Spiegando la “filologia del mare” che è l’anima di Mediterraneo, Claudio Magris scrive: “La cultura e la storia vengono calate direttamente nelle cose, nelle pietre, nelle rughe sul volto degli uomini, nel sapore del vino e dell’olio, nel colore delle onde. Matvejević cerca di afferrare il Mediterraneo, di abbandonarsi al fascino di questa parola ma anche di circoscriverne rigorosamente il significato, di tracciare limiti e confini. Egli insegue le varie piste mediterranee, quelle dei traffici dell’ambra e delle peregrinazioni degli ebrei sefarditi, dell’estensione della vite e del corso dei fiumi; i confini si fanno allora oscillanti e fluttuanti, ancorché coerenti e concentrici, disegnano ideali curve come isobare o creste d’onda”. Queste sono le tappe e la composizione del Mediterraneo è quella di un ecosistema intricato, anche per la presenza umana, perché “il sole del Mediterraneo talvolta toglie la ragione”, ed è qualcosa che ormai sperimentiamo tutti i giorni. Ne è certo Predrag Matvejević, convinto che “l’estasi o il sacrificio non riguardano solo la bellezza o la disperazione: si tratta forse anche di uno slancio o di una vertigine ai quali il Mediterraneo non ha osato dare dei nomi, che le stesse carte passano sotto silenzio”. Se “scegliamo innanzitutto un punto di partenza”, la prima panoramica che trasmette Predrag Matvejević è quella di un’area cosmopolita, termine che è stato deturpato, accantonato e infine dimenticato. Eppure, proprio “il Mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali: somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono”. Così i confini, le culture, le fedi e i commerci e le migrazioni “sono immagini con le quali tendiamo a non identificarci volentieri: ciascuno di noi è talvolta un porto affondato, sull’Adriatico o sul Mediterraneo”. La metafora è ambivalente e comunque validissima visto che “nessuno conosce tutti i popoli che vivono lungo le coste, neppure essi si conoscono abbastanza. Qualche volta non sappiamo neppure bene cosa significhi in questo caso la parola popolo: una città o un paese, una nazione o uno stato, una cosa separata dall’altra o entrambe insieme”. Tra i mille esempi possibili nei labirinti di Mediterraneo, quello che può chiarire questa fondamentale definizione, riguarda i beduini: “Mi sono imbattuto nei beduini, dal Marocco fino alla Libia, dall’Egitto fino al Sinai e alla Siria. Non sono riuscito a conoscerli: dove e perché vanno, se partono o ritornano? Appartengono a qualche nazionalità, la cercano, ne hanno bisogno? Non si riesce a capire se la loro patria è il punto da dove partono o dove arrivano o persino il tragitto che compiono. Il loro stato è il deserto che per confini ha gli orizzonti”. Quelli di Predrag Matvejević sono ampi e risoluti e rendono omaggio alla fitta tela del Mediterraneo spaziando dall’olivo a Aldous Huxley, dalla cartografia (“Su certi punti della carta geografica la storia si consegue a vicenda e accumula più che su altri: gli avvenimenti sono più numerosi e forti, i movimenti più frequenti e decisivi”) alle lingue scomparse, dai mondi latini e bizantini, a quelli arabi e africani perché il Mediterraneo è ponte e frontiera, ferita e cicatrice, abbraccio e addio insieme. Tutto rientra in uno sguardo famelico , ben riassunto da Predrag Matvejević quando dice che “il mare non lo scopriamo da soli e non lo guardiamo solo con i nostri occhi. Lo vediamo anche come lo hanno guardato gli altri, nelle immagini e nei racconti che ci hanno lasciato: veniamo a conoscerlo e lo riconosciamo al tempo stesso. Abbiamo conoscenza anche dei mari nei quali non ci specchieremo né ci immergeremo mai”. Una bibbia laica del mare.
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