martedì 12 giugno 2018

John Berger

John Berger è un autore che ha vissuto la scrittura in termini quasi rinascimentali. Sia che si tratti di critica, saggistica o reportage, sia che si tratti di narrativa, la sua visione sembra essere sempre in cerca di un quadro ideale, fosse soltanto una fotografia, un modello per identificarci, per capire, per arrivare da qualche parte. Perché, come scrive in uno dei passaggi più significativi di Sacche di resistenza “un luogo è più di un’area. Un luogo delimita qualcosa. Un luogo è l’estensione di una presenza o la conseguenza di un'azione. Un luogo è l'opposto di uno spazio vuoto. Un luogo è dove un avvenimento ha avuto o ha luogo”. Sacche di resistenza è una raccolta di saggi che, partendo in gran parte dalla pittura, affrontano con la consueta lucidità la vita dei tempi moderni. Allora non importa se l’argomento è Michelangelo piuttosto che Degas, Morandi o Brancusi, Rembrandt o Gianni Celati: John Berger usa la scrittura per interpretare paesaggi e dipinti con la convinzione che “noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assolutamente misteriosa, che nessuno vedrà mai”. Il metodo, molto scrupoloso, serve ad approfondire le condizioni della luce in Europa, almeno quanto per scandagliare il nostro quotidiano dove “tutto quello che ci è dato da condividere è lo spettacolo, il gioco che nessuno gioca in proprio e che tutti possono star a guardare”. Qui John Berger sembra ricorda, anche involontariamente, La società dello spettacolo dove Guy Debord sottolineava che: “Più la necessità viene a essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno”.  Le Sacche di resistenza ribadiscono nella loro immediatezza attraverso piccoli bozzetti letterari, a volte veri e propri saggi, in qualche caso persino scambi epistolari  che “la nostra vita quotidiana è uno scambio costante con le apparenze da cui siamo circondati: spesso familiari, talvolta nuove e impreviste, ma sempre lì, a confermarci che esistiamo”. Nell’adottare un “modo di guardare” il passaggio attraverso la scrittura è inevitabile, e non solo perché, come diceva Francesco Biamonti, un altro narratore molto attento alla pittura, “scrivere è un disastro luminoso”. È proprio un esercizio di traduzione delle emozioni che John Berger definisce così: “L’atto di scrivere non è altro che l’atto di avvicinarsi all’esperienza di cui si scrive, proprio come l’atto di leggere il testo scritto, si spera, è un analogo gesto di avvicinamento”. È come ricalcare un ritratto, una linea dopo l’altra, e in fondo vederci comunque il nostro volto perché, così come sono raccolte nelle Sacche di resistenza, “la maggior parte delle profezie, quando sono esplicite, è destinata ad essere negativa, perché nella storia ci sono sempre nuovi incubi (anche se poi qualcuno svanisce) ma nessuna nuova felicità. La felicità è quella di sempre. Sono solo i modi per conquistarla che cambiano”.

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