Tra le personalità più affascinanti e spigolose del ventesimo secolo, Joni Mitchell non è mai stata facile da avvicinare. La rarefatta bellezza delle sue composizioni, l’intensa realtà dei legami e delle separazioni raccontata con parole raffinate e spontanee, le coraggiose svolte alla ricerca di qualcosa di nuovo, le collaborazioni con artisti altrettanto folli e geniali (David Crosby, Jaco Pastorius, Charles Mingus), i ripetuti scontri con la vacuità e l’ipocrisia dell’industria discografica hanno segnato una vita intensa che Brian Hinton ricostruisce attingendo a piene mani da fonti secondarie. Dall’infanzia nelle praterie canadesi alla scoperta della California, la nota acidula del racconto di Brian Hinton e la sua propensione a giudizi molto tranchant non toglie nulla alla grandezza di Joni Mitchell che, tra le righe, sembra avvisare del pericolo di affrontarla, perché “certe persone diventano nervose quando sentono parlare di arte. Pensano che sia una parola pretenziosa. Per me, le parole sono soltanto simboli, e la parola arte non ha mai perso la sua vitalità”. Non di meno, nelle sue dichiarazioni, rastrellate da Brian Hinton un po’ qui e un po’ là, emerge la figura di un’artista sincera fino al midollo, capace di confessare i propri limiti, senza esitazioni: “Io sono soprattutto una pittrice. Penso alla musica in termini di pittura e forma. Se aggiungo qualcuno come un colore che addolcisca il tutto, voglio che suoni qualcosa in più delle note. Voglio che suoni qualcosa figurativamente. Faccio fatica a leggere la musica, non ho un linguaggio da musicista, ho soltanto il linguaggio della metafora”. Seguendo l’istinto, Joni Mitchell ha raccontato Woodstock senza esserci stata, ha seguito le turbolenze della Rolling Thunder Revue, ha incantato aprendo il diario delle sue ferite in Blue (“Il dolore ha molto poco a che fare con l’ambiente. Puoi essere nel più bel posto del mondo e non riuscire a vedere niente per il dolore. Nella mia vita ho affrontato molti miei demoni. Un sacco erano davvero stupidi, ma per me erano estremamente reali. Non mi sento colpevole per il mio successo o il mio stile di vita”) e dei suoi viaggi in Heijra, ha suonato con jazzisti e con batterie elettroniche, con il sottofondo del frinire dei grilli o con il background di un’orchestra, sfidando di volta in volta regole e luoghi comuni, limiti e imposizioni. Inevitabile, nel corso del tempo, l’emergere di legittime rivendicazioni, che Brian Hinton non manca di riportare, anche se alla fine Joni Mitchell rimane consapevole (più di molti altri suoi colleghi) dell’ineluttabile provvisorietà dell’esperienza artistica: “Spesso mi sento come se mi fossi prosciugata, e invece improvvisamente le cose escono fuori. Ho paura di diventare una fabbricante di motivetti di successo, di scrivere soltanto canzoni, non poesia. Il processo creativo è un mistero. Rivolgi una domanda alle muse, e forse ti risponderanno qualcosa”. Cambiano gli anni e, se non sono più sufficienti “l’artificio, la brutalità e l’innocenza”, come spiegava a Bill Flananan in Scritto nell’anima, lo sguardo di Joni Mitchell resta ancora limpido, anche quando si tratta di notare le cupe svolte del destino nell’amatissimo West: “Non sono io che sono diventata pessimista, sono i tempi che sono diventati più difficili, io sono soltanto un testimone. Los Angeles è al centro del cambiamento. Adesso è una città pericolosa in cui vivere. In California, quando scrivevo le mie prime canzoni, c’era un clima del tutto diverso, la gente guidava in modo educato, la sera non si chiudevano a chiave le porte. Se tu mettevi la freccia a sinistra, la gente diceva: ma prego, vada pure. Adesso è una città dove guidano come pazzi. Se metti la freccia, credono che tu voglia superarli, e nessuno a Los Angeles si fa superare, da nessuno”. Un riassunto efficace, degno del suo segno zodiacale, che Joni Mitchell declina così: “Io sono Scorpione ascendente Scorpione e questo mi rende un po’ pungente”. Unica, e inimitabile.
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