisce, perché stentiamo a collegare quelle informazioni”. Tra l’incubo ricorrente e purtroppo sempre attuale della violenza e delle armi (“La guerra mette la ragione al servizio della follia”) e l’urgenza di immaginare un’altra dimensione vitale (La bellezza non è mai superflua”) Edgar Morin ci ricorda che “Nutriamo gli anticorpi sociali e culturali che portiamo in noi: amicizia, solidarietà, fraternità, comunione, amore, i capolavori della poesia, della letteratura, della musica, della pittura, del cinema”. Di tutti questi Edgar Morin si premura di precisare che “solo la letteratura ci mostra l’essere umano nella sua soggettività, nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nei suoi rapporti con il prossimo, nel suo contesto sociologico, storico e sociale. La letteratura non è solo un’arte, è anche una modalità conoscitiva”, per poi offrire un’ulteriore distinzione: “Senza la prosa non si dà la poesia, come non può darsi la gioia senza la sofferenza”. Coltivare il sapere resta il leitmotiv di questi “semi”, però è soltanto l’inizio (“Una teoria non è conoscenza, ma rende possibile la conoscenza. Una teoria non è un punto di approdo: è la possibilità di una partenza”) di un “metodo” molto più articolato (“La mente complessa ha un’altra percezione del mondo: non vede più un mondo di oggetti irrelati, ma un mondo fatto di interconnessioni, interazioni, retroazioni”). In effetti, nell’avviso finale di Edgar Morin ricorda che “l’atteggiamento di chi spera si fonda sulle possibilità ancora inespresse del genere umano, è una scommessa sull’improbabile. Non è più la speranza escatologica dello scontro finale. È la speranza coraggiosa della lotta che inizia”. Le parole, poche o tante che siano, servono solo a ricordarci che “ciascuno di noi porta in sé il segreto del mondo e nessuno sa quale sia”. Da tenere a portata di mano, il futuro incombe.
venerdì 3 ottobre 2025
giovedì 2 ottobre 2025
Ryszard Kapuściński
Risalta una frase tra i quattro interventi raccolti in questo piccolo libro. Riguardano tutti L’altro e Ryszard Kapuściński li espone nella cruciale zona d’ombra tra la fine del ventesimo secolo e l’inizio del successivo in occasioni pubbliche a Vienna, Graz e Cracovia. I tragitti mitteleuropei, che per Kapuściński è come sentirsi a casa, lo spingono a riflettere sulle affinità elettive dell’incontro, primo e indispensabile stadio per raggiungere L’altro, e, a scanso di equivoci, chiarisce subito che “siamo responsabili della strada che percorriamo”. È una precisazione che lo riguarda in prima persona: da reporter ha attraversato nazioni dopo nazioni in ogni continente e l’esperienza coltivata insieme alla “curiosità per il mondo” lo porta a formulare un preciso impegno, preliminare ineludibile su cui ragionare prima di qualsiasi movimento: “Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo a un evento di cui siamo nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa”. È una considerazione che Kapuściński traduce dall’esperienza personale sul campo a quella strettamente letteraria. Da Erodoto, il primo a riconoscere “l’altro” al suo riconoscimento nelle indefinite proiezioni del “villaggio globale”, Kapuściński si inoltra nei territori dove la diversità si esprime in forme mutevoli con le ricchezze e le contraddizioni che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Con la consueta lucidità e con grande equilibrio, Kapuściński sa districarsi tra le diverse voci, assumendo anche posizioni discordanti, come succede rispetto allo stesso Marshall McLuhan. La discontinuità stessa dei termini della globalizzazione, in virtù dell’evoluzione dei mezzi di trasporto e delle reti digitali riconduce a un paragone senz’altro più realistico rispetto all’originale locuzione di McLuhan che Kapuściński non manca di far notare: “L’essenza del villaggio consiste nel fatto che i suoi abitanti si conoscono intimamente, si frequentano e condividono un destino comune. Cosa impossibile da dirsi nella società del nostro pianeta, che fa piuttosto pensare alla folla anonima di un grande aeroporto: una folla di persone frettolose, sconosciute tra loro e perfettamente indifferenti le une alle altre”. L’empatia per L’altro è solo un primo, fragile passo e per riconoscerne l’identità è indispensabile alimentare estensioni culturali che sappiano andare oltre il contatto spontaneo tra gli individui. L’altro, ovunque lo si collochi, è una rifrazione ed è la metà complementare di un’unità dinamica, i cui lavori in corso non si fermano mai. Ignorare quest’ordine, con un’accezione distorta delle differenze, porta soltanto alle divisioni, ai muri, alla perpetrarsi dei conflitti, ma questa è storia e cronaca che purtroppo conosciamo bene. Nella visione di Kapuściński L’altro è costituito con maggiori margini di certezza e nelle sue generose prolusioni attinge piuttosto al pensiero filosofico di Martin Buber, Ferdinand Ebner, Gabriel Marcel ed Emmanuel Lévinas che raduna uno dopo l’altro, tutti insieme, nel confezionare “l’idea dell’altro in quanto essere unico e irripetibile”. L’altro è una constatazione che traccia una linea precisa, una congiunzione netta che, soprattutto di questi tempi, è più necessaria che mai.
domenica 28 settembre 2025
Robert Macfarlane
La domanda espressa dal titolo non solo è legittima, ma apre molti scenari importanti, che riguardano l’ambiente, la natura, la vita stessa. La risposta arriva subito, già nella presentazione di Robert Macfarlane quando dice che “è un viaggio attraverso un’idea che trasforma il mondo: l’idea che i fiumi siano vivi”. Non è una formula simbolica: il processo implicito a questo riconoscimento comprende forme di tutela che vanno dall’osservazione quotidiana fino allo sviluppo di un vero e proprio status legale. Robert Macfarlane si immerge (e non solo per via metaforica) nei fiumi, cercando di percepirne lo spirito vitale. Seguire la corrente nelle altitudini dell’Ecuador, senza piste e con l’ossigeno rarefatto, o attraversare l’atmosfera malata in India o immergersi nelle rapide in Canada comporta rischi, fatiche e pericoli che affronta di volta in volta senza perdere di vista il senso generale delle sue esplorazioni. Il coraggio, insieme alla curiosità, non gli manca e i suoi percorsi sono molto vicini alla terra e alle essenze che racconta con stupore e meraviglia inalterati. I reportage sono dettagliati e ricchi di riscontri emotivi e di scambi con gli ospiti e i compagni di viaggio. In una prima tappa in Ecuador, dove la foresta è minacciata dall’attività estrattiva, scopre una rete sotterranea di comunicazioni tra i funghi, un dettaglio da ricordare, nella considerazione complessiva degli esseri viventi con cui dobbiamo coabitare. In India, la devastazione ambientale ha ormai proporzioni apocalittiche perché le fabbriche chimiche e le centrali elettriche hanno reso irrespirabile l’aria e hanno cancellato i fiumi. La situazione è compromessa, ma Robert Macfarlane scopre un gruppo di attivisti che si prodigano per salvare l’esistenza delle tartarughe. In Canada, si avventura in una spedizione in kajak proprio dentro il fiume, circondato da una bellezza magica minacciata dalla continua costruzione delle dighe. È in quel momento che si entra nel flusso centrale di È vivo un fiume? e diventa protagonista l’acqua, l’elemento vitale per eccellenza. Alla passione delle descrizioni, si aggiunge un motivo ricorrente e pertinente che è anche la spina dorsale dei racconti di Robert Macfarlane. Intanto, si premura di precisare che “un fiume non è una persona, né una persona può essere un fiume. Ci sfuggiamo l’un l’altro in modi diversi”. È una distinzione fondamentale, per poter perseguire il proposito di riconoscere il fiume come “persona giuridica con il diritto di vivere”. L’idea di attribuire ai fiumi una consistenza riconosciuta dal diritto è qualcosa in più di un tentativo di salvaguardia ecologica, che pure non è rimandabile. Si tratta, come viene ribadito più e più volte, di prendere atto dell’esistenza di esseri “più-che-umani” e che la necessità, ormai impellente, di ritrovare una convivenza più attenta deve essere lo spunto, la scintilla per un altro modo di coabitare il pianeta dove ormai “la speranza è quella cosa fiumata”. Quello di Robert Macfarlane non è soltanto il tentativo di dare un voce alla natura, sia che si tratti di un grido di dolore e/o di un’ode all’armonia. Il fiume non deve diventare umano. Il responso all’interrogativo sottinteso da È vivo un fiume? (comprese le molteplici citazioni letterarie, da Ursula K. Le Guin ad Alexis Wright) è che deve crescere la sensibilità verso la pluralità degli esseri viventi. E non si tratta soltanto di trovare forme di protezione allo sfruttamento insensato che divora e distrugge tutto, ma anche di formulare nuove forme di pensiero, e altri spazi per l’immaginazione.
martedì 23 settembre 2025
Frode Grytten
All’inizio, quando Il giorno in cui Nils Vik morì è appena illuminato dall’alba, c’è già un piccola sorpresa, Luna, un cane con il dono della parola, ed è già un particolare molto allettante. Solo che è morta, e non è l’unica. Il titolo, impietoso e sibillino, lascia intuire che anche per Nils Vik è arrivato il momento del crepuscolo, dopo una vita passata da una sponda all’altra di un fiordo norvegese. È un “traghettatore esperto” che si è messo al timone ancora ragazzo e “aveva imparato a leggere l’acqua, il vento, le nuvole e il cielo”. Somiglia molto a Caronte e, anche se è più più gentile e paziente, i suoi viaggi non sono meno impegnativi. Nils Vik “era un uomo che navigava sul fiordo, un esploratore, ma la sua geografia era limitata”, però da quella particolare posizione riesce a trovare una condizione ideale che Frode Grytten descrive così: “E quando si è a bordo di una barca si può osservare come cambia il tempo da grandi distanze, e non serve ascoltare il bollettino meteorologico o leggere il giornale, basta soltanto notare come si comporta l’acqua del fiordo o come l’aria si raddensa, oppure il modo in cui gli uccelli si muovono in cielo”. Con la moglie Marta in cima alla lista, Nils Vik evoca un’ininterrotta danza di fantasmi e Frode Grytten condensa tutto in brevi capitoli di poche pagine, con una scrittura accurata e rifinita con cura artigianale e senza alcune pretenziosità letteraria. Le apparizioni sono composte dai passeggeri che ha ospitato nella navigazione, ognuno con le sue caratteristiche e i suoi trascorsi, a partire dalle donne che “sono speciali, belle come betulle”, ma ormai sono tutte ombre che emergono soltanto nel suo ricordo. Ogni passaggio tra le rive è anche un segmento di storia e di memoria: si assecondano Robert Soth, un fotografo americano, Lilly Gloppen, che eserciterà il diritto di andarsene, Jon Anderson, il ragazzo/a con la chitarra, Jens Hauge, Ingrid Alst Altstædter e Kari Aga che lascerà un bel falò. Dietro ogni nome c’èqualcuno che attraversa la vita di Nils Vik: lui osserva dalla cabina della sua barca i piccoli e grandi sommovimenti e si lascia ondeggiare finché ogni singola storia diventava “un’altra, o semplicemente si dissolveva”. Gli spettri si susseguono con un ritmo assiduo e sincopato, la compagnia si allarga a femme fatale e preti, delinquenti e distratti, mentre la vita prosegue: le figlie se ne vanno, sul fiordo viene costruito un ponte che rende obsoleta la navigazione dei traghetti, i volti dei natanti si alternano sulla barca intitolata (come è giusto che sia) alla moglie, tutto scorre sul una superficie livida e tenebrosa. Ogni paragrafo è una fotografia in bianco e nero, le descrizioni del fiordo e dei suoi colori metallici sono momenti struggenti, ma le poche coordinate che segue Nils Vik toccano le variabili dell’amore, o della sua mancanza, raccontate con un garbo e una misura che sono ormai rari. Bellissimo, a tratti commovente, spesso aspro e sanguigno, Il giorno in cui Nils Vik morì (nella puntuale traduzione di Andrea Romanzi) è una ghost story rivelatrice di gioie e malinconie, e si articola in un paesaggio che “a volte è un mondo meraviglioso”, più spesso è stretto nei confini angusti del fiordo e l’unica via d’uscita è il mare aperto dove tutto finisce in un’incognita nel nome di John Berger, James Brown, Sam Shepard, Hanif Kureishi, Michael Ondaatje e Mike Scott, uno che di mare se ne intende, che Frode Grytten elenca, tra gli altri, come ispiratori di quel “dialogo” da cui è nato Il giorno in cui Nils Vik morì.
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