martedì 19 novembre 2024

Sylvain Tesson

Dopo una rovinosa caduta, Sylvain Tesson si avvia a un pellegrinaggio per mantenere fede a una promessa, che diventa una scelta: i Sentieri neri si trasformano in vie di fuga. Alla partenza si tratta di una questione personale, come confida lo scrittore francese: “Riponevo nel movimento la mia speranza di salvezza”. Nell’inoltrarsi attraverso la Francia, dalla Provenza alla Normandia, scopre via via che “esisteva ancora tutta una geografia minore: bastava saper leggere le carte, non evitare le deviazioni e sapersi aprire un passaggio”. Sui Sentieri neri, Sylvain Tesson non si perde in meditazioni bucoliche, ma affronta i conflitti che attraversano la Francia passando da piste ormai dimenticate. Ne viene fuori un ritratto credibile, delineato da una scrittura ricca e agevole nello stesso tempo. Un ritratto di una nazione attraverso mappe 1:25.000, non sempre aggiornate, lo porta ad appuntarsi gli effetti degli sviluppi e dell’industrializzazione l’industrializzazione dell’agricoltura, la scomparsa dei villaggi e l’apparizione delle infrastrutture stradali e ferroviarie e il proliferare di anonimi paesaggi suburbani, fino a considerare che ormai “il pianeta serviva da palcoscenico alla circolazione degli uomini e delle merci”. È lì, da qualche parte nel Massiccio Centrale che Sylvain Tesson matura la convinzione che è meglio perdersi sui Sentieri neri o “insomma tenersi in disparte, o meglio sparire”. Una volontà perseguita non senza sforzi, perché il cammino è faticoso e non tutte le strade sono aperte, ma con la certezza di coltivare “un piacere di bassa intensità”. La scrittura quotidiana diventa lo strumento per riportare frammenti di memoria, dettagli di un rinnovato rapporto con la natura, gli animali e le piante nonché il senso della solitudine e dell’incontro. Se per gran parte del suo viaggio, Sylvain Tesson è solo con le sue ossa rotte, per un breve tratto viene affiancato da un altro viandante, Cédric Gras, abituato a trasferte ben più ardite nelle praterie siberiane. Oltre ai passaggi nei boschi e ai frugali pasti, i due condividono la passione per la cultura russa e le motivazioni che li spingono, dopo passo, in una direzione ben precisa. Se sulla mappa i Sentieri neri sono linee imprecise, nello sviluppo del cammino diventano un’opportunità che Sylvain Tesson rivendica con convinzione:   “Procedevamo leggeri senza pensare ad altro che a trovare la strada, intenti a godere di tutto ciò che si offriva allo sguardo: una pianta di nocciolo, il volo di uno svasso, un granaio di pietre a secco. Ci accontentavamo di quelle cose. Ci sottraevamo al dispositivo”. Arrivato nella penisola del Cotentin e davanti all’oceano diventa chiaro che i Sentieri neri hanno garantito “fughe, ripiegamenti, passi di lato, lunghe assenze punteggiate di silenzi e nutrite di visioni. Una strategia della ritrattazione”. Sfilando davanti a Mont Saint-Michel e inoltrandosi in un tragitto sulla spiaggia, effimero perché sottoposto agli umori delle maree e ancora più labile dei Sentieri neri, Sylvain Tesson firma una sorta di conclusione, a suo modo definitiva: “Il momento era suggestivo: un sentiero si perdeva nel nulla e ci rendeva felici perché non autorizzava a sperare in qualcosa ma si limitava a far scaturire i sogni”. È una bella gimkana, ma vale la pena provarci.

mercoledì 13 novembre 2024

Ryszard Kapuściński

La guerra è in arrivo, una città si dissolve nella paura, l’assedio concede soltanto una surreale tregua nel weekend, quando i rovesci del fronte si fermano. Nel 1975, Ryszard Kapuściński è a Luanda, capitale dell’Angola, testimone degli ultimi giorni del dominio portoghese e dell’inizio di decenni di guerra civile e non, comprensivi degli interventi esterni (dal Sudafrica a Cuba) e degli interessi occidentali. Confinato nel suo albergo, spiega che “accaddero molte cose prima che la città venisse definitivamente chiusa e condannata a morte”. Fiorisce un mercato di casse di legno per spedire suppellettili e vettovaglie, gli sforzi per trovare l’acqua, il cibo e l’alcol si moltiplicano ogni giorno, usare una linea telefonica è un’impresa anche perché, come dice Ryszard Kapuściński “ci troviamo in un mondo immobile, che trattiene il fiato”. Già allora è un inviato che vive la tensione della guerra senza l’adrenalina e le mistificazioni che adornano le gesta belliche. Il suo è un racconto colmo di umanità per chi deve affrontare e sopportare le privazioni, le crudeltà, le fatiche, i silenzi, dato che “ognuno se la sbrigava per conto suo, facendo affidamento solo sulle proprie forze”. Descrive quei momenti febbrili e pericolosi con rara intensità, osservando molto da vicino, lasciando sovrapporre le voci, indistinte nel suo reportage, rischiando ogni giorno, ma restando sempre lucido e attento agli sviluppi geopolitici. Riassume la sua personale condizione così: “La mia vita scorreva da un avvenimento all’altro, tesa in modo imprecisato verso una meta ignota. Sapevo solo che volevo restare lì fino alla fine, indipendentemente da quando fosse arrivata da quale sarebbe stata. Tutta quella situazione era un enigma che mi attraeva e affascinava”. Mantenendo fede al suo mandato, Kapuściński vuole affrontare la prima linea, ma i combattimenti sono sparpagliati attorno alle sorgenti d’acqua e frazionati in dozzine di entità, tribali e internazionali, al punto che “ogni reparto è un fronte potenziale. Ogni volta che un nostro reparto si scontra con un reparto nemico, i due fronti potenziali si trasformano in fronti reali e scoppia la battaglia. In questo momento noi siamo un potenziale fronte di tre uomini, diretto al nord. Se cadiamo in un’imboscata, diventiamo un fronte reale. È una guerra di imboscate. Su ogni strada, in ogni posto può esserci un fronte. Si può fare il giro del paese e tornare indietro sani e salvi, come si può morire al primo metro di strada. Non ci sono princìpi né metodi, tutto dipende dalla fortuna e dal caso. Questa guerra è un vero casino, non si capisce un accidente”. I cadaveri lungo la strada, i posti di blocco regolati da procedure variabili con il clima e l’umore, il sacrificio della sua scorta, Carlotta, rendono Kapuściński partecipe della dissoluzione di una nazione, che scompare in un’orgia di violenza: “Ognuno voleva indicare con il dito il punto in cui, a suo avviso, si trovava il fronte, spiegare in mano di chi fosse una data città, a chi appartenesse questa o quella strada. Non c’erano due persone che vedessero la situazione allo stesso modo. Dopo alcuni giorni, le centinaia di dita strusciate sulla mappa ne aveva cancellato città, fiumi e strade: il paese sembrava il frammento di un grigio, spoglio pianeta, privo di uomini e di natura”. Ed è così che anche per un indomito veterano come lui viene l’ora di partire, lasciando Luanda e l’Angola al loro destino e ammettendo che “il mondo contempla il grande spettacolo di lotta e di morte che, oltretutto, non riesce assolutamente a immaginare, poiché il volto della guerra non è comunicabile. Né con la penna, né a voce, né con la macchina da presa. La guerra è una realtà solo per chi sta conficcato tra le sue sporche, disgustose e sanguinolente interiora”. Amaro, toccante, firmato con la classe di un reporter insuperabile.

martedì 29 ottobre 2024

Wang Xiaobo

C’è stato un tempo, in Cina, in cui “le regole fondamentali erano: mai rifiutarsi di eseguire gli ordini e mai lamentarsi, nemmeno delle cose più insopportabili”. Non che sia cambiato un granché, ma la rocambolesca biografia di Wang Er attraversa la seconda metà del ventesimo secolo con la traiettoria di una bizzarra meteora. Wang Xiaobo riesce a decifrarla con grande ironia e anche con un bel coraggio nel sottolineare le astruse norme e l’atmosfera generale durante la Grande Rivoluzione Culturale quando “dappertutto c’erano altoparlanti che blateravano senza sosta, giorno e notte” e c’era una confusione sulle priorità perché “subordinare i principi secondari a quelli fondamentali significava non avere principi, subordinare i problemi piccoli a quelli più grandi equivaleva a confondere i termini della questione”. Quelli che vengono rievocati durante L’età dell’oro (nella traduzione di Alessandra Pezza e con la cura di Patrizia Liberati), “erano anche tempi in cui c’era un mucchio di carta straccia, e i ragazzini giravano a raccoglierla con dei carretti che si erano costruiti da soli, slittando per le strade che era una meraviglia. C’erano un sacco di pazzi lasciati a briglia sciolta che diventavano oggetto di ammirazione”, e forse in cima all’elenco va annoverato proprio Wang Er. È un outsider, e non tanto per questioni politiche, quanto per motivi caratteriali: non riesce a trovare una collocazione perché insegue il sesso come modulo di espressione, non asseconda i grandi passi in avanti né la dialettica del partito, le imposizioni della burocrazia o “il sostegno delle masse” convinto che “la vita è breve, e anch’io, come tutti, me la faccio andare bene così com’è”. Wang Er è un personaggio epocale, che sopporta punizioni e privazioni senza battere ciglio, ha un modus vivendi articolato attorno alle sue erezioni e un’indolenza non proprio patriottica, che ammette con grande candore quando dice che “i fili d’erba che crescono in primavera non hanno uno scopo. Lo stallone in calore che galoppa quando si alza il vento non ha uno scopo. L’erba cresce, lo stallone va in foia, ma non certo per noi. Questa è l’esistenza di per sé”. Le peripezie sentimentali ed erotiche coinvolgono una bella percentuale dell’altra metà del cielo: con Chen Qinyang, Campanellina ed Erniuz, la moglie che è un’atleta judoka, si rende protagonista di “una serie di spettacoli per cui due occhi non erano abbastanza” e che Wang Xiaobo mette in rilievo senza risparmiarsi, strappando spesso un sorriso, ma anche con un particolare spunto filosofico quando lo descrive così: “Se Cartesio fosse stato Wang Er, non avrebbe cogitato. Se Don Chisciotte fosse stato Wang Er, non avrebbe combattuto contro i mulini a vento. Se anche fosse arrivato a Rodi, come l’atleta spaccone di Esopo, Wang Er non avrebbe fatto nessun salto. Perché Wang Er non esiste. E non soltanto Wang Er, la maggior parte delle persone non esiste, e qui sta il nocciolo del problema”. Tra distruzione e costruzione, riforme e censure, “scorrono gli anni come acqua, e in un batter d’occhio sono giunto all’età delle certezze” ammette Wang Er, mai piegato o sconfitto, un individuo singolare ed eccentrico, che nasconde tutta una poetica in un paese in preda alla follia della razionalità, o qualcosa del genere. Ed è così poi che, se “i fatti dimostrano che la società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque”, con le storie del signor He e di Akimoto Kandu, del signor Li e di Filetto, il tono agrodolce di Wang Xiaobo ci ricorda che “come una luna in cielo illumina il mondo senza distinzioni, così i mesi e gli anni scorrono per tutti, ma ognuno se li vive a modo suo” e Wang Er è ancora lì, pallido e assalito dai ricordi, ma ancora in piedi. Tanto basta, poi è vero che “nella vita si viaggia da soli, e per passare il tempo serve un buon libro” e L’età dell’oro è più che un ottimo candidato, perché di compagnia da scoprire e condividere, a partire dall’ineffabile Wang Er, ne offre un bel po’.

giovedì 24 ottobre 2024

David Thomson

Generation Kill è una serie della HBO che segue le gesta dei marines nella guerra in Iraq ed è molto efficace nella ricerca linguistica e nel modello delle immagini, tanto da rappresentare quasi una versione aumentata della realtà. Sarebbe stato interessante conoscere il parere di David Thomson a proposito, perché La fatale alleanza è un libro davvero scrupoloso che si addentra con grande coraggio e generosità nell’indagare “un secolo di guerre al cinema”. Un argomento difficile da seguire, spinoso, complesso e con cui confrontarsi perché “c’è qualcosa di naturale nella guerra. O che va oltre la ragione”, ed è qualcosa di cui ci sfugge ancora il senso, nonostante occupi il nostro immaginario. Non è soltanto il cinema, anche se dipendiamo da “un golpe cinematografico del combattimento” come lo chiama David Thomson, al punto che ormai “non possiamo fidarci al cento per cento di ciò che vediamo, perché la raffinatezza del cinema ha umiliato e ingannato le nostre tragedie”. Per arrivare a una conclusione così, è necessaria lunga dissertazione sugli effetti invasivi e pervasivi delle immagini belliche tenendo conto di un paio parametri insindacabili, ovvero considerando “il cinema nel suo complesso come luogo culturale, come pratica, linguaggio e modo di pensare” e, poi, che “la bellezza è una cosa complicata in un film”. Per cui “una fila di soldati eccitava Ėjzenštejn nello stesso modo in cui una giovane donna insolente eccitava Howard Hawks” e le reazioni ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan o degli ultimi cinque di Black Hawk Down, per dire degli esempi più attendibili ed estremi, dipendono dal fatto che “le immagini reali continuano a essere divulgate, ma la nostra cultura è annoiata dalla loro facilità di fabbricazione”. Questo è un po’ il crinale su cui La fatale alleanza, e il titolo dice già tutto, rimane in equilibrio e, come spiega molto bene David Thomson, “è qui che risiede il grande fascino dei film e la loro capacità di rendere la guerra vivida ma lontana, eccitante ma libera da danni e morte”. È un lavoro enorme, da grande conoscitore delle strutture cinematografiche, ma anche espressione di una notevole sensibilità per farci capire che la guerra ci viene propinata come se fosse inevitabile, ed “è un vento che non soffia mai in una sola direzione” e quando diventa spettacolo implica diventare “complici, spettatori che giocano sporco guardando l’immediatezza da una distanza di sicurezza”. Davanti allo schermo succede qualcosa di più e La fatale alleanza è eccellente nel dimostrare, pellicola dopo pellicola, attore per attore, e assecondando la visione di ogni regista chiamato in causa, che “immaginare una guerra, o dieci minuti di battaglia, significa fare un enorme, immotivato salto di finzione. Ma adoriamo farlo”. Con le proprietà di una scrittura chiara, limpida, essenziale che riesce a dipanare concetti complessi con un tono spigliato, e a tratti condito persino da uno spiccato  sense of humour (e non era facile viste le materie), La fatale alleanza ha una sua vastità: percorre in sostanza tutta la storia del cinema e arriva ai nostri giorni, però è estremamente scorrevole perché non c’è nulla di intellettualoide o di specializzato anche rispetto alla forma d’arte cinematografica. È una dissertazione molto appassionata nel suo svolgersi e anche precisa con parecchi temi che il lettore potrà approfondire a parte e tra questi tanti libri, romanzi e saggi e poesie, perché è necessario un background di spessore per comprendere come “ciò che rende la guerra un’esperienza culturale così impegnativa è l’instabilità nella quale cerchiamo di rimanere noi stessi”. Questi sono i veri danni collaterali che La fatale alleanza mette in evidenza, chiamandoci in causa: “Dover recitare la parte di semplici spettatori con l’ordine di restare fermi o calmi è umiliante, oltre a essere l’espressione di un ulteriore impoverimento della nostra possibilità di essere persone reali”. Un corto circuito che in un episodio di Generation Kill si manifesta apertamente, quando un gruppo di marines riprende il bombardamento di un villaggio inerme esclamando, in coro: “È dannatamente reale”. Bellissimo e importante, La fatale alleanza riesce a mettere a fuoco quel tragico abbaglio, che ormai viviamo ogni giorno.