giovedì 24 ottobre 2024

David Thomson

Generation Kill è una serie della HBO che segue le gesta dei marines nella guerra in Iraq ed è molto efficace nella ricerca linguistica e nel modello delle immagini, tanto da rappresentare quasi una versione aumentata della realtà. Sarebbe stato interessante conoscere il parere di David Thomson a proposito, perché La fatale alleanza è un libro davvero scrupoloso che si addentra con grande coraggio e generosità nell’indagare “un secolo di guerre al cinema”. Un argomento difficile da seguire, spinoso, complesso e con cui confrontarsi perché “c’è qualcosa di naturale nella guerra. O che va oltre la ragione”, ed è qualcosa di cui ci sfugge ancora il senso, nonostante occupi il nostro immaginario. Non è soltanto il cinema, anche se dipendiamo da “un golpe cinematografico del combattimento” come lo chiama David Thomson, al punto che ormai “non possiamo fidarci al cento per cento di ciò che vediamo, perché la raffinatezza del cinema ha umiliato e ingannato le nostre tragedie”. Per arrivare a una conclusione così, è necessaria lunga dissertazione sugli effetti invasivi e pervasivi delle immagini belliche tenendo conto di un paio parametri insindacabili, ovvero considerando “il cinema nel suo complesso come luogo culturale, come pratica, linguaggio e modo di pensare” e, poi, che “la bellezza è una cosa complicata in un film”. Per cui “una fila di soldati eccitava Ėjzenštejn nello stesso modo in cui una giovane donna insolente eccitava Howard Hawks” e le reazioni ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan o degli ultimi cinque di Black Hawk Down, per dire degli esempi più attendibili ed estremi, dipendono dal fatto che “le immagini reali continuano a essere divulgate, ma la nostra cultura è annoiata dalla loro facilità di fabbricazione”. Questo è un po’ il crinale su cui La fatale alleanza, e il titolo dice già tutto, rimane in equilibrio e, come spiega molto bene David Thomson, “è qui che risiede il grande fascino dei film e la loro capacità di rendere la guerra vivida ma lontana, eccitante ma libera da danni e morte”. È un lavoro enorme, da grande conoscitore delle strutture cinematografiche, ma anche espressione di una notevole sensibilità per farci capire che la guerra ci viene propinata come se fosse inevitabile, ed “è un vento che non soffia mai in una sola direzione” e quando diventa spettacolo implica diventare “complici, spettatori che giocano sporco guardando l’immediatezza da una distanza di sicurezza”. Davanti allo schermo succede qualcosa di più e La fatale alleanza è eccellente nel dimostrare, pellicola dopo pellicola, attore per attore, e assecondando la visione di ogni regista chiamato in causa, che “immaginare una guerra, o dieci minuti di battaglia, significa fare un enorme, immotivato salto di finzione. Ma adoriamo farlo”. Con le proprietà di una scrittura chiara, limpida, essenziale che riesce a dipanare concetti complessi con un tono spigliato, e a tratti condito persino da uno spiccato  sense of humour (e non era facile viste le materie), La fatale alleanza ha una sua vastità: percorre in sostanza tutta la storia del cinema e arriva ai nostri giorni, però è estremamente scorrevole perché non c’è nulla di intellettualoide o di specializzato anche rispetto alla forma d’arte cinematografica. È una dissertazione molto appassionata nel suo svolgersi e anche precisa con parecchi temi che il lettore potrà approfondire a parte e tra questi tanti libri, romanzi e saggi e poesie, perché è necessario un background di spessore per comprendere come “ciò che rende la guerra un’esperienza culturale così impegnativa è l’instabilità nella quale cerchiamo di rimanere noi stessi”. Questi sono i veri danni collaterali che La fatale alleanza mette in evidenza, chiamandoci in causa: “Dover recitare la parte di semplici spettatori con l’ordine di restare fermi o calmi è umiliante, oltre a essere l’espressione di un ulteriore impoverimento della nostra possibilità di essere persone reali”. Un corto circuito che in un episodio di Generation Kill si manifesta apertamente, quando un gruppo di marines riprende il bombardamento di un villaggio inerme esclamando, in coro: “È dannatamente reale”. Bellissimo e importante, La fatale alleanza riesce a mettere a fuoco quel tragico abbaglio, che ormai viviamo ogni giorno.

giovedì 10 ottobre 2024

William Dalrymple

L’etimologia del termine “loot” inteso bottino, risale ai tempi della Compagnia delle Indie Orientali (CIO) e non potrebbe essere diversamente. Per quasi due secoli una società privata ha saccheggiato le risorse del subcontinente indiano, spianando la strada all’imperialismo inglese, che poi avrebbe dominato fino al 1947. La storia è intricatissima: come un processo virulento la CIO si è intrufolata nelle ingarbugliate dinamiche della regione già a partire dal diciassettesimo secolo, prima come partner commerciale e poi come avamposto militare. Questa doppia e ambigua natura, di fatto una replica dell’apparato statale ma senza i contrappesi istituzionali, ha sconvolto a più riprese l’equilibrio fragile e cosmopolita dell’India. Come scrive William Dalrymple nell’introduzione: “Una società di capitali multinazionale era in procinto di trasformarsi in un’aggressiva potenza coloniale”. Le ataviche lotte per la conquista dei territori, dei tesori e soprattutto del gettito fiscale sono state l’humus perfetto per le intrusioni economiche e militari della CIO. William Dalrymple elenca campagne, battaglie, intrighi e congiure ,  rovesci, tradimenti e rivolte, massacri e carestie offrendo, grazie a un densissimo lavoro di ricerca, una ricostruzione fedele dei conflitti, una saga interminabile e sanguinosa che ha visto la CIO protagonista per la spregiudicatezza, il cinismo, l’avidità e la corruzione con cui si muoveva nell’intricato scacchiere indiano. Il racconto è avvincente, in tutta la gamma delle sfumature, dalle gesta bellica ai risvolti finanziari, William Dalrymple usa un tono quasi romanzesco per dipanare una realtà spinosa, a dir poco, ma alla fine è chiaro e impietoso: quando la CIO, “una società mercantile acquisì per la prima volta un potere politico reale e tangibile”, si dimostrerà una struttura fuori controllo che fomentava guerre, finanziava colpi di stato, tramava in continuazione senza alcun confine giuridico o morale, con l’obiettivo principale, se non proprio unico, di predare ogni risorsa per la società, e per gli azionisti. Adam Smith (non uno qualsiasi), la definirà “una strana assurdità, una compagnia-Stato” e il termine “anarchia” va inteso come caos (politico, militare, sociale, economico) da cui la CIO ha progressivamente tratto il suo enorme potere, con “spese militari fuori controllo e caos finanziario”. È necessario ricordare, come fa con estrema chiarezza William Dalrymple, che “l’inarrestabile espansione dell’impero indiano della Compagnia non sarebbe stata possibile senza il sostegno politico ed economico di questi gruppi di potere regionali e delle comunità locali. L’edificio della Compagnia delle Indie Orientali si reggeva sul delicato equilibro che essa seppe mantenere con mercanti e mercenari, nawab e Raja suoi alleati e, soprattutto, con i suoi docili banchieri”. Le condizioni geopolitiche e belliche si ripetono da un secolo all’altro finché all’alba del diciannovesimo secolo la CIO, cospirando in continuazione e alimentando eserciti di proporzioni bibliche, è riuscita, in un modo o nell’altro, a prendere il controllo dell’intera India. A quel punto però le disinvolte pratiche (diciamo così, giusto un eufemismo) di “colonialismo aziendale” avevano allarmato le istituzioni inglesi e la CIO venne nazionalizzata, rivelandosi alla fine soltanto la testa di ponte, tanto brutale quanto sacrificabile, dell’imperialismo e del colonialismo di sua maestà, ovvero di “una nuova e aggressiva concezione dell’Impero britannico in India come un’iniziativa non privata ma di Stato”. A William Dalrymple non sfugge un parallelo con le attuali multinazionali, avendo compreso che “nell’intima danza tra il potere statale e quello aziendale quest’ultimo, benché possa essere regolamentato, vi si opporrà con tutte le risorse di cui dispone” ed è così che il loro strapotere è in grado di influenzare stati e governi in ogni angolo del globo: una natura avida e rapace che si intravede già, secoli fa, nello sviluppo della CIO e del destino, suo e dei suoi uomini. Un libro imponente e importante.

mercoledì 9 ottobre 2024

Anthony Burgess

Hemingway nel discorso di accettazione del premio Nobel disse che “se è uno scrittore abbastanza in gamba, deve affrontare l’eternità, o la mancanza di essa, ogni giorno”. La biografia di Anthony Burgess sembra partire proprio da lì, spiegando che sebbene “i difetti dell’uomo alla fine abbiano mutilato l’opera, al suo meglio Heminway è una forza generatrice di ulteriori sviluppi pari a quella di Joyce, Faulkner o Scott Fitzgerald. E anche nel peggio ci ricorda che, per impegnarsi nella letteratura, bisogna prima impegnarsi nella vita”. Non si può dire che Hemingway non ce l’abbia messa tutta: l’aspetto fisico, fin dall’incipit, l’infanzia tratteggiata rispetto ai nodi famigliari, il suggerimento di Sherwood Anderson di andare a Parigi “dove, come dice Henry James, perfino l’aria è soffusa di stile”, gli incroci con James Joyce, Ford Madox Ford e Gertrude Stein raccontano una formazione che è stata tutta un’esperienza. Seguendolo, Burgess alterna i tratti storici a quelli critici, che riguardano i romanzi, i racconti e più in generale lo stile di Hemingway: la biografia è essenziale e in parte sbrigativa, ma funziona a livello introduttivo e contiene un po’ tutto: il carattere volubile, gli eccessi (nel cibo e dell’alcol), i viaggi e le peripezie, ma anche una rilettura approfondita del suo lavoro, come capita a Morte nel pomeriggio, “un ponderoso studio sulla metafisica della corrida”. La tauromachia vista da Hemingway è quasi un’anticipazione visionaria della guerra civile spagnola e Anthony Burgess si avvicina alla sua scrittura con genuina passione, ma non risparmia critiche attente e significative: “Hemingway non fu mai molto bravo come inviato di guerra. Il talento di romanziere lo spingeva a inventare, a organizzare la realtà in schemi estetici, a coltivare l’impressionismo che Ford Madox Ford incoraggiava a portare dalla letteratura nella vita reale”. Mentre si susseguono matrimoni e divorzi, avventure più o meno vere nel corso di due guerre mondiali, la pesca, la caccia e la boxe Burgess legge con scrupolo e senza esitazioni Di là dal fiume e tra gli alberi, analizza il successo raggiunto con Il vecchio e il mare, che “affronta il tema del coraggio mantenuto dinanzi al fallimento” e compie anche una cernita tra i fatti e le invenzioni che permette una conoscenza più che sufficiente tenendo anche conto che “la letteratura non è fondamentalmente invenzione: significa disporre entro modelli estetici le données di un’esperienza di vasta portata”. Senza dubbio, Hemingway rimane un profilo complesso, articolato e spesso contraddittorio: Anthony Burgess ha il pregio di trovare un ordine o, almeno, una coerenza nel corso di una vita caotica. Non è un’analisi risolutiva, ma almeno pone le basi per un ritratto dignitoso ed efficace, dove Anthony Burgess riassume così il senso di un’intera figura: “Hemingway non si accontentò di eccellere nel ruolo di cacciatore, pescatore, pugile e capo guerrigliero. Dovette trasformarsi in un mito omerico, il che significava posare e mentire, trattare la vita come un romanzo”. Su questo, il suo lavoro biografico incide nell’insieme con una sua precisione, anche nel rileggere i principali passi stilistici di Hemingway. Il pregio principale resta quella separazione piuttosto precisa tra la leggenda che si è costruito da sé, e l’effettivo valore dello scrittore che ha saputo trovare un nuovo modo di esprimersi: “Il fine artistico di Hemingway era originale come quello di qualunque altro intellettuale di avanguardia che dissertava nei caffè sui boulevard. Scrivere senza fronzoli, senza imporre il proprio modo di pensare, far sì che parola e struttura esprimano pensiero, sentimento e anche fisicità, sembra facile oggi, soprattutto perché Hemingway ci ha mostrato come farlo, ma non era facile quando letteratura significava ancora stile calligrafico in senso vittoriano, con abbellimenti neogotici, allusioni pedanti, una struttura intricata di frasi subordinate, la personalità dell’autore frapposta, timidamente o brutalmente, fra il lettore e l’opera scritta”. Molto accurata anche la descrizione del crepuscolo riportato da Anthony Burgess dove ricorda quello che diceva Hemingway, ovvero che “scrivere significa, nel migliore dei casi, una vita solitaria”, e su questo non si discute.

martedì 23 luglio 2024

Edgar Selge

Il cielo sopra Berlino è tumultuoso e il ritratto di una famiglia, quella di Edgar Selge, triste a modo suo, ne è il riflesso spontaneo, mutevole ed elettrico. La condizione iniziale vede protagonista, su tutti, il padre che è il direttore di “un carcere prussiano costruito a regola d’arte” e in precedenza ha gestito, con gli alleati, la prigionia degli ultimi gerarchi nazisti. Autoritario, e violento (anche incestuoso, per non farsi mancare niente), coltiva l’ossessione per la musica da camera costringendo moglie e figli a seguirlo verso una dimensione irraggiungibile. Sì, perché se all’inizio “in un battito di ciglia, un’idea musicale esplode in un vortice di forme. L’energia si moltiplica. Qualcosa si è risvegliato, ha scoperto le proprie possibilità, e ora che è stato disturbato non lo si può placare. È una traccia che divora la vita”, poi ritmo, intonazioni, sincopi, note e accenti devono essere perfetti e ogni esecuzione deve essere comprensiva di “sforzo, duro allenamento, a volte persino umiliazione. La gioia arriva semmai alla fine, come una sorta di ricompensa”. Prima, è molto improbabile che succeda qualcosa e l’assillo per la musica concepita come una forma rigida, è solo una gabbia protettiva, ma pur sempre una gabbia. Edgar soffre il padre, facile ai ceffoni e alle angherie, e coltiva un rifugio immaginario dove si crede Kesserling, riesumando e rielaborando i fantasmi dei bombardamenti e dei campi di concentramento. La memoria è una condanna capitale: l’ombra luttuosa del nazismo, l’ambiguità delle connivenze, i tentativi di ripristinare lo spirito di una nazione definiscono l’esperienza quotidiana non meno delle macerie, dei limiti economici e, più di tutto, dell’incognita del futuro. Questi sono gli argomenti che aleggiano e sono definiti dalle figure adulte, che Edgar osserva con scrupolo, cercando di comprenderli. Non è facile in condizioni cosiddette normali, perché “tendiamo sempre a pensare che i tempi cambino. Ma è vero solo a metà. Le persone restano uguali”, figurarsi a Berlino, dopo la fine della seconda guerra mondiale. È lì che Edgar alias Etja esce dagli schemi e, noncurante delle sberle in arrivo, si dedica al cinema, si innamora e, non corrisposto, combina un disastro, uno dei tanti, fino a scoprire che “la vita è un edificio fragile, adesso lo sappiamo, e possiamo meravigliarci di essercelo dimenticato”. La scrittura è farcita di riferimenti, con I fratelli Karamazov, Shakespeare, Rembrandt, Mozart e Proust in prima fila, ma è  lineare nello stile, per quanto Edgar Selge continui a saltare per linee temporali non coerenti. Il suo sguardo si trasforma nel corso degli anni e, tra un flashback e l’altro, risale l’albero genealogico segnato dai conflitti mondiali, come se l’intera schiera di parenti soffrisse di disturbo da stress post-traumatico. Finalmente ci hai trovati (nella traduzione di Angela Ricci) è una matrioska che Edgar Selge svela un pezzo dopo l’altro. L’amore, il dolore, le incomprensioni, le speranze sono incapsulate e sfuggenti, tanto da rendersi necessaria un’avvertenza esplicita: “Mi piacerebbe che la vita e le sue circostanze vi si imprimessero così tanto, che a partire da quei tratti fosse possibile ripercorrere a ritroso le loro storie. Ma la vita sui volti cresce in un altro modo. È invisibile. Al massimo si può intuire la forza degli eventi passati, ma non di più”. Assecondando il punto di vista di una giovane anima ribelle, Edgar Selge supera i risvolti autobiografici e con Finalmente ci hai trovati dimostra che esiste ancora la possibilità di raccontare “le onde della vita”, ma anche di mettere in discussione tutto: patria, famiglia, istituzioni, tempo e storia. Per essere un esordio, anche un po’ avanti negli anni, non è poco.