In Funny Valentine non c’è soltanto la vita di Chet Baker, che pure basterebbe da sola a riempire un tomo di proporzioni bibliche: con lui, Matthew Ruddick introduce e accompagna mezzo secolo di jazz life, con tutti gli estremi, le scoperte, le follie e le deviazioni. È un pianeta a parte con un suo fascino, decadente e pericoloso, ma avvolgente. Ma, anche lì, incredibilmente, Chet Baker resta uno straordinario outsider. È come se, per tutta la vita, abbia combattuto per liberarsi, per uscire da una prigione. Un’impressione condivisa da Hal Galper che ricordava: “Chet (Baker) era un musicista romantico, nonostante neanche una cellula del suo corpo lo fosse”. Uno scontro schizofrenico in cui l’assunzione di eroina è stato un palliativo, diventando a sua volta un labirinto fatale. All’interno di questo schema, in gran parte inevitabile, il lavoro di Matthew Ruddick è meticoloso senza essere pedante (come spesso capita quando dietro un autore c’è anche un appassionato fan): è una narrazione dei fatti precisa e documentata e dal punto di vista musicale si mantiene su una linea accessibile, senza scadere in complicate analisi o dissertazioni musicologiche. In più, Matthew Ruddick sa di non essere il primo arrivato e infatti riprende con una certa generosità la biografia di James Gavin Chet Baker. La lunga notte di un mito, così come l’autobiografia, Come se avessi le ali, cedendo volentieri il passo ad altre voci, compresa quella di Jack Montrose che diceva: “Chet era unico, ed era abbastanza diverso dal resto delle persone che popolavano quel mondo. Non aveva alcun interesse per il business, né per quello che si lasciava alle spalle, anche in quel momento. Non sapeva neanche lui come aveva fatto ad avere successo. Non si preoccupava di nulla. Non credo fosse in grado di gestire il successo, non era in grado di gestire nulla”. In effetti, la storia sfiora sempre i contorni noir: dalla mancata sparatoria con Herb Alpert all’astio di Miles Davis, fino al quel giornale italiano che lo chiamava “il veleno del jazz”, Funny Valentine parte da lontano perché Matthew Ruddick ricostruisce i contrasti famigliari con il padre alla fonte del disagio di una vita ma poi in qualche modo la musica vince, sempre d’istinto, sempre a orecchio perché come esattamente come ha vissuto, Chet Baker ha suonato. In questo Matthew Rudnick vede ancora giusto quando scrive: “Credo ci sia qualcosa di addirittura eroico nel modo in cui Chet Baker rimase fedele ai suoi principi musicali, senza lasciarsi influenzare dalle disavventure o dai problemi della vita privata”. Gli aneddoti si sprecano. Intanto Chet Baker ricorda il suo maestro: “Bird mi trattava come fossi suo figlio. Solo oggi riesco a capire quanto disponibile e comprensivo sapesse essere. Suonava solo i brani che io conoscevo meglio ed evitava i tempi velocissimi che pure gli piacevano un sacco”. Poi dall’incontro con Gerry Mulligan, descritto in modo approfondito, attraverso le notti di Parigi e lungo la caccia a quei momenti magici, Chet Baker condensa la sua splendida ossessione così: “Quando suoni, cerca le note dorate, non quelle blu”. La legge del contrappasso prevede un malinconico epitaffio tratto dalla melodia di Everything Happens To Me dove Chet Baker canta: “Prenoto per giocare al golf, e puoi scommettere qualunque cosa che verrà a piovere. Do una festa a casa e l’inquilino del piano di sopra si lamenta. La mia vita sarà tutto un raffreddore e un perdere treni. Capita tutto a me”. Ma qualcuno, rispondendo a William Claxton, aveva capito quello che aveva dentro: “Puro semplice… Voglio dire, quel giovanotto ha suonato in modo puro e semplice, capisci cosa intendo? Qualcosa, in lui e nel suo modo di suonare, era puro e semplice, e l’ho avvertito subito, dopo pochi secondi. Lui era quello giusto”. Firmato: Charlie Parker.
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