Secrezioni, esalazioni, umori, odori, sudore, sangue e altri fluidi molto meno nobili: non c’è nessuno più umano di Seymour Bazett che, giunto alla tenera soglia dei cent’anni, rilegge un secolo di vita e di storia. È una lunghissima confessione, in prima persona, che vede Seymour dialogare con le pietre e i fossili, un legame particolare nato dal lavoro in campagna e nell’orto e dall’attitudine dichiarata a scavare nascondigli e rifugi: “Ho passato troppa parte della mia vita a evitare esperienze dolorose nell’unica maniera che conoscevo: seppellendole sottoterra, per scoprire solo più tardi che là sotto si erano mineralizzate e di conseguenza preservate, come sempre succede alla verità”. Questo modus vivendi ha, per sua stessa ammissione, un paio di notevoli controindicazioni: la prima è che la conservazione della memoria è un’arma a doppio taglio (“Il fatto è che ho accumulato i miei ricordi sottoterra più a lungo di quanto mi interessi di ricordare”) e la diretta conseguenza è che prende forma un’eccentrica geologia dei sentimenti e delle emozioni (“Credetemi, è una sensazione davvero strana quando il vostro stesso passato vi mette davanti una vita intera piena di piccole sorprese”) che pare indipendente dai calendari e dagli annali. Nell’Australia tra il 1901 e il 2000, la famiglia Bazett è attraversata dagli sviluppi casalinghi e dalle questioni mondiali che si intersecano con un ritmo convulso, determinato dalla coalizione di miti e folklore, canzoni (“Sì, canzoni: se canti, mandi via gli spiriti”) e divagazioni surreali, fantasmi e apparizioni assortite compresi. L’esordio di Paul Horsfall è un romanzo singolare, alimentato da una scrittura densissima, a tratti impenetrabile, proprio come il paesaggio e la storia australiana. Una scena dopo l’altra, La pietra di paragone allinea un’interminabile sequenza di momenti sporchi e intensi che puzzano di vita dato che “se c’è un po’ di verità nelle storie che scriviamo, sarebbe meglio che l’inchiostro venisse dal nostro corpo” e da un organo in particolare (“Vi sorprendereste alle cose che il cuore vi racconta, storie di scuola, verità di casa, fortuna, il futuro”). Per le sue abitudini campestri, Seymour ha sempre le mani luride, ma nel legame misterioso con le rocce e l’humus, ha maturato capacità divinatorie che gli permettono di vedere e sentire dimensioni parallele oltre la realtà. Ai richiami e alle formalità preferisce passare intere giornate “a riempire pozzi da minatore, a portar via il pietrisco fastidioso per gli occhi che era in cortile, e a cercare di rimettere a posto il mio giardino, se non la mia vita”. Così alla scoperta del sesso e alle avventure dell’infanzia si sovrappongono la prima e la seconda guerra mondiale, l’avvento dei movimenti sindacali, le rivendicazioni degli aborigeni, tutto un susseguirsi di istantanee che Paul Horsfall celebra con uno stile caustico, ironico ed effervescente, ma anche oscuro e criptico com’è il carattere del suo protagonista Seymour Bazett alla fine si convince che “tutte le cose importanti fanno male”, ma continua ad ascoltare i frutti delle sue sepolture. Intanto, “i fossili sanno tutto sulla teoria geologica dei momenti giusti, dei tempi di transizione da una fase storica a quella successiva. Li chiamano catastrofi”, e se su questo non c’è dubbio, d’altra parte, “le pietre mi chiedono di dire qualcosa, prima che loro stesse comincino a parlare. Dovrò farla breve, ma hanno convenuto che non c’è niente di male. Comunque, a parte questa breve intromissione, in tutti i sensi, la cosa mi è completamente sfuggita di mano”, e anche qui bisogna riconoscere a lui e a Paul Horsfall il dono della sincerità. Entrambi sono andati un po’ oltre, ma tutto sommato a volte è proprio quello che serve.
lunedì 3 novembre 2025
lunedì 20 ottobre 2025
Cameron Stewart
Non c’è una risposta alla domanda compresa nel titolo, come non c’è quando una perdita, il lutto, il senso di colpa, il rimpianto scavano nelle profondità dell’anima. Perché i cavalli corrono? (nella traduzione di Barbara Ronca), potente esordio di Cameron Stewart, esplora il tentativo di ricomporre un quadro che non si può ricomporre, come se la tragica forza del dolore fosse un inesorabile buco nero. Ingvar, la cui formazione razionale e scientifica è travolta dalla brutalità degli eventi, si ritrova a fronteggiare un’espiazione impossibile e affida quello che gli resta a un cammino che non ha destinazione, e a un dialogo afono o il più delle volte limitato da un pezzo di carta e un mozzicone di matita perché non vuole più parlare: “E le parole? Le parole sono diventate concetti astratti, quasi irriconoscibili, futuro, casa, amore, gioia, come se fossero straniere, come se fossero pronunciate in swahili. Le parole hanno poco significato. A me non servono più”. Ingvar vaga senza meta, assecondando una vita bucolica fatta di nudità e silenzi nella pioggia che Cameron Stewart ritrae con una cura ossessiva dei minuscoli dettagli, di quel poco che gli rimane, delle ferite, del paesaggio incombente che, nonostante la vastità, la natura impervia e il clima estremo, le asperità della strada e degli orizzonti, lascia intravedere altre presenze e capita anche quando Ingvar si avventura in antichi sentieri che “spesso conducevano a una sorgente o a un buon posto per accamparsi, e quando gli capitava di trovare un mucchio di sassi disposti con cura, o un albero con delle incisioni, lo coglieva la sensazione di non essere completamente solo: di essere comunque, ancora, parte di qualcosa”. È soltanto quello, in mezzo al florilegio di definizioni vegetali e animali, e per Ingvar è sufficiente perché “il tempo trascorreva e lui esisteva. Tutto qui”. Finché, guidato dai ricordi intermittenti che lo conducono verso il terreno dell’infanzia, non si ritrova in una valle e conosce l’anziana Hilda, un’allevatrice rimasta sola dopo il suicidio del marito, Col. I fantasmi del passato sembrano avvicinarli: Ingvar si stabilisce in un capanno, lavora per e con Hilda (compreso l’ingrato compito di raccogliere le zecche), ma non riesce a collocarsi in “un mondo costruito da forme”. È comunque fuori posto con le persone, come se fossero stranieri, ospiti, di passaggio, parte sfuggente del territorio. Qualcuno lo evita o lo aggredisce, altri lo considerano un incontro bizzarro, come la giovane Ginger che vede sull’altra sponda di un ruscello, o Mayor che, con il dono dell’ironia, spiega che “le seppie hanno tre cuori e il sangue blu ma in confronto a noi sono niente. Siamo le creature più strane di questo cazzo di pianeta”. Nessun dubbio, e per Ingvar, che “vedeva il mondo in silhouette”, la redenzione resta una chimera, inafferrabile come i movimenti notturni di un cane randagio. Le atmosfere sono intense, ed emozionanti, il viaggio è faticoso, e dentro le minuziose apparizioni botaniche, ornitologiche, entomologiche e minerali di cui è costellato Perché i cavalli corrono? diventa via via sempre più chiaro che “l’amore e la speranza non sono che screziature d’oro in una vena di quarzo”. Deve essere proprio così e d’altra parte qualcuno sostiene che “forse la narrativa è solo una prova generale per la vita reale” e va riconosciuto a Cameron Stewart, in questo senso, di aver saputo leggere nel solco di altri autori australiani, tra cui Tim Winton, ma soprattutto Paul Horsfall. In effetti, Perché i cavalli corrono? ha molte affinità con La pietra di paragone: stessa terra, stessa acuta sofferenza, stesso coraggio nell’affrontarli con le armi fragili e complicate delle parole.
venerdì 3 ottobre 2025
Edgar Morin
Difficile condensare il pensiero di Edgar Morin nell’esiguo spazio di un click digitale. La sfida, per uno capace di articolare le proprie valutazioni in modo ampio e completo, era abbastanza impervia. Eppure, persino un’età veneranda in cui certe prove si possono eludere, Edgar Morin ha scelto di accettare anche solo per capire l’utilizzo di strumenti correnti, tra l’altro ammettendo che “tutte le svolte che ho imboccato nella vita erano altamente improbabili”. Il risultato è una serie di aforismi che spaziano tra temi diversi e spesso distanti tra loro, ma affrontati sempre con chiarezza e con una predisposizione molto umile dettata dal fatto che “conoscere e pensare non è attingere una verità assoluta: è dialogare con l’incertezza”. Il dubbio, secondo Edgar Morin, è una condizione permanente e lo persegue eleggendolo a obiettivo principale che permea tutti gli aforismi, del resto “quando le domande trovano risposta prendono forma nuovi enigmi o nuovi misteri. Gli uni ammettono una soluzione, gli altri no”. La sua attenzione è rivolta alla storia che è fatta “di emergenze, crolli, stasi e cataclismi, biforcazioni, turbolenze ed eventi inattesi” e che “innova, traligna, vacilla. Cambia binario, sbaglia direzione. È fatta di correnti e controcorrenti”, ma è anche “una sequela di inganni e illusioni. La menzogna e l’errore sono più comuni della verità”. I frammenti sono correlati da una distinta comprensione della realtà che “obbedisce di rado ai nostri auspici, e meno che mai alle nostre decisioni” e dalla consapevolezza di “quante verità ufficiali e quante certezze assolute, con il passare del tempo, si sono ridotte a errori e illusioni”. Secondo Edgar Morin la stessa cognizione di cultura è deformata mentre “viviamo nell’illusione di un progresso quantitativo della conoscenza per accrescimento lineare delle informazioni. Ma in termini qualitativi la conoscenza regredisce, perché stentiamo a collegare quelle informazioni”. Tra l’incubo ricorrente e purtroppo sempre attuale della violenza e delle armi (“La guerra mette la ragione al servizio della follia”) e l’urgenza di immaginare un’altra dimensione vitale (La bellezza non è mai superflua”) Edgar Morin ci ricorda che “Nutriamo gli anticorpi sociali e culturali che portiamo in noi: amicizia, solidarietà, fraternità, comunione, amore, i capolavori della poesia, della letteratura, della musica, della pittura, del cinema”. Di tutti questi Edgar Morin si premura di precisare che “solo la letteratura ci mostra l’essere umano nella sua soggettività, nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nei suoi rapporti con il prossimo, nel suo contesto sociologico, storico e sociale. La letteratura non è solo un’arte, è anche una modalità conoscitiva”, per poi offrire un’ulteriore distinzione: “Senza la prosa non si dà la poesia, come non può darsi la gioia senza la sofferenza”. Coltivare il sapere resta il leitmotiv di questi “semi”, però è soltanto l’inizio (“Una teoria non è conoscenza, ma rende possibile la conoscenza. Una teoria non è un punto di approdo: è la possibilità di una partenza”) di un “metodo” molto più articolato (“La mente complessa ha un’altra percezione del mondo: non vede più un mondo di oggetti irrelati, ma un mondo fatto di interconnessioni, interazioni, retroazioni”). In effetti, nell’avviso finale di Edgar Morin ricorda che “l’atteggiamento di chi spera si fonda sulle possibilità ancora inespresse del genere umano, è una scommessa sull’improbabile. Non è più la speranza escatologica dello scontro finale. È la speranza coraggiosa della lotta che inizia”. Le parole, poche o tante che siano, servono solo a ricordarci che “ciascuno di noi porta in sé il segreto del mondo e nessuno sa quale sia”. Da tenere a portata di mano, il futuro incombe.
giovedì 2 ottobre 2025
Ryszard Kapuściński
Risalta una frase tra i quattro interventi raccolti in questo piccolo libro. Riguardano tutti L’altro e Ryszard Kapuściński li espone nella cruciale zona d’ombra tra la fine del ventesimo secolo e l’inizio del successivo in occasioni pubbliche a Vienna, Graz e Cracovia. I tragitti mitteleuropei, che per Kapuściński è come sentirsi a casa, lo spingono a riflettere sulle affinità elettive dell’incontro, primo e indispensabile stadio per raggiungere L’altro, e, a scanso di equivoci, chiarisce subito che “siamo responsabili della strada che percorriamo”. È una precisazione che lo riguarda in prima persona: da reporter ha attraversato nazioni dopo nazioni in ogni continente e l’esperienza coltivata insieme alla “curiosità per il mondo” lo porta a formulare un preciso impegno, preliminare ineludibile su cui ragionare prima di qualsiasi movimento: “Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo a un evento di cui siamo nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa”. È una considerazione che Kapuściński traduce dall’esperienza personale sul campo a quella strettamente letteraria. Da Erodoto, il primo a riconoscere “l’altro” al suo riconoscimento nelle indefinite proiezioni del “villaggio globale”, Kapuściński si inoltra nei territori dove la diversità si esprime in forme mutevoli con le ricchezze e le contraddizioni che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Con la consueta lucidità e con grande equilibrio, Kapuściński sa districarsi tra le diverse voci, assumendo anche posizioni discordanti, come succede rispetto allo stesso Marshall McLuhan. La discontinuità stessa dei termini della globalizzazione, in virtù dell’evoluzione dei mezzi di trasporto e delle reti digitali riconduce a un paragone senz’altro più realistico rispetto all’originale locuzione di McLuhan che Kapuściński non manca di far notare: “L’essenza del villaggio consiste nel fatto che i suoi abitanti si conoscono intimamente, si frequentano e condividono un destino comune. Cosa impossibile da dirsi nella società del nostro pianeta, che fa piuttosto pensare alla folla anonima di un grande aeroporto: una folla di persone frettolose, sconosciute tra loro e perfettamente indifferenti le une alle altre”. L’empatia per L’altro è solo un primo, fragile passo e per riconoscerne l’identità è indispensabile alimentare estensioni culturali che sappiano andare oltre il contatto spontaneo tra gli individui. L’altro, ovunque lo si collochi, è una rifrazione ed è la metà complementare di un’unità dinamica, i cui lavori in corso non si fermano mai. Ignorare quest’ordine, con un’accezione distorta delle differenze, porta soltanto alle divisioni, ai muri, alla perpetrarsi dei conflitti, ma questa è storia e cronaca che purtroppo conosciamo bene. Nella visione di Kapuściński L’altro è costituito con maggiori margini di certezza e nelle sue generose prolusioni attinge piuttosto al pensiero filosofico di Martin Buber, Ferdinand Ebner, Gabriel Marcel ed Emmanuel Lévinas che raduna uno dopo l’altro, tutti insieme, nel confezionare “l’idea dell’altro in quanto essere unico e irripetibile”. L’altro è una constatazione che traccia una linea precisa, una congiunzione netta che, soprattutto di questi tempi, è più necessaria che mai.
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